Il 17 febbraio la madre e l’avvocato di Aleksej Navalnyj sono stati informati che l’oppositore russo era deceduto per una “sindrome da morte improvvisa”: l’assurdità di questa affermazione quasi tautologica (a cui si aggiungono le difficoltà dei familiari per riavere il suo corpo) basta da sola a trasmettere il messaggio. La morte di Navalnyj era stata annunciata da una dichiarazione inquietante subito dopo il suo arresto nel 2021: un portavoce del Cremlino aveva esplicitamente detto che in carcere le persone possono morire e che Navalnyj non avrebbe ricevuto alcun trattamento privilegiato. L’omicidio di Navalnyj ci ricorda qual è la vera natura del regime di Vladimir Putin e, al di là delle solite frasi di circostanza, il primo gesto della comunità internazionale dovrebbe essere dare più aiuti all’Ucraina. La caduta della città di Avdiivka in seguito a un lungo assedio è l’altra faccia della medaglia dell’omicidio dell’oppositore russo.

Il compito di tutti noi è esprimere senza riserve piena solidarietà a Navalnyj. Potrebbe essere un problema per quelle persone “di sinistra” che oggi vogliono solo ridurlo a un agente della Nato usato per indebolire il Cremlino. Chiaramente ci sono degli aspetti non chiari: il suo documentario del 2021 sul palazzo di Putin sul mar Nero era fatto in modo così professionale che veniva naturale chiedersi chi ci fosse dietro; nei suoi interventi, inoltre, mancavano quasi completamente delle vere proposte programmatiche.

Si è schierato per la libertà contro la tirannia, e ha rappresentato una vera minaccia per il regime russo

Eppure non abbiamo scelta: Navalnyj si è schierato per la libertà contro la tirannia e ha rappresentato una vera minaccia per il regime russo. Lo dimostra il modo in cui è stato trattato dalle autorità.

Vale la pena ricordare che, mentre il documentario sul palazzo di Putin veniva visto da decine di milioni di russi, il presidente si era limitato a negare di possedere quel palazzo, senza citare il suo accusatore per nome. Sulla televisione di stato Navalnyj si era meritato appena un accenno. Il pubblico avrebbe fatto bene a dimenticarsi di lui. E nei giorni scorsi nelle brevi occasioni in cui si è fatto riferimento alla sua morte, è stato usato l’appellativo coniato dal servizio penitenziario: “Il detenuto”.

Non è questa una prova del fatto che, come hanno sostenuto alcuni, Navalnyj è stato l’unico esponente dell’opposizione di cui Putin aveva davvero paura? Sì, ma io credo che l’obiettivo della censura non è solo far dimenticare Navalnyj: lo scopo è cancellarlo dallo spazio pubblico. Lui non deve esistere per quello che nella teoria lacaniana è chiamato il “grande Altro”, lo spazio pubblico condiviso. Quando ero giovane, negli anni settanta, ci fu un caso simile di censura nella Cecoslovacchia comunista. Martina Navrátilová (all’epoca la più grande tennista del mondo, emigrata in occidente e diventata una non-persona anche per i mezzi d’informazione sportivi cechi) aveva raggiunto la semifinale di un torneo internazionale, e uno dei maggiori quotidiani sportivi cechi titolò “Ecco i quattro semifinalisti”, per poi citare solo tre nomi: quello di Navrátilová fu semplicemente ignorato. Per quanto strana, quella censura non era senza senso perché l’incongruenza esplicita del titolo puntava verso il quarto nome escluso, che era quindi presente nell’assenza, per usare il lessico strutturalista. Lo stesso vale per Navalnyj: più era innominabile per i mezzi d’informazione pubblici russi, più era presente nell’assenza e tanto più la sua presenza spettrale ha tormentato la vita di migliaia di persone.

In un paese dominato dall’apatia nei confronti della politica, ha incoraggiato l’attivismo: “Se decidono di uccidermi, significa che siamo forti”

Ma il vero miracolo è che in quelle condizioni Navalnyj è diventato il leader dell’opposizione, non solo per la sua schiettezza carismatica e il suo candore, ma anche per il suo senso della strategia. Anni fa aveva capito subito che Putin tollerava pochissima opposizione nelle grandi città, quindi si era messo a viaggiare per la Russia mobilitando movimenti locali in tutto il paese fino alla Siberia: era su un volo di rientro dalla Siberia a Mosca quando fu avvelenato nell’agosto 2020.

Navalnyj ha mostrato un coraggio che rasentava la perfezione folle. Dopo essere stato avvelenato e poi aver avuto il permesso di trasferirsi in Germania per ricevere cure adeguate, era tornato in Russia, sapendo cosa lo aspettava al suo arrivo. A cosa stava pensando? Quali erano le sue speranze? Un comportamento quasi troppo perfetto per essere vero: è qui che incontriamo la (per molti problematica) dimensione teologica della politica. Sei mesi prima di morire, Navalnyj ha rilasciato un’intervista scritta. Ecco la sua risposta alla domanda “In cosa credi?”: “In Dio e nella scienza. Credo che viviamo in un universo non deterministico e che siamo dotati di libero arbitrio. Credo che non siamo soli in questo universo. Credo che i nostri gesti e le nostre azioni saranno giudicati. Credo nel vero amore. Credo che la Russia sarà felice e libera. E non credo nella morte”.

Queste affermazioni potrebbero suonare ingenue e perfino incoerenti, ma è proprio per questo che esprimono una presa di posizione politica autentica e radicale. La fede di Navalnyj e il suo scetticismo nei confronti della morte non ci parlano di un dio personale o d’immortalità in senso letterale, ma della fede nel grande Altro, un’entità simbolico-virtuale che registra ed esamina il vero significato delle nostre azioni: tutto quello che succede nelle nostre vite non svanisce semplicemente dopo la morte, c’è un bilancio globale che regola i conti in una sorta di giudizio universale.

Perché tanti saggi sono intitolati “trattato politico-teologico”? La risposta è che una teoria diventa teologia quando è parte di un impegno politico soggettivo totale. Come osservava Kierkegaard, io non maturo la fede in Cristo dopo aver confrontato diverse religioni e aver deciso che gli argomenti migliori sono a favore del cristianesimo. Ci sono motivi per scegliere il cristianesimo ma mi appaiono solo dopo che ho preso la mia decisione, vale a dire che per vedere le ragioni della fede è necessario già credere. Lo stesso vale per il marxismo. Non è che sono diventato marxista dopo aver analizzato oggettivamente la storia: la mia scelta di essere marxista (l’esperienza di un posizionamento proletario) me ne fa vedere le motivazioni. In altre parole, il marxismo è il paradosso di una conoscenza “vera”, oggettiva, accessibile solo da una posizione di parte e soggettiva. Per quanto possa sembrare folle, è ciò che stava facendo Navalnyj.

Ed è il motivo per cui, in un paese dominato dall’apatia nei confronti della politica, Navalnyj ha incoraggiato l’attivismo: “Se decidono di uccidermi, significa che siamo incredibilmente forti. Dobbiamo usare questo potere per non mollare, per ricordare che siamo una grande forza oppressa da questi brutti ceffi”. Aveva ragione, per questo è innominabile nel discorso pubblico ufficiale. Per dirla con il linguaggio lacaniano, nella sua ingenuità Navalnyj non era un folle. Ecco qui un passaggio da L’etica della psicoanalisi di Lacan: “Il fool è un sempliciotto, un ritardato, ma dalla sua bocca escono delle verità che non solo sono tollerate, ma acquisiscono una loro funzione per il fatto che talvolta il fool è rivestito delle insegne del buffone. Quest’ombra felice, questa foolery di fondo, ecco che cosa costituisce ai miei occhi il pregio dell’intellettuale di sinistra”.

L’intellettuale di sinistra è un buffone di corte che espone pubblicamente la menzogna dell’ordine esistente, ma in un modo che sospende l’efficacia sociale del suo discorso. Oggi, dopo la caduta del socialismo, il folle è un critico culturale postmoderno che, attraverso le sue procedure ludiche destinate a “sovvertire” l’ordine esistente, in realtà ne è un complemento, dalla cancel culture dei sostenitori della cultura woke ai guardiani occidentali delle “libertà individuali”. Come Julian Assange, Navalnyj non era un buffone che diverte il pubblico con fasulle dichiarazioni “dissidenti” che a lungo termine rafforzano il regime. La Russia di Putin è ancora piena di persone così che vengono tollerate. Navalnyj non era uno di loro e per questo ha pagato il prezzo più alto. Che lo abbia fatto consapevolmente lo rende unico tra gli eroi di oggi. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati