Le prese di potere militari nelle ex colonie francesi in Africa sono il sintomo di trasformazioni profonde che si è cercato a lungo di nascondere, ma la cui improvvisa accelerazione sta cogliendo di sorpresa molti osservatori distratti. Si potrebbe sostenere che sono gli ultimi sussulti nella lenta agonia del modello francese di decolonizzazione incompiuta. In realtà queste lotte sono portate avanti da forze in gran parte interne e annunciano l’inevitabile fine di un ciclo cominciato dopo la seconda guerra mondiale e durato quasi un secolo.

Certo, ci sono ancora basi militari francesi in Senegal, Costa d’Avorio, Gabon, Ciad e Gibuti. Il franco cfa non è stato abolito e l’Agence française du développement è ancora quella di un tempo. Nel frattempo i centri culturali francesi hanno solo cambiato nome. Nonostante la presenza di questi residui del passato, la Francia non decide più tutto quello che succede nei vecchi possedimenti coloniali. La maggior parte di questi strumenti e molti altri sono diventati obsoleti. Forse è arrivato il momento di sbarazzarsene, e di farlo nel migliore dei modi. Così la frattura si sanerebbe. Messi di fronte alle loro responsabilità, gli africani non avrebbero più scuse. La decolonizzazione sarebbe completa e, soprattutto, certificata.

La stabilità e la sicurezza non si otterranno con gli interventi militari

Un ruolo secondario

Dall’inizio di questo secolo la stretta di Parigi sulle sue ex colonie si è molto allentata, a volte contro la sua volontà. In questo momento storico la Francia ha un ruolo secondario. Non perché sia stata spodestata dalla Russia o dalla Cina – due spauracchi che i nemici e i critici locali di Parigi sanno come agitare per tenerla in scacco – ma perché, in un movimento inedito e rischioso di ricentramento su se stessa, di cui molti faticano a cogliere la portata, l’Africa è entrata in un nuovo ciclo storico.

Mosso da forze essenzialmente locali, il continente si sta ripiegando su se stesso. Per comprendere le spinte profonde alla base di questa svolta, le lotte multiformi che l’accompagnano e le sue conseguenze a lungo termine, dobbiamo cambiare griglia analitica e partire da nuove premesse. Soprattutto, dobbiamo prendere sul serio la percezione che le società africane hanno della loro storia. Il continente sta sperimentando molte trasformazioni simultanee. Sono di diversa portata, ma interessano tutti i livelli della società e si traducono in rotture a catena. Con l’affermarsi di sistemi politici multipartitici, sono tornate in primo piano le poste in gioco collettive, mentre emergono nuove forme di disuguaglianza e conflitto, in particolare tra i generi e le generazioni.

Movimento di fondo

L’ingresso nello spazio pubblico delle persone nate negli anni novanta e all’inizio dei duemila, cresciute in tempi di crisi economica senza precedenti, è stato un evento cruciale. Ha coinciso con il risveglio tecnologico del continente, la maggiore influenza delle diaspore, l’accelerazione dei processi di creatività artistica e culturale, l’intensificarsi della mobilità e della circolazione internazionale, e la ricerca incessante di modelli di sviluppo alternativi ispirati alla ricchezza delle tradizioni locali. Le sfide demografiche, socioculturali, economiche e politiche sono ormai intrecciate, come dimostrano la contestazione delle forme politico-istituzionali emerse negli anni novanta, i cambiamenti dei modelli di autorità nelle famiglie, la rivolta silenziosa delle donne e l’aggravarsi dei conflitti generazionali.

Su questo movimento profondo si è innestata l’ascesa del neosovranismo, una versione impoverita e adulterata del panafricanismo. In un contesto di caos ideologico, disorientamento morale e crisi di significato, il neosovranismo non è una visione politica coerente ma una grande chimera. Per i suoi sostenitori serve soprattutto a creare fermento in una comunità emotiva e immaginaria, ed è questo che gli conferisce tutta la sua forza e il suo carico di tossicità.

Le sue truppe sono reclutate principalmente tra i giovani africani attivi sui social network. Ma anche nell’immenso serbatoio delle diaspore. Questi ragazzi e ragazze, spesso poco integrati nei paesi dove sono cresciuti e trattati come cittadini di seconda classe, paragonano le loro esperienze alle grandi lotte dei panafricanisti del dopoguerra contro il colonialismo e la segregazione razziale. Tuttavia, il neosovranismo non è la stessa cosa.

Non abbiamo ancora sufficientemente sottolineato quanto l’anticolonialismo e il panafricanismo abbiano contribuito al consolidamento di tre grandi pilastri della coscienza moderna: la democrazia, i diritti umani e l’idea di una giustizia universale. Il neosovranismo, però, rompe con questi tre elementi fondamentali. In primo luogo, rifugiandosi dietro il presunto carattere primordiale delle razze, i suoi sostenitori rifiutano il concetto di comunità umana universale. Individuano un capro espiatorio, che eleggono a nemico assoluto, contro il quale tutto è lecito. Così, i neosovranisti sostengono che l’Africa si emanciperà definitivamente solo cacciando dal continente le vecchie potenze coloniali, a partire dalla Francia, anche a costo di sostituirle con la Russia e la Cina.

Ossessionati dall’odio per lo straniero e affascinati dal suo potere materiale, si oppongono alla democrazia, che considerano un cavallo di Troia dell’ingerenza internazionale. Preferiscono il culto degli uomini forti, sostenitori del maschilismo e detrattori dell’omosessualità. Da qui deriva un’indulgenza verso i colpi di stato dei militari e la riaffermazione della forza come mezzo legittimo di esercizio del potere.

Questi sconvolgimenti si spiegano con la debolezza delle organizzazioni della società civile e dei corpi intermedi, in un contesto d’intensificazione delle lotte per i mezzi di sussistenza e di un intreccio di conflitti tra classi, generi e generazioni. Come effetto perverso dei lunghi anni di glaciazione autoritaria, in molti campi della vita sociale e culturale si sono diffuse delle logiche informali. Il carisma individuale e la ricchezza vengono prima del lavoro lento e paziente di costruzione delle istituzioni, mentre si affermano concezioni dell’impegno politico basate sugli scambi di favore e i clientelismi.

Di fronte a tante crisi, la democrazia rappresentativa non sembra più in grado di assicurare i grandi cambiamenti a cui aspirano le nuove generazioni. I ripetuti brogli hanno reso le elezioni una causa di conflitti violenti. Le esperienze democratiche recenti hanno fatto poco per arginare la corruzione. Anzi, l’hanno alimentata e usata per legittimare la presenza al potere delle élite responsabili dell’attuale stallo. In una situazione simile i colpi di stato sembrano essere l’unico modo per realizzare il cambiamento, per garantire una forma di alternanza ai vertici dello stato e per accelerare la transizione generazionale.

Molti ragazzi e ragazze, disorientati e senza futuro, si sentono bloccati in una condizione che può essere cambiata solo con la violenza e l’azione diretta. Questo desiderio di violenza catartica si fa strada in un momento di grave stagnazione intellettuale delle élite politiche ed economiche e, più in generale, delle classi medie e dei professionisti. A questo si aggiungono gli effetti dell’intontimento di massa provocato dai social network. Nella maggior parte dei paesi, i mezzi d’informazione e i dibattiti pubblici sono colonizzati dai rappresentanti di una generazione colpita da un analfabetismo funzionale, conseguenza di decenni di scarsi investimenti nell’istruzione e in altri settori.

Mercati della violenza

L’Africa francofona è stata ignorata, se non addirittura abbandonata, dalle grandi fondazioni private internazionali, che dagli anni novanta contribuiscono al consolidamento delle società civili nel continente. Questi finanziamenti a sostegno della democrazia non sono forse andati in gran parte all’Africa anglofona?

In tutti i paesi del continente, verso la fine del ventesimo secolo e l’inizio del ventunesimo, c’è stata una crescita della predazione e dell’estrazione. Le zone che sfuggono al controllo degli stati si sono moltiplicate e abbiamo assistito a una corsa sfrenata alla privatizzazione delle risorse del suolo e del sottosuolo. Sono emersi grandi mercati regionali della violenza, che hanno attirato tanti sfruttatori, dalle multinazionali alle compagnie di sicurezza private. Quello che fanno è fornire protezione in cambio dell’accesso privilegiato a risorse rare. Grazie a queste nuove forme di baratto, le classi dirigenti africane sono state in grado di esercitare la loro influenza sullo stato, di controllare le principali aree estrattive, di militarizzare gli scambi e di rafforzare i loro legami con le reti internazionali della finanza e del profitto.

Il prezzo di questa nuova fase nella storia dell’accumulazione privata nel continente è stata la brutalizzazione e il declassamento di interi settori della società e l’instaurazione di un regime d’isolamento più insidioso di quello coloniale. Le vittime sono condannate a migrazioni pericolose.

Alla generazione sacrificata del periodo dei programmi di aggiustamento strutturale (1985-2000) se n’è aggiunta un’altra, bloccata all’interno da una gerontocrazia avida, e all’esterno dalle politiche europee contro l’immigrazione e da una gestione arcaica delle frontiere ereditata dalla colonizzazione. I bambini soldato delle guerre di predazione del passato sono stati sostituiti dalle folle di adolescenti, che oggi non esitano ad acclamare i golpisti o partecipano alle rivolte urbane e ai successivi saccheggi.

L’Africa è a un bivio, soprattutto perché a valle del neosovranismo si aprono diverse strade senza uscita. Il mercato religioso si è ampliato. È in corso una lotta spietata tra diversi modelli di verità. Secondo alcuni, come i sostenitori del kemetismo, la salvezza è nel passato, nell’antico Egitto. Per altri, la soluzione è il culto dell’imprenditorialità e la sfrenata glorificazione dell’individuo. In un contesto di povertà, precarietà e lotta per la sopravvivenza, continua ad affermarsi una cultura edonistica basata sulla corruzione e sull’ostentazione, sull’accaparramento e sullo sperpero spettacolare della ricchezza.

In contrapposizione a queste strade senza uscita e al feticismo delle elezioni, dobbiamo scommettere su una democrazia sostanziale, che dovrà essere costruita passo dopo passo, riaffermando il pensiero intellettuale, riabilitando la voglia di scrivere la propria storia invece di avere nuovi padroni, e affidandosi all’intelligenza collettiva degli uomini e delle donne africane. Questa intelligenza va risvegliata, alimentata e sostenuta. Così potranno emergere nuovi orizzonti di significato, perché la democrazia in questa fase ha senso solo se mira a uno scopo più alto, che è la rigenerazione e la cura di tutto ciò che è vita. Non vuol dire solo alleggerire i debiti, aumentare le quote di mercato, costruire dighe, ponti, scuole, centri sanitari e pozzi o finanziare progetti, ma creare un movimento di base a lungo termine sostenuto da nuove coalizioni sociali, intellettuali e culturali.

Ritagliarsi un posto

La Francia può avere un posto in questo progetto, a condizione che abbandoni gli orpelli del passato e le sue illusioni di grandezza. Per questo deve ricostruire da capo i suoi strumenti diplomatici. Deve anche abbandonare una visione obsoleta della pace, della sicurezza e della stabilità. Per quanto importante, la lotta contro i gruppi jihadisti non può costituire l’unico bastione per la sicurezza in Africa. Né può essere vista solo attraverso la lente degli interessi europei, cioè la protezione delle frontiere esterne dell’Unione europea.

La stabilità e la sicurezza non si otterranno con gli interventi militari, sostenendo i tiranni o imponendo sanzioni inopportune, il cui unico effetto è ferire popolazioni già in ginocchio, ma consolidando la democrazia. Questo deve farci interrogare sul significato e sugli scopi della presenza militare francese in Africa. È giunto il momento di metterla in discussione, perché è quello che fanno le nuove generazioni di africani.

La strategia attuale non sarà sufficiente. Lasciare il Mali per il Burkina Faso, poi il Burkina Faso per il Niger e infine il Ciad, senza esaminare i ripetuti fallimenti francesi e la sconfitta morale e intellettuale subita da Parigi in Africa, è un rimedio poco efficace. La ragione militare e la ragione civile hanno sempre avuto difficoltà a coesistere nel continente. A lungo termine, la stabilità richiederà l’effettiva smilitarizzazione di tutti i settori della vita politica, economica e sociale. Questo significa affrontare di petto i movimenti profondi che alimentano le forze del caos e incoraggiano le fratture violente. ◆ adg

Gabon
Fine di un regime cinquantennale

Il 30 agosto 2023 in Gabon un colpo di stato ha messo fine al governo del presidente Ali Bongo Ondimba e a 56 anni di dominio della sua famiglia sul paese dell’Africa centrale. I militari hanno preso il potere subito dopo l’annuncio dei risultati delle elezioni del 26 agosto, che davano per vincente il presidente uscente. Ali Bongo aveva preso il posto del padre Omar dopo la sua morte nel 2009. L’Unione africana ha condannato il golpe e sospeso il paese dall’organizzazione. Nella capitale Libreville, invece, parte della popolazione è scesa in piazza per festeggiare i militari. Il Gabon è un paese produttore di petrolio. Di questa ricchezza ha beneficiato l’élite al potere, ma non la popolazione di 2,4 milioni di abitanti. Più di un terzo dei gabonesi vive in povertà. Il paese è stato spesso definito una “cleptocrazia”, un governo fondato sul furto e la corruzione, e uno degli esempi più eclatanti della Françafrique, il sistema politico-finanziario che ha permesso a Parigi di mantenere il controllo sulle ex colonie.

Il 4 settembre il generale Brice Clotaire Oligui Nguema ha prestato giuramento come presidente durante il periodo di transizione. Alla cerimonia erano presenti alcuni rappresentanti dell’opposizione, ma non Albert Ondo Ossa, il candidato che afferma di aver vinto le ultime elezioni. Nguema non ha annunciato una data per il ritorno a un governo civile, perché prima dovrà essere adottata una nuova costituzione. ◆


Achille Mbembe è uno storico e filosofo camerunese, considerato uno dei più importanti teorici del postcolonialismo. In Italia sta per uscire il suo ultimo libro, Brutalismo (Marietti 1820).

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Questo articolo è uscito sul numero 1528 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati