La morsa dell’esercito israeliano si è stretta sugli ospedali di Gaza. Le truppe avanzano nel cuore della città, accerchiano gli edifici, intorno ai quali sono attivi carri armati e bulldozer blindati, che combattono i miliziani di Hamas nelle zone lì intorno, con un intenso supporto aereo. Gli ospedali, ultimi rifugi dei civili di Gaza, stanno collassando: dalla sera del 10 novembre l’elettricità e internet sono state interrotte. Manca l’ossigeno.

L’ospedale di Al Shifa, il più grande della città di Gaza, è diventato “una zona di guerra aperta”, secondo il ministero della sanità del territorio governato da Hamas (la mattina del 15 novembre l’esercito israeliano ha annunciato di essere entrato all’interno dell’ospedale. In serata si è ritirato, continuando a circondarlo). Il 12 novembre il reparto di cardiologia è stato colpito da un bombardamento. Il ministero della sanità dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), a Ramallah, in Cisgiordania, ha detto che “trentanove bambini in terapia intensiva sono in pericolo di vita per mancanza di ossigeno e un neonato è morto. Se non si fornirà carburante agli ospedali, sarà una condanna a morte anche per gli altri”.

Caos totale

Il direttore generale degli ospedali di Gaza ha implorato il 12 novembre il vicino Egitto di intervenire inviando un convoglio di veicoli medici per portare via i feriti. Gli Stati Uniti hanno affermato di essere contrari ai combattimenti negli ospedali. “Abbiamo avuto delle energiche discussioni con l’esercito israeliano al riguardo”, ha dichiarato alla Cbs il 12 novembre il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. Il capo della diplomazia dell’Unione europea Josep Borrell ha invitato Israele alla “massima moderazione” per proteggere i civili, ma ha condannato quello che ha definito l’uso “degli ospedali e dei civili come scudi umani” di Hamas.

“Siamo una zona di guerra”, conferma a Le Monde Mohamed Hawajari, un infermiere che lavora per l’ong Medici senza frontiere (Msf). “I nostri uffici sono a trecento metri da Al Shifa. Ieri sono andato all’ospedale. Si sparava ovunque. Le strade in macerie erano coperte di morti e feriti. Negli accampamenti di teli e tende allestiti per gli sfollati dentro l’ospedale alcune persone sono state bersagliate di colpi mentre tentavano di uscire. Tornando verso gli uffici di Msf non ho potuto nemmeno fermarmi dalle persone ferite e cadute a terra perché sparavano dappertutto, alla cieca. Sparavano dai droni, dagli aerei. A volte sono dei cecchini”.

Nell’ospedale che accoglieva ancora circa tremila pazienti, di cui 650 feriti non in grado di muoversi autonomamente, l’11 novembre regnava un caos totale. “Non c’è più nessuna amministrazione, nessuna direzione”, continua Mohamed Hawajari. “Ho cercato un responsabile, ma non c’è nessuno. È una situazione catastrofica. Ho tentato di trovare un po’ di materiale sanitario per i feriti. Non c’erano forniture mediche, non c’erano più anestetici. I generatori non funzionano per mancanza di carburante. Ci sono pochi medici, la maggior parte se n’è andata. Oggi è ancora più pericoloso. Le persone che tentano di scappare sono prese di mira, sono assediate. Salvateli. Sono civili!”.

Verso sud

Tra i medici fuggiti c’è Sara Al Saqa, una chirurga che ha lasciato l’ospedale il 10 novembre. “Con alcuni colleghi abbiamo preso la strada verso il sud della Striscia. I profughi e i malati in grado di camminare si sono uniti a noi. Alcuni medici e infermieri hanno scelto di restare per occuparsi dei feriti non trasportabili, ma non ci sono più elettricità, acqua, viveri, e l’ossigeno è stato interrotto dopo gli attacchi”, scrive.

Il 10 novembre vicino all’ospedale Al Shifa si sono avventurati gruppetti di abitanti della zona sventolando una bandiera bianca tra le rovine. I video girati nella fuga da un fixer palestinese, Rami Abu Jamus, li mostrano mentre portano i malati, sostengono gli anziani, fino agli ingressi di Al Shifa, disseminati di spazzatura. Poi se ne vanno via in tutta fretta.

Una donna ferita all’ospedale Al Shifa. Gaza, Palestina, 5 novembre 2023 (Abed Khaled, Ap/Lapresse)

Altri civili, costretti all’esodo dall’esercito israeliano, durante la loro marcia filmano scene d’immensa sofferenza sui marciapiedi, come quella di un anziano inginocchiato accanto a un corpo insanguinato, sotto un albero che lo protegge da un sole pallido, nel silenzio, tra un’esplosione e l’altra. L’esodo della popolazione della Striscia di Gaza s’intensifica. Secondo una stima dell’ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite 1,58 milioni di abitanti, cioè circa il 70 per cento della popolazione, hanno lasciato le loro case dall’inizio dell’operazione israeliana, per trovare rifugio in altri quartieri o nelle strutture dell’Onu.

“La fuga di decine di migliaia di sfollati dal nord verso il sud attraverso un ‘corridoio’ aperto dall’esercito israeliano è continuata l’11 novembre. Centinaia di migliaia di persone rimaste nel nord hanno difficoltà ad accedere agli elementi di base, essenziali alla sopravvivenza”, aggiunge l’agenzia dell’Onu. In tre giorni tra le centomila e le 150mila persone avrebbero lasciato la città di Gaza per raggiungere le zone a sud del wadi Gaza, il corso d’acqua che taglia al centro l’enclave, da est a ovest, e indicato dall’esercito israeliano come la frontiera tra la zona dei combattimenti a nord e le regioni verso le quali agli abitanti è stato ordinato di fuggire. “Tante delle persone sfollate sono arrivate stremate e assetate”, osserva l’Onu.

Fuori uso

Il chirurgo Ghassan Abu Sitta lavorava ad Al Shifa e fa parte delle squadre mediche che il 10 novembre hanno lasciato il principale ospedale del territorio palestinese. “Dopo il collasso di Al Shifa e l’impossibilità di ricoverare altri pazienti, ci ha accolto solo l’ospedale Al Ahli ”, racconta, riferendosi alla struttura colpita da un’esplosione il 17 ottobre. “Sono riusciti a riparare due sale operatorie e alcune sale al piano terra. Da ieri sono arrivati più di 150 feriti. La Mezzaluna rossa palestinese ha allestito un ospedale da campo nel piano interrato. Lavoriamo lì”. In un messaggio pubblicato nel pomeriggio del 12 novembre su X (ex Twitter), Ghassan Abu Sitta ha lanciato l’allarme su una situazione in rapido peggioramento: “Non abbiamo più le sacche di sangue. Un ferito è morto dopo un’operazione perché non potevamo fare una trasfusione”.

Nel quartiere di Tal al Hawa l’ospedale Al Quds, l’altra grande struttura della città di Gaza, non funziona più perché manca il carburante e le strade circostanti sono state interrotte o sono sotto tiro, ha dichiarato il 12 novembre la Mezzaluna rossa.

Da sapere
Molti giovani, pochi anziani
La popolazione della Striscia di Gaza per fasce di età (il 60 per cento ha meno di 25 anni), migliaia (Fonte: Ufficio centrale di statistica palestinese, bbc)

“Facciamo appello alla comunità internazionale e alle istituzioni umanitarie perché intervengano immediatamente e con urgenza per proteggere le nostre squadre al lavoro nell’ospedale Al Quds, i circa cinquecento pazienti e le oltre 14mila persone sfollate, per la maggior parte donne e bambini. Le nostre squadre sono intrappolate all’interno dell’ospedale, carri armati e veicoli militari israeliani lo circondano da tutti i lati, ci sono bombardamenti di artiglieria e intensi spari contro l’edificio, e il numero dei feriti non è ancora noto”, avverte Nebal Farsakh, la responsabile delle pubbliche relazioni della Mezzaluna rossa palestinese.

Ali, un soccorritore della Mezzaluna rossa, descrive la lenta agonia dell’ospedale Al Quds: “Le ambulanze sono fuori uso da giovedì perché non c’è carburante. Inoltre, la maggior parte degli ospedali usa ormai le ambulanze solo per il trasporto dei materiali sanitari e del personale, raramente per aiutare i feriti e recuperare i morti. I cittadini usano i propri veicoli e perfino carretti trainati da asini per farlo. Ci sono anche molti corpi in strade difficili da raggiungere, in particolare nelle zone dove agiscono i tiratori scelti”.

Sistema di difesa

Da una settimana l’esercito israeliano si avvicina a questi ospedali, diventati caotici rifugi di civili, e manifesta la sua determinazione a prenderne il controllo. Diffonde i dettagli delle installazioni militari che Hamas avrebbe sotto l’ospedale Al Shifa, considerate come il nodo di comando centrale della rete di tunnel del movimento islamista, cosa che il direttore della struttura nega. Secondo l’esercito alcuni dei 240 ostaggi israeliani sono detenuti lì. “I terroristi nei sotterranei di Al Shifa stasera possono sentire il rumore tonante dei nostri carri armati e dei nostri bulldozer”, ha detto il 10 novembre il ministro della difesa Yoav Gallant, dopo una giornata di intensi bombardamenti intorno agli ospedali.

Il 10 e l’11 novembre i soldati israeliani si sono schierati intorno al vasto complesso di Al Shifa, ai margini del campo profughi di Al Shati, avanzando verso il dedalo di stretti vicoli che domina il litorale. L’esercito ha ordinato agli abitanti del campo di andarsene passando dal lungomare che scende a sud, tra la schiera dei grandi alberghi dell’enclave e l’ospedale, fino al vecchio porto.

Al personale sanitario, ai malati e agli sfollati impone di seguire con i propri mezzi un percorso indicato come aperto a est del complesso, che dalla grande via commerciale Wahda conduce all’autostrada Salah al Din, attraversando Gaza da nord a sud.

“Hamas ha di fatto perso il controllo del nord della Striscia di Gaza”, si è rallegrato la sera del 12 novembre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma il movimento islamista ha abbandonato l’ambizione di controllare Gaza dopo l’attacco che ha lanciato il 7 ottobre: per Hamas conta solo il suo sistema di difesa, di cui Israele non riferisce la distruzione. L’esercito si accontenta per il momento di snocciolare le stime del numero di combattenti uccisi. I miliziani hanno opposto una resistenza limitata dall’inizio dell’incursione a Gaza, emergendo dalle macerie e dai tunnel per sparare missili anticarro su blindati israeliani ben equipaggiati contro queste armi. Il 12 novembre il bilancio dei soldati israeliani uccisi dall’inizio dell’operazione nell’enclave era di 43. Israele rifiuta di decretare una pausa lunga nei combattimenti, mentre al Cairo, in Egitto, sono in corso le trattative per liberare gli ostaggi. ◆ fdl

Le ultime notizie
Vertici e mediazioni

◆ La guerra è arrivata alla sesta settimana, e ne sono passate tre da quando Israele ha cominciato le operazioni di terra nella Striscia di Gaza. Secondo le autorità di Hamas l’offensiva israeliana ha causato finora la morte di 11.240 palestinesi, tra cui 4.630 bambini (dati aggiornati al 15 novembre). L’attacco di Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre ha causato circa 1.200 vittime, per la maggior parte civili. L’esercito israeliano ha annunciato il 14 novembre che 46 soldati sono morti dall’inizio del conflitto.

◆I timori per un ampliamento del conflitto in Medio Oriente restano alti. Il 12 novembre gli Stati Uniti hanno condotto dei bombardamenti nell’est della Siria contro strutture ritenute legate all’Iran e ai suoi alleati. È il terzo attacco in meno di tre settimane. Continuano anche le tensioni tra l’esercito israeliano e la milizia sciita Hezbollah lungo il confine tra Israele e Libano.

◆I leader arabi e musulmani riuniti in un vertice straordinario a Riyadh, in Arabia Saudita, l’11 novembre hanno chiesto la fine immediata delle operazioni militari nella Striscia di Gaza, respingendo la giustificazione di Israele che afferma di agire per autodifesa. Nel comunicato finale chiedono alla Corte penale internazionale di indagare “i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità di Israele” nei territori palestinesi.

◆Secondo le stime dell’esercito israeliano, il 7 ottobre Hamas ha preso in ostaggio circa 240 persone. Il 14 novembre Israele ha annunciato la morte di Noa Marciano, una soldata di 19 anni presa in ostaggio. Hamas sostiene che Marciano è rimasta uccisa in un bombardamento israeliano. Proseguono i negoziati, con la mediazione del Qatar, per ottenere il rilascio di decine di prigionieri in cambio di un cessate il fuoco. I familiari degli ostaggi hanno partecipato il 14 novembre a una marcia da Tel Aviv all’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme. Lo scopo è fare pressione sul premier affinché si attivi per il loro rilascio. Afp, Al Jazeera


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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati