Medio Oriente

L’estate scorsa il presidente statunitense Joe Biden e i suoi più stretti collaboratori per la sicurezza nazionale credevano che le possibilità di un conflitto con l’Iran e i suoi alleati fossero limitate. In seguito a dei colloqui segreti avevano appena concluso un accordo per il rilascio di cinque statunitensi detenuti in Iran in cambio dello sblocco di 6 miliardi di dollari di fondi iraniani congelati e della liberazione di alcuni prigionieri iraniani. I miliziani che Teheran finanzia e arma – Hamas nei territori palestinesi, Hezbollah in Libano e gli huthi nello Yemen – sembravano relativamente tranquilli. L’Iran aveva perfino rallentato l’arricchimento dell’uranio nei suoi impianti nucleari sotterranei, ritardando i progressi verso la costruzione di un’arma atomica.

Gli attacchi di Hamas a Israele il 7 ottobre e la dura reazione di Tel Aviv hanno cambiato tutto. Oggi i funzionari statunitensi e israeliani e una decina di paesi che collaborano per continuare a far transitare il commercio nel mar Rosso si trovano di fronte a un Iran di nuovo aggressivo. Dopo aver lanciato un gran numero di attacchi, dal Libano al mar Rosso all’Iraq, i gruppi vicini a Teheran si sono scontrati due volte con le forze statunitensi dal 31 dicembre, e Washington minaccia apertamente attacchi aerei se la violenza non si placherà.

Al punto di partenza

Intanto, anche se poco discusso dall’amministrazione Biden, il programma nucleare iraniano è ripartito alla massima velocità. Alla fine di dicembre gli ispettori internazionali hanno annunciato che l’Iran ha triplicato l’arricchimento dell’uranio a un livello di poco inferiore a quello necessario per realizzare una bomba. Secondo stime approssimative, oggi Teheran avrebbe il combustibile per almeno tre armi atomiche, e i servizi segreti statunitensi ritengono che l’arricchimento aggiuntivo necessario per trasformarlo in materiale utile a realizzare una bomba richiederebbe solo poche settimane. “Siamo al punto di partenza”, ha dichiarato due settimane fa Nicolas de Rivière, un diplomatico francese coinvolto nei negoziati per l’accordo sul nucleare iraniano del 2015. I rapporti con l’Iran non sono mai stati così complicati dalla presa dell’ambasciata statunitense nel 1979, dopo la cacciata dello scià. I funzionari europei e statunitensi non credono che Teheran voglia un conflitto diretto con gli Stati Uniti o Israele, perché sa che non potrebbe finire bene. Ma l’Iran sembra più che disposto a spingere l’acceleratore, favorendo gli attacchi, coordinando offensive contro le basi e le navi statunitensi che trasportano merci e carburante e arrivando ancora una volta al limite della capacità nucleare militare.

Il problema è complicato dall’aumento del sostegno iraniano alla Russia. Quello che era cominciato come un piccolo flusso di droni Shahed venduti a Mosca per essere usati contro l’Ucraina si è trasformato in un’inondazione. E ora l’intelligence statunitense ritiene che Teheran si stia preparando a inviare missili a corto raggio. È il riflesso di una dinamica di potere nettamente alterata: dal momento dell’invasione russa dell’Ucraina l’Iran non è più isolato. Improvvisamente è in una sorta di alleanza con Russia e Cina, due paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu che, in passato, hanno sostenuto Washington nel tentativo di limitare il programma nucleare iraniano. Ora quell’accordo è morto, abbandonato cinque anni fa da Donald Trump, all’epoca presidente degli Stati Uniti, e l’Iran ha due superpotenze non solo come alleate, ma come clienti in grado di rendere inefficaci le sanzioni.

“L’Iran mi sembra in una buona posizione, ha dato scacco matto agli Stati Uniti e ai loro interessi in Medio Oriente”, sostiene Sanam Vakil, direttrice del programma per il Medio Oriente e il Nordafrica del Chatham house, un istituto con sede a Londra. “È attivo su tutti i confini, resistente a ogni cambiamento dall’interno e arricchisce uranio a livelli allarmanti”.

Un po’ di quiete

Biden era entrato in carica con l’intento di resuscitare l’accordo del 2015. Dopo più di un anno di trattative, nell’estate del 2022 era stata quasi raggiunta un’intesa per ripristinarne una buona parte. Per l’Iran avrebbe comportato l’obbligo di inviare fuori del paese il combustibile nucleare appena prodotto, come previsto nel 2015. Ma il tentativo è fallito. Nel 2023 l’Iran ha accelerato il programma nucleare, arricchendo per la prima volta l’uranio al 60 per cento di purezza, non lontano dal 90 per cento necessario a realizzare armi. Si trattava di una mossa calcolata, per mostrare agli Stati Uniti che Teheran era a pochi passi da una bomba ma non oltrepassava il limite, così da scongiurare un attacco ai suoi impianti nucleari.

Nell’estate del 2023, tuttavia, Brett McGurk, coordinatore di Biden per il Medio Oriente, ha elaborato due accordi separati. Il primo prevedeva lo scambio tra prigionieri statunitensi e iraniani e il trasferimento di 6 miliardi in beni iraniani dalla Corea del Sud a un conto in Qatar per scopi umanitari. Il secondo era un’intesa non scritta in base alla quale l’Iran avrebbe ridotto l’arricchimento nucleare e tenuto sotto controllo le forze dei suoi alleati nella regione. Solo a quel punto si sarebbero tenuti colloqui su un accordo più ampio. Per alcuni mesi questa strategia è sembrata funzionare: i gruppi vicini agli iraniani in Iraq o in Siria non hanno attaccato le forze statunitensi, le navi si sono mosse liberamente nel mar Rosso e gli ispettori hanno riferito che l’arricchimento era stato rallentato. Alcuni analisti dicono che si è trattato di una calma temporanea e ingannevole. Suzanne Maloney, direttrice del programma di politica estera al Brookings institution ed esperta di Iran, lo definisce “un tentativo disperato per mantenere un po’ di quiete nella regione fino alle elezioni”.

I funzionari dell’intelligence statunitense sostengono che l’Iran non ha istigato né approvato l’attacco di Hamas in Israele, e probabilmente non ne sapeva nulla. Hamas forse temeva che dall’Iran potesse trapelare qualcosa sul suo piano, considerato il livello di penetrazione dei servizi segreti israeliani e occidentali nel paese. Ma appena è cominciata la guerra contro Hamas le forze sostenute da Teheran sono passate all’attacco.

C’erano tuttavia segnali che l’Iran, dovendo affrontare problemi interni, volesse limitare il conflitto. Inizialmente il gabinetto di guerra israeliano ha discusso di un attacco preventivo a Hezbollah in Libano, dicendo agli statunitensi che un’azione contro Israele era imminente e faceva parte di un piano iraniano per colpire il paese da ogni lato. I collaboratori di Biden hanno respinto l’idea e hanno dissuaso Israele dall’attaccare. Questo, secondo loro, ha impedito – o almeno ritardato – una guerra più vasta.

Missili puntati

Negli ultimi giorni la minaccia di una guerra con Hezbollah è tornata. Il 5 e il 6 gennaio l’organizzazione ha lanciato decine di razzi contro una base militare israeliana, definendola una “prima risposta” all’uccisione di un alto dirigente di Hamas, Saleh al Arouri, qualche giorno prima in Libano. Alcuni esponenti del governo israeliano hanno avvertito che non bisogna sottovalutare Hezbollah, come è stato fatto con Hamas, perché secondo le stime l’organizzazione libanese ha 150mila missili puntati su Israele e ha addestrato alcuni dei suoi uomini, le Forze Radwan, a un’invasione.

Ma a Washington per il momento non si teme tanto un attacco di Hezbollah a Israele quanto un’offensiva israeliana contro la milizia libanese. Gli Stati Uniti hanno detto agli israeliani che Washington li sosterrà se sarà Hezbollah a oltrepassare la frontiera, ma non se avverrà il contrario. Finora Hezbollah sembra essere attento a non dare agli israeliani il pretesto per un’operazione militare. Ma l’Iran ha costruito Hezbollah, la forza più potente del Libano, come una protezione per sé, non per i palestinesi. Il gruppo è un deterrente contro un attacco israeliano all’Iran, considerata la strage che le sue migliaia di missili potrebbero fare in Israele.

Questa è una delle principali ragioni per cui l’Iran vuole tenere Hezbollah fuori dalla guerra nella Striscia di Gaza, afferma Meir Javedanfar, dell’università Reichman, in Israele. Altrimenti Tel Aviv potrebbe colpire l’Iran direttamente, aggiunge. “Non mi sembra che Teheran voglia un’escalation in questa fase”, dice Suzanne Maloney, “perché soddisfa gran parte dei suoi interessi anche senza arrivare a quel punto”. Ma i funzionari statunitensi sostengono che il paese non controlla le operazioni di molti dei suoi alleati, e che l’intensità degli attacchi realizzati lontano dal confine tra Libano e Israele potrebbe essere la scintilla di un conflitto più ampio. I gruppi alleati dell’Iran in Iraq e in Siria hanno condotto più di cento azioni nei loro territori.

Scelte difficili

La parte del conflitto con l’impatto globale più immediato si concentra nel mar Rosso, dove le forze huthi dello Yemen, usando intelligence e armi iraniane, prendono di mira quelle che chiamano “navi israeliane”. In realtà sembra che colpiscano tutte le navi con missili termoguidati che non distinguono tra gli obiettivi e con imbarcazioni veloci usate per abbordare e impossessarsi delle petroliere.

Quando il 31 dicembre la marina statunitense è intervenuta per soccorrere una nave cargo della Maersk sotto attacco, gli huthi hanno aperto il fuoco. I piloti statunitensi hanno risposto affondando tre delle quattro imbarcazioni degli huthi, uccidendo dieci persone. La Maersk, una delle più grandi compagnie di trasporto marittimo al mondo, ha sospeso tutti i transiti attraverso il mar Rosso “per il prossimo futuro”, il che significa che non sfrutterà la tratta più veloce tra Europa e Asia: il canale di Suez. Le aziende di tutto il mondo, dall’Ikea alla Bp, stanno già subendo ritardi nelle forniture.

Per difendere le navi Washington ha riunito una coalizione di stati, che però dipende fortemente dalla presenza navale statunitense. Finora Biden è stato riluttante ad attaccare gli huthi nello Yemen, ma sembra che le cose stiano cambiando. Il 3 gennaio gli Stati Uniti e tredici paesi alleati hanno firmato una dichiarazione che dà agli huthi quello che un funzionario ha definito un “ultimo avvertimento”, perché mettano fine agli “attacchi illegali e liberino le navi e gli equipaggi trattenuti in modo illegittimo”. L’Iran non è citato.

Il Pentagono sta perfezionando i piani per colpire i siti di lancio usati dagli huthi nello Yemen, ed è probabile che prenderà di mira i loro uomini e le loro basi non appena ci sarà un altro attacco. “A questo punto è necessaria una risposta militare contro i ribelli huthi, che sono in realtà dei pirati iraniani”, afferma James G. Stavridis, un ammiraglio in pensione. “La nostra esperienza anni fa con i pirati somali dimostra che non si può semplicemente giocare in difesa; devi andare sulla terraferma per risolvere il problema. È l’unico modo per far recepire il messaggio all’Iran. Limitarsi a pattugliare il mar Rosso è un’idea irrealistica”.

Biden si trova di fronte a scelte difficili. Si è ritirato dal Medio Oriente per concentrarsi sulla competizione con la Cina. Ora ne è di nuovo risucchiato. “Gli Stati Uniti hanno costruito un contesto di deterrenza, segnalando di non essere interessati a una guerra regionale ma di essere pronti a intervenire in risposta alle provocazioni dell’Iran”, afferma Hugh Lovatt, esperto di Medio Oriente dell’European council on foreign relations. Ma la presenza di portaerei e truppe statunitensi espone Washington, aggiunge. “La deterrenza potrebbe diventare un fattore che fa crescere le tensioni”.

A incombere su tutti questi possibili conflitti c’è il futuro del programma nucleare iraniano, con il suo potenziale di lungo termine per uno scontro diretto con l’occidente. Gli anni di negoziati, le azioni segrete per mettere fuori uso le centrifughe e gli omicidi di scienziati iraniani compiuti da Israele si sono concentrati su un unico obiettivo: allungare i tempi necessari all’Iran per avere il combustibile per una bomba. Quando è stato raggiunto l’accordo del 2015 quei tempi, secondo la Casa Bianca, corrispondevano a più di un anno. Oggi, come ha osservato Rivière, attualmente ambasciatore francese all’Onu, “parliamo di un paio di settimane”, una situazione che in passato avrebbe quasi certamente provocato una crisi. Tuttavia, assemblare il combustibile in una bomba funzionante richiederebbe probabilmente un anno o più, dando altro tempo all’occidente per reagire.

L’amministrazione Biden si è espressa poco, ammettono i funzionari, perché le sue opzioni sono limitate. L’Iran fornisce armi alla Russia e vende petrolio alla Cina: è escluso che il Consiglio di sicurezza dell’Onu agisca. E i collaboratori di Biden hanno rinunciato a rilanciare l’accordo del 2015, perché ormai è superato. Per come era stato stipulato inizialmente, avrebbe permesso all’Iran di produrre tutto il combustibile desiderato a partire dal 2030. “L’Iran arricchisce l’uranio perché può farlo”, conclude Maloney. “Il suo scopo è sempre stato aspettare pazientemente che finissero le pressioni e garantirsi la possibilità di un programma di armamento”. ◆ fdl

Le ultime notizie
La quarta volta di Blinken

◆ Il capo della diplomazia statunitense, Antony Blinken, ha fatto il suo quarto viaggio in Medio Oriente dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas, con l’obiettivo di evitare che il conflitto si estenda nella regione. Arrivato in Israele il 9 gennaio 2024, ha incontrato il presidente Isaac Herzog e il primo ministro Benjamin Netanyahu, insieme ai componenti del suo gabinetto di guerra. Oltre a esortare il governo israeliano a ridurre le truppe nella Striscia di Gaza, Blinken ha cercato di convincerlo che il paese ha “possibilità reali” di integrazione con i suoi vicini arabi. Inoltre ha affermato che Washington lavorerà con i paesi della regione per ricostruire e stabilizzare la Striscia di Gaza.

◆I bombardamenti israeliani nel territorio palestinese continuano e secondo il bilancio pubblicato da Hamas il 9 gennaio le vittime sono 23.357, in maggioranza donne e bambini. Il 7 gennaio un bombardamento sulla strada tra Khan Yunis e Rafah, nel sud della Striscia, ha ucciso Hamza al Dahdouh, giornalista e cameraman di Al Jazeera e figlio del capo della redazione dell’emittente a Gaza, insieme a Mustafa Thuraya, un giornalista freelance. Secondo il Committee to protect journalists, almeno 79 giornalisti e operatori dei mezzi d’informazione hanno perso la vita nella guerra lanciata da Israele contro Hamas, un numero che rende questo periodo il più sanguinoso per i giornalisti da quando l’ong ha cominciato a raccogliere dati nel 1992.

◆L’8 gennaio l’esercito israeliano ha ucciso nel sud del Libano Wissam Tawil, un importante capo militare del gruppo libanese Hezbollah, alleato di Hamas e sostenuto dall’Iran. Nelle ostilità al confine tra Libano e Israele sono morti 130 combattenti di Hezbollah; Tawil è il dirigente più importante ucciso finora.

◆Alcuni militari israeliani hanno avvertito il governo che la Cisgiordania occupata è sull’orlo di una “terza intifada” a causa del deterioramento della situazione economica e politica.

Afp, Al Araby al Jadid


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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati