Le steli di marmo bianco, tutte identiche, ricoprono i fianchi della montagna. Tutt’intorno un paesaggio di aspre colline carsiche e valli coperte di nebbia. Al cimitero dei martiri restaurato di recente nella provincia di Ha Giang, nel nord del Vietnam, le tombe portano tutte la stessa iscrizione: liet sy, morto per la patria. La Cina è lontana solo 35 chilometri. Nel tempio consacrato alle preghiere una statua di Ho Chi Minh, l’eroe comunista dell’indipendenza e presidente dal 1945 al 1969, troneggia su un altare coperto di fiori, biglietti e lattine di Coca-Cola. Una targa nera indica i 4.200 soldati sepolti qui. Ufficialmente le spoglie di circa altri duemila sono ancora disseminate lungo la frontiera con la provincia cinese dello Yunnan. Ma, a giudicare dalle dimensioni del cimitero (per due terzi ancora vuoto), potrebbero essere di più.

Nel 1984, durante quella che il Viet­nam chiama la “guerra di difesa della frontiera nord”, la provincia di Ha Giang fu al centro di battaglie violente. L’aggressore, mai nominato apertamente, era la Cina, all’epoca guidata da Deng Xiaoping (1978-1989). Subito dopo essere stata riconosciuta ufficialmente dagli Stati Uniti, il 17 febbraio 1979 la Cina lanciò un attacco a sorpresa contro il Vietnam. Rimproverava a Hanoi di aver firmato (nel novembre 1978) un trattato di alleanza con l’Unione Sovietica, all’epoca nemica, e poi, nel gennaio 1979, di aver cercato di rovesciare il regime cambogiano dei
khmer rossi sostenuto dai cinesi, che aveva aggredito il Vietnam sul suo confine sudoccidentale. Per dieci anni le truppe cinesi attaccarono l’esercito vietnamita lungo la frontiera e fecero delle incursioni, provocando decine di migliaia di morti da una parte e dall’altra. Ancora oggi il bilancio è al centro di dibattiti.

Una nuova guerra con la Cina sarebbe possibile? “Sì, ma non nell’immediato”, osserva serio Duc Mon, un sessantenne in pantaloni neri e polo bianca, dopo aver sistemato dei bastoncini d’incenso su alcune tombe. Si ferma davanti a una, unisce le mani sopra la testa e s’inchina tre volte. Suo fratello Kanh aveva appena compiuto vent’anni quando morì insieme ad altri tre soldati nel bombardamento della loro casamatta alla frontiera, nel settembre 1984.

“Le battaglie di quell’anno a Ha Giang sono a lungo rimaste un tabù, e fino a una decina d’anni fa molti vietnamiti ignoravano addirittura che ci fossero state. Il governo fa di tutto per non ‘provocare’ la Cina”, spiega una ricercatrice vietnamita che raccoglie testimonianze sulla delicata questione della guerra sino-vietnamita e che preferisce rimanere anonima. “Nonostante le affinità culturali, religiose e ideologiche con la Cina, in Vietnam c’è una forte ostilità nei confronti dei cinesi. Ma sono comunque dei vicini”.

Con la guerra in Ucraina, l’affermazione della coalizione filostatunitense per contrastare la Cina nella regione dell’Indo-Pacifico e le tensioni tra Washington e Pechino su Taiwan, il Vietnam è in una posizione particolarmente vulnerabile. “L’Ucraina dell’Indo-Pacifico non è Taiwan, ma il Vietnam”, ha scritto nel marzo 2022 l’esperto di difesa statunitense Derek Grossman. Paese comunista, il Vietnam cerca di mantenere buone relazioni con la Cina, di cui copia i metodi autoritari, così come in passato aveva adottato la morale confuciana o gli esami dei mandarini per reclutare i funzionari imperiali. Non a caso il segretario generale del Partito comunista vietnamita e numero uno del regime, Nguyen Phu Trong, è stato il primo leader straniero a far visita a Xi Jinping il 30 ottobre 2022, dopo la rielezione a capo del Partito comunista cinese.

Come nel caso di quella guerra senza nome, di cui il governo vietnamita comincia solo ora ad autorizzare la commemorazione, Hanoi è diventata esperta nell’arte di fornire delle prove di buona volontà al suo potente vicino, rimanendo però sempre molto cauta quando si tratta di proteggere i suoi interessi – ha per esempio tenuto fuori l’azienda di telecomunicazioni cinese Huawei dal programma 5G – e di costruire una coalizione di partner con Giappone, Corea del Sud, Russia e ovviamente Stati Uniti.

Il Vietnam ha pagato caro il fatto di essere stato il campo di battaglia tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam (1955-1975), che causò almeno due milioni di morti. Tre altri conflitti hanno ostacolato lo sviluppo del paese nella seconda metà del novecento: la guerra d’indipendenza dalla Francia (1946-1954) e quelle con la Cina (1979-1989) e la Cambogia (1978-1989). Tutte esperienze che hanno influenzato profondamente la sua politica.

“In epoca coloniale i francesi invasero l’Indocina in nome delle mire che avevano sulla Cina, sperando in questo modo di ottenere un potere negoziale. Oggi gli Stati Uniti cercano di rendersi indispensabili agli stati della regione che hanno delle dispute marittime con Pechino, come il Viet­nam riguardo alle isole Paracelso e Spratly, ma è anche un modo per fare pressioni sulla Cina”, dice una storica vietnamita dell’Accademia diplomatica di Hanoi, che non è stata autorizzata a fornire il suo nome. “Il paese è in una posizione molto delicata tra i due schieramenti. Per questo ha una diplomazia basata sul multilateralismo, a cui si è aggiunto di recente il concetto di ‘diplomazia del bambù’. Alla base siamo uniti e solidi, come un cespuglio di bambù, ma in alto siamo flessibili”. L’espressione, che si riferiva al sottile gioco diplomatico del regno del Siam, l’attuale Thailandia, schiacciato tra gli imperi coloniali britannico e francese, è tornata d’attualità durante un discorso di Nguyen Phu Trong nel dicembre 2021.

In materia di dottrina militare, la posizione vietnamita si basa su quattro no: a qualsiasi alleanza militare formale; a ospitare basi o attività militari straniere sul suo territorio; a schierarsi con un paese contro un altro; e infine all’uso della forza nelle relazioni internazionali. Ma Hanoi si riserva la possibilità, “a seconda delle circostanze e in particolari condizioni, di sviluppare relazioni militari appropriate e necessarie con altri stati”, ricorda l’esperto australiano di Vietnam Carl Thayer citando l’ultimo libro bianco della difesa vietnamita del 2019.

Il Vietnam si trova di fronte alle stesse contraddizioni della Cina

A Ho Chi Minh lo storico Nguyen Dinh Tu, 103 anni, ci riceve nel suo studio all’ultimo piano di un edificio in un quartiere popolare. Condivide la casa con il figlio, circondato dai premi per i sessanta libri che ha scritto su questa città, che tutti chiamano ancora Saigon. “Siamo nel periodo più favorevole della nostra storia, e questo perché il governo ha trovato la strada della neutralità. Prima qui mancava addirittura il riso, ne dovevamo importare dalla Thailandia. Ora lo esportiamo. Lo so perché ho vissuto a cavallo di due secoli e sotto sei regimi”, dice con orgoglio, con la barbetta bianca e il volto sorridente costellato dalle macchie della vecchiaia.

Una nuova tigre asiatica

La città di Ho Chi Minh, in cui si è trasferito nel 1969, ha rinnovato buona parte degli edifici coloniali e presto inaugurerà una linea della metropolitana. I cantieri di diversi progetti immobiliari, come il quartiere costruito intorno al Vincom Landmark 81, una piramide di 461 metri sulla riva del fiume Saigon, non si fermano neanche nel fine settimana. Una pubblicità su una recinzione promette The essence of luxury, l’essenza del lusso. Con un’economia in forte crescita (l’8 per cento nel 2022 e una previsione del 7 per cento quest’anno), il Vietnam comunista s’impegna per accrescere la sua influenza. In pochi anni è diventato il secondo esportatore di smartphone al mondo dopo la Cina, grazie all’azienda coreana Samsung, che ne ha fatto il suo centro di produzione mondiale. È anche il paese più aperto della regione, con quindici trattati di libero scambio di cui uno con l’Unione europea (tra i paesi dell’Asia sudorientale, il Vietnam e Singapore sono gli unici due ad aver concluso un trattato simile). Hanoi approfitta delle conseguenze della guerra dei dazi mossa da Donald Trump contro la Cina nel 2019, che ha dato il via a una nuova ondata di globalizzazione sostenuta dai principali investitori asiatici in Vietnam (il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan e Singapore).

L’azienda danese Lego ha investito un miliardo di euro con un partner di Singapore per costruire nell’hinterland di Ho Chi Minh una gigantesca fabbrica destinata al mercato asiatico, tre volte più grande di quella in Cina. Hanoi deve mantenere questa diversificazione e apertura senza irritare Pechino, che fornisce la maggior parte dei componenti e dei prodotti semilavorati necessari alle esportazioni.

Il Vietnam sogna di diventare una nuova tigre asiatica. Quando il 20 marzo 2023 a Hanoi i rappresentanti di 52 grandi aziende statunitensi, tra cui SpaceX, Meta, Netflix, Boeing e Ford, cioè la più importante delegazione americana mai arrivata nel paese, sono stati ricevuti dal primo ministro, la stampa vietnamita ha dedicato molto spazio all’evento. Ma se gli yankees sono stati accolti a braccia aperte 48 anni dopo la caduta di Saigon, è perché gli Stati Uniti sono il primo mercato d’esportazione per il Vietnam. Pochi giorni dopo il presidente statunitense Joe Biden ha parlato al telefono con Nguyen Phu Trong in occasione dei dieci anni del partenariato globale che lega i loro paesi.

Tuttavia, gli statunitensi rimangono relegati a una partnership diplomatica di terzo livello, nella classificazione vietnamita, paragonabile a quella con l’Ungheria. Washington vorrebbe unirsi alla manciata di paesi impegnati con il Vietnam in una collaborazione di primo livello, cosiddetta strategico-globale: Cina, Russia, India e, da dicembre, Corea del Sud. In passato i vietnamiti rimproveravano alla Casa Bianca di non trattare Nguyen Phu Trong con le attenzioni dovute a un leader (il paese ha anche un presidente e un primo ministro, ma sono meno importanti nella gerarchia del partito). “La telefonata di Biden dimostra che gli Stati Uniti sembrano disposti a venire incontro al Viet­nam”, commenta un diplomatico europeo a Hanoi. Questo progresso simbolico, a cui ha fatto seguito in aprile la visita del segretario di stato americano Antony Blinken – arrivato per inaugurare il cantiere della nuova gigantesca ambasciata che gli Stati Uniti stanno costruendo a Hanoi con una spesa di 1,2 miliardi di dollari – potrebbe aprire la strada a una visita ufficiale di Nguyen Phu Trong a Washington entro la fine dell’anno.

Hanoi approfitta delle conseguenze della guerra dei dazi mossa da Donald Trump

In una delle sue ultime analisi, Thayer ritiene addirittura probabile la ripresa imminente degli scali biennali di una portaerei americana in Vietnam, dopo quello della Carl Vinson nel 2018 e della Theodore Roosevelt nel 2020. Queste due prime visite di cortesia, fatte a Danang, simboleggiavano il riavvicinamento tra i due paesi dopo che nel 2014 Pechino aveva installato una piattaforma petrolifera nella zona economica esclusiva vietnamita nel mare Cinese meridionale (o mar Meridionale, secondo la terminologia vietnamita). L’operazione aveva provocato una grave crisi tra i due paesi comunisti e scatenato grandi manifestazioni anticinesi. In visita ufficiale in Vietnam nel maggio 2016, il presidente statunitense Barack Obama aveva tolto l’embargo sulla fornitura di armi letali al paese. In seguito gli Stati Uniti hanno fornito a Hanoi due navi guardacoste e sei droni per operazioni di sorveglianza, e invitato il Vietnam a delle manovre navali congiunte.

Decisiva fu la pandemia

L’avvicinamento ulteriore tra Stati Uniti e Vietnam è cominciato durante la pandemia di covid-19. Quando è arrivato il virus, il Viet­nam si è affrettato ad applicare la strategia cinese di chiusura e azzeramento dei contagi. Ma nella primavera 2021 la variante delta ha colpito duramente il paese perché era uno dei meno vaccinati della regione. In occasione della visita della vicepresidente statunitense, Kamala Harris, a Hanoi nell’agosto 2021 gli Stati Uniti hanno donato una grande quantità di vaccini. Così, in pochi mesi, il paese ha raggiunto un tasso di vaccinazione superiore a quello dei vicini e ha riaperto le frontiere. Come già successo per la rete 5G della Huawei o per i film cinesi, colpiti da un divieto informale di distribuzione, il Viet­nam è riuscito a evitare i vaccini cinesi donati ai paesi del sudest asiatico, e a importare solo una quantità simbolica di dosi del farmaco Sinopharm per i cittadini cinesi.

Gli Stati Uniti hanno intensificato il loro sostegno a questo paese comunista autoritario. A lungo uno dei primi cinque compratori di armi russe al mondo (l’80 per cento del suo arsenale dipende da sistemi forniti da Mosca), il Vietnam ha continuato ad astenersi dal votare le risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano l’invasione russa dell’Ucraina, ma è sempre sfuggito alla rabbia – e alle sanzioni – di Washington. A quanto pare secondo gli statunitensi Hanoi fa parte dei paesi “che non aderiscono alle istituzioni democratiche, ma che dipendono comunque da un sistema internazionale basato su delle regole e sono disposti a sostenerle”, sancisce la strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, al contrario della Cina definita “revisionista” a causa delle sue ambizioni espansionistiche nei mari cinesi (orientale e meridionale). Di fatto il Viet­nam è considerato un “partner regionale di primo piano” nella strategia indopacifica statunitense dichiarata nel febbraio 2022.

Inoltre, il paese partecipa a un grande numero d’iniziative internazionali tra cui l’Indo-Pacific economic framework for prosperity, lanciato dall’amministrazione Biden nel maggio 2022, come equivalente statunitense della Belt and road initiative, la nuova via della seta cinese. Per questo Hanoi si è dovuta impegnare in materia di diritto del lavoro e di localizzazione dei dati digitali. In Vietnam Face­book e Google non sono bloccati, diversamente da quanto succede in Cina. Anche se è tra i firmatari della nuova via della seta, Hanoi rimane piuttosto reticente in merito, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti nel campo delle infrastrutture strategiche. Il 51 per cento dei suoi terminal portuali devono rimanere di proprietà vietnamita e ai cinesi si preferiscono i partner giapponesi, sudcoreani o danesi.

Due foto della serie Charlie surfs on lotus flowers, Vietnam, 2015-2018, che riflette sull’identità del paese dopo la guerra con gli Stati Uniti. (Simone Sapienza)

Paese funambolo, il Vietnam deve però dare prova di grande prudenza di fronte alle offerte statunitensi. In caso di tensioni la Cina potrebbe chiudere la frontiera, bloccare le esportazioni, fondamentali per il sistema produttivo vietnamita, o interrompere le importazioni di prodotti agricoli. “Hanoi non osa prendere una posizione decisa contro la Russia sull’Ucraina perché, oltre al peso delle armi russe, non sa su chi contare per difendersi”, dice l’opinionista Le Kien Thanh. “Ma la situazione è complessa perché se il governo vietnamita non dice nulla o se l’occidente non fa nulla, la Cina potrebbe seguire l’esempio di Mosca, annettendo delle isole vietnamite o aiutando la Cambogia a impossessarsi di territori vietnamiti. Il riavvicinamento tra Pechino e Mosca significa anche che in caso di attacco cinese, la Russia non ci aiuterà”. Le Kien Thanh, molto citato sulla stampa vietnamita e salutato da diverse persone mentre lo intervistiamo nella hall di un grande albergo di Ho Chi Minh, è il figlio di Le Duan, successore di Ho Chi Minh e uomo forte del paese tra il 1968 e il 1986, l’anno della sua morte e del doi moi, l’apertura economica.

Nazionalista dal pugno di ferro che ha condotto una guerra contro gli statunitensi, riunificato il paese e respinto l’aggressione cinese, Le Duan è anche noto per aver eliminato dal Partito comunista viet­namita la fazione filocinese. “Mao aveva proposto di offrire al Vietnam cinquecento camion per aiutare i nostri combattenti sul sentiero di Ho Chi Minh (la rete di strade usate per rifornire il fronte durante la guerra d’indipendenza), ma aveva posto una condizione: che i camionisti fossero cinesi. Mio padre ha rifiutato, perché avrebbe significato svelare ai cinesi i segreti del sentiero”, continua Le. “La Cina è imprevedibile. C’è stata la rivoluzione culturale, piazza Tiananmen. Se dovesse succedere qualcosa a Taiwan, sarebbe grave per il Viet­nam”, insiste. Lo storico controllo cinese sulla Cambogia, dove Pechino ha dei punti d’appoggio strategici, è per Hanoi un altro motivo di preoccupazione. “Il Vietnam non è in grado di competere con la quantità di denaro che i cinesi stanno versando alla Cambogia”.

Vedendo le immagini del congresso del Partito comunista vietnamita che si tiene ogni cinque anni, con le immense bandiere rosse, l’anfiteatro pieno di burocrati incravattati con le braccia alzate all’unisono, sembrerebbe di stare a Pechino. Di fatto il grande vicino cinese rimane per Hanoi il modello da imitare, ma con degli accorgimenti: la Cina è l’unico esempio al mondo di un regime comunista che si è aperto all’economia di mercato senza aver “cambiato rotta”. Il Vietnam si trova di fronte alle stesse contraddizioni: come permettere alla popolazione di arricchirsi, di istruirsi e di adottare lo stile di vita occidentale senza che questo causi una contestazione del sistema politico?

I due regimi condividono quindi un’ossessione: prevenire le “rivoluzioni colorate”, cioè la formazione di una coalizione di forze della società civile sostenuta dall’opinione pubblica occidentale per rovesciare il partito unico. Polizia, sorveglianza e “sicurezza politica” sono i settori “in cui Pechino e Hanoi collaborano di più”, spiega Benoît de Tréglodé, dell’Institut de recherche stratégique de l’École militaire di Parigi. “Lottando contro la criminalità, Pechino e Hanoi combattono le cosiddette forze ‘reazionarie’ per salvare i loro regimi in un mondo che cambia”, scrive lo storico sulla Revue Défense Nationale. La Cina si è quindi resa indispensabile alla sicurezza del regime.

Il Vietnam, che non ha mai conosciuto un periodo di agitazione politica e di forte contestazione paragonabile a quello vissuto dalla Cina dopo le olimpiadi di Pechino, dal 2008 al 2012, sembra aver adottato in anticipo e progressivamente i metodi che hanno permesso a Xi Jinping di riprendere il controllo della società cinese e del partito dopo il suo arrivo al potere alla fine del 2012. Lo testimonia la repressione brutale contro qualunque possibile agitatore, come il blogger e difensore dei diritti umani Nguyen Lan Thang, condannato il 12 aprile a sei anni di carcere in un processo a porte chiuse per il suo sostegno alle vittime di espropriazioni delle terre e di disastri ambientali.

Come Xi Jinping

Nguyen Phu Trong, arrivato al potere nel 2011, ha seguito l’esempio di Xi Jinping, lanciando nel 2016 una campagna anticorruzione e di moralizzazione all’interno del Partito comunista. L’operazione Fornace ardente ha portato all’incriminazione di ministri, generali, ambasciatori e miliardari, e anche alle dimissioni, a gennaio, del presidente Nguyen Xuan Phuc, l’unico componente dell’ufficio politico del partito a essere coinvolto.

Nel 2021 Nguyen Phu Trong ha inoltre ottenuto un terzo mandato alla guida del partito, nonostante le regole sui limiti d’età, proprio come Xi Jinping, che nel 2017 aveva modificato lo statuto del suo partito. A 79 anni e con una salute piuttosto fragile, il segretario del Partito comunista vietnamita è solo a metà del suo mandato. Sarà in grado di mantenere la “purezza ideologica” del modello cinese? I ragazzi vietnamiti potrebbero finire per immaginare altri orizzonti, un po’ come gli ucraini ai tempi della rivolta di Maidan nel 2014. La campagna anticorruzione destabilizza l’economia vietnamita e allarma il mondo degli affari, ma Hanoi non ha i mezzi per potersi permettere dei piani di rilancio economico, investendo nelle infrastrutture come ha fatto Pechino. Una cosa è certa, il Vietnam dovrà mobilitare tutta la flessibilità e la solidità del “bambù” per affrontare le future turbolenze tra Cina e Stati Uniti. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati