Ennesima opera su migranti e scafisti, il libro di Piero Macola veicola poesia visiva dalle potenti atmosfere e allo stesso tempo una poesia dell’antropologia umana, cioè della verità insita nei volti fin dai tratti somatici. Ma, lavorando per la prima volta con uno sceneggiatore (il francese Dabitch), il veneziano Macola, con il suo segno dal tocco leggero e delicato, racconta i meandri delle paludi di Venezia come il veneziano Hugo Pratt raccontava il labirinto della giungla amazzonica con i suoi arcipelaghi nascosti: una vera (ri)esplorazione dei luoghi. Con al centro un ragazzo figlio di pescatori in cerca del padre, Lagune è un romanzo di formazione in una Venezia parzialmente distopica. Il Mose si è trasformato in un muro che inghiotte i migranti e il futuro dei veneziani, di fatto prigionieri. Si combinano perfettamente l’intelligenza fine della sceneggiatura di Dabitch e la grande sensibilità di Macola negli acquarelli: il rossiccio della terra arcaica si confonde con la ruggine di un mondo in disfacimento che sembra situarsi prima del postapocalittico La terra dei figli e dei ragazzi sull’orlo della guerra civile di Appunti per una storia di guerra, entrambi di Gipi. In realtà siamo nell’oggi, sull’orlo del precipizio, ma trasfigurato. I turisti girano ancora, come sempre. Solo che sotto è tutto marcio. L’umanità, però, riprende il largo nel finale. Perché è un’opera sulla presa di coscienza.

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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati