La donna sta lì, lontana dalla folla, con le braccia incrociate e il viso immobile, come bloccata. Ana (il nome è di fantasia) ha 38 anni. È il 9 ottobre 2023, a Parigi, due giorni dopo il massacro commesso da Hamas in Israele. Diverse associazioni hanno organizzato una manifestazione per denunciare il terrorismo ed esprimere sostegno allo stato ebraico. Ana ha esitato a lungo prima di decidere se partecipare. Non approva la politica del governo israeliano, che considera troppo sbilanciata a destra. Ma allo stesso tempo ama Israele. Incondizionatamente. Quindi alla fine ha deciso di esserci. “In Francia mi sembra di non avere il diritto di dire che sono triste. Nessuno intorno a me vuole comprendere il mio dolore”. Come se le vittime e gli ostaggi di Hamas non fossero esseri umani “ma solo oggetti politici”.

La stessa sensazione d’isolamento accomuna molti cittadini di religione ebraica. “In passato gli ebrei di Francia compensavano una fiducia relativa nella capacità dello stato di proteggerli dall’antisemitismo con una fiducia assoluta nella capacità d’Israele di accoglierli in caso di necessità”, spiega Danny Trom, studioso del mondo ebraico e tra i fondatori della rivista online K. “Tutto questo è stato spazzato via il 7 ottobre. Gli ebrei si sono sentiti attaccati su due fronti”. Con l’azione di Hamas “lo stato rifugio” rappresentato da Israele ha smesso di essere una soluzione d’emergenza.

Secondo il ministero dell’interno, dal 7 ottobre in Francia ci sono stati più di mille atti di natura antisemita e quasi cinquecento persone sono state arrestate. Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche francesi, Élie Korchia, denuncia l’assenza di una “parola forte” della società civile, soprattutto in ambito culturale e sportivo. E il grande rabbino di Francia, Haïm Korsia, afferma che da un lato ci sono gli autori di atti antisemiti, dall’altro chi sostiene i cittadini di religione ebraica, mentre in mezzo c’è quella che chiama “la palude”, ovvero “le persone indifferenti. È come se una parte della società credesse che ognuno ha il suo ruolo e che il nostro sia quello di essere aggrediti”. Secondo un sondaggio pubblicato il 29 ottobre e realizzato dal Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), il 34 per cento dei francesi afferma di non provare né simpatia né antipatia per Hamas.

La comunità ebraica si è considerata abbandonata dallo stato per molto tempo e questo nonostante il governo francese abbia riconosciuto nel 1995, per bocca di Jacques Chirac, la sua responsabilità nel rastrellamento degli ebrei al Velodromo d’inverno, nel 1940. Solo il 10 gennaio 2015 (all’indomani dell’attacco a un supermercato di prodotti kosher in cui morirono quattro ostaggi e della dichiarazione dell’allora primo ministro Manuel Valls “senza gli ebrei di Francia, la Francia non sarebbe la Francia”) la comunità ebraica si è sentita davvero ascoltata e protetta dallo stato, spiega Trom.

Con l’azione di Hamas del 7 ottobre “lo stato rifugio” rappresentato da Israele ha smesso di essere una soluzione d’emergenza

Un anno prima, nel 2014, Valls aveva già inviato una circolare ai prefetti autorizzandoli a vietare gli spettacoli del comico Dieudonné, che contenevano “dichiarazioni antisemite e infamanti nei confronti di diverse personalità di religione ebraica e attacchi sconvolgenti contro la memoria delle vittime della shoah”.

Essere soli

Sarah (anche il suo nome è di fantasia) ha 41 anni e vuole parlare. “Essere ebrei in Francia significa avere paura, sempre. Significa stare all’erta, soprattutto dopo il 7 ottobre”, spiega. Per Sarah essere ebrei significa anche essere “tristi”, “mettere tutti a disagio perché si parla di Israele e nessuno vuole prenderne le parti”. Essere ebrei, infine, significa “essere soli”: perfino all’interno della propria cerchia di amici. Sarah mostra lo schermo del suo telefono. Nessuno si è fatto sentire dopo l’attacco di Hamas. “I miei genitori vivono in Israele e nessuno mi chiede niente. Solo due persone mi hanno domandato se va tutto bene. Due arabi”.

Ogni volta che la tensione nel conflitto israelo-palestinese è salita – nel 2000 e poi nel 2009, nel 2014 e nel 2021 – è aumentato anche l’antisemitismo nella società francese, che ha la particolarità di comprendere le più grandi comunità ebraiche e arabe d’Europa. Qualcuno parla di “importazione del conflitto” sul territorio francese, altri denunciano una sovrapposizione tra ebrei e israeliani e tra musulmani e palestinesi. Effettivamente è con la seconda intifada, dal 2000 al 2005, che l’antisemitismo ha conosciuto una rinascita in Francia. Da un centinaio di atti antisemiti all’anno registrati negli anni novanta, nel 2000 si è passati a 744. Ma il fenomeno stava già prendendo forma durante la prima intifada, dal 1987 al 1993. Israele era diventato Golia mentre i palestinesi erano Davide.

Manifestazione in sostegno a Israele. Parigi, Francia, 9 ottobre 2023 (Agnès Dherbeys, Myop)

Da allora l’antisemitismo ha assunto diversi volti. Quello storico dell’estrema destra si è liberato dalle inibizioni. Dall’altra parte dello spettro politico, è emerso un antisemitismo di estrema sinistra, spesso mascherato da antisionismo. “Già dal 7 ottobre sapevamo che qualcuno avrebbe cercato di sminuire l’evento”, racconta Trom. “Quelli che dicono ‘gli ebrei se la sono cercata e i palestinesi avevano buone ragioni per commettere i massacri’ s’iscrivono in una lunga tradizione”, aggiunge Yonathan Arfi, presidente del Crif.

Questo antisionismo ambiguo, nettamente percepibile tra i laburisti britannici quando erano guidati da Jeremy Corbyn o in alcuni campus statunitensi, è ormai attribuito da una parte della comunità ebraica e delle associazioni antirazziste anche al partito di sinistra radicale La France insoumise e al suo leader Jean-Luc Mélenchon. “A sinistra c’è una certa incapacità di pensare all’antisemitismo. Tutto questo aggrava l’isolamento della comunità ebraica”, aggiunge Dominique Sopo, presidente di Sos-Racisme.

Per non parlare dell’antisemitismo in forte crescita tra gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana, attizzato dal comico antisemita Dieudonné. Nel 2006 venti persone che si facevano chiamare “gang dei barbari” rapirono e torturarono a morte un giovane ebreo, Ilan Halimi, per estorcere denaro alla sua famiglia. Il loro pretesto era che “gli ebrei sono ricchi”. Il loro capo, Youssouf Fofana, durante il processo si definì “arabo, africano, islamista e salafita” e sarebbe diventato il volto del nuovo antisemitismo, attirando soprattutto i giovani musulmani delle periferie. Gli attentati commessi da Mohammed Merah nella scuola Ozar-Hatorah di Tolosa nel 2012 e da Amedy Coulibaly nel supermercato kosher alle porte di Vincennes nel 2015 hanno mostrato la forza dell’antisemitismo nella sfera jihadista.

L’antisemitismo storico dell’estrema destra si è liberato dalle inibizioni ed è emerso un antisemitismo di estrema sinistra

Questo fenomeno ne ha provocato un altro, che alimenta l’isolamento degli ebrei: “La scomparsa di alcuni punti di contatto tra i cittadini di confessione ebraica e il resto della società, soprattutto nelle periferie”, spiega Sapo riferendosi al ritiro dei bambini ebrei dalle scuole pubbliche a partire dalla seconda intifada, anche se è un fenomeno difficilmente quantificabile. Tra il 2012 e il 2015 l’alya dei francesi (il “ritorno” in Israele), solitamente nell’ordine di duemila partenze all’anno, raggiungeva quota ottomila.

Poca empatia

Quando nel 2017 Sarah Halimi, una donna di 65 anni, è stata picchiata a morte e gettata dalla finestra da un vicino, Kobili Traoré, in un accesso di follia dalle forti tinte antiebraiche, la lentezza della giustizia nel riconoscere la natura di “crimine d’odio” e la decisione di chiudere il caso perché l’uomo non era penalmente responsabile hanno suscitato la collera e la tristezza della comunità ebraica. Un anno dopo Mireille Knoll, una donna di 85 anni sopravvissuta alla shoah, è stata accoltellata a morte e derubata da due individui convinti che l’anziana, indigente, nascondesse del denaro in casa. Stavolta il carattere antisemita del crimine è stato accertato dai giudici.

Lo storico Mark Knobel parla di una “trasversalità” dell’antisemitismo che obbedisce alla regola “delle tre a”. Innanzitutto c’è l’assuefazione a vecchi stereotipi secondo cui “gli ebrei hanno potere e denaro” e “controllano la finanza e i mezzi d’informazione”. Poi c’è l’attualizzazione, ovvero la capacità del fenomeno di adattarsi a tutti gli sviluppi recenti, dalla crisi finanziaria del 2008 (“è colpa della finanza ebraica”) fino alla pandemia (“guadagnano con il covid”) e al movimento dei gilet gialli (secondo cui Macron sarebbe “in mano alla banca Rothschild”). Infine c’è l’attrattiva: sui social network la parola “ebreo” genera traffico.

In ogni caso oggi siamo molto lontani dal 1990, quando quasi duecentomila francesi scesero in piazza a Parigi contro la profanazione di decine di tombe nel cimitero ebraico di Carpentras. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati