Il ministro delle finanze del Ghana lo aveva promesso con la mano sul cuore: il suo paese non si sarebbe mai più rivolto al Fondo monetario internazionale (Fmi). “Non lo faremo. Costi quel che costi. Le conseguenze sarebbero terribili, siamo un paese orgoglioso, abbiamo le risorse, abbiamo le capacità”, garantiva Ken Ofori-Atta nel febbraio del 2022, mentre sull’economia ghaneana si addensavano pesanti nuvoloni, tra il crollo del cedi (la valuta locale) e il rapido aumento dei tassi d’interesse. Dieci mesi dopo il Ghana era insolvente e ha sollecitato per la diciassettesima volta dal 1957, anno della sua indipendenza, l’aiuto dell’Fmi. A maggio del 2023 è stato approvato un prestito da tre miliardi di dollari, mentre i creditori del paese hanno promesso la ristrutturazione del debito. Un epilogo amaro per questo ex campione della crescita africana, a lungo amato dai mercati finanziari. Il Ghana è il secondo paese del continente a dichiararsi insolvente dopo la crisi provocata dalla pandemia di covid-19. È stato preceduto dallo Zambia che, dopo interminabili negoziati con i suoi creditori, Cina in testa, il 23 giugno 2023 ha finalmente trovato un accordo.

I problemi di questi due paesi alimentano i timori di una nuova crisi in Africa, a vent’anni da quella che portò a una vasta cancellazione dei debiti (in una trentina di stati) guidata dall’Fmi e dalla Banca mondiale. Ora è di nuovo allarme rosso. Nell’Africa subsahariana alla fine del 2022 il debito pubblico era pari al 57 per cento del pil, un livello mai visto dal 2000. Secondo l’Fmi, oggi nel continente ci sono una ventina di paesi con un livello d’indebitamento eccessivo o sul punto di diventarlo. “In realtà è una crisi internazionale. Sta colpendo tutto il mondo, e in Africa le cifre in ballo sono davvero basse”, spiega Carlos Lopes, docente dell’università di Città del Capo, in Sudafrica. Tuttavia, secondo l’economista, la situazione è comunque spinosa: “Alcuni paesi hanno difficoltà sempre maggiori a onorare gli impegni a causa di una carenza di liquidità”. In sintesi, il problema non è tanto l’ammontare del debito quanto la capacità di raccogliere risorse per rimborsarlo. In Nigeria, il paese più popoloso del continente, il rimborso del debito assorbe più del 90 per cento delle entrate statali, riducendo praticamente a zero le risorse destinate ai servizi sociali.

Gruppi di ricerca e istituzioni internazionali paragonano il periodo attuale agli anni ottanta e novanta, quando gli stati africani, penalizzati dal crollo dei prezzi delle materie prime, registrarono un aumento delle spese tale da provocare un peggioramento del tenore di vita dei cittadini. L’Fmi sottolinea che oggi “il panorama dei creditori è più complesso”. Trent’anni fa il grosso dei prestiti africani proveniva da istituzioni internazionale ed era stato concesso a tassi molto favorevoli.

Dall’inizio degli anni duemila “si sono sommati tre fenomeni”, riassume l’economista britannico Charlie Robertson. Il debito africano è stato cancellato e i tassi di crescita dei paesi sono aumentati, rendendo le loro economie più attraenti agli occhi dei mercati; la Cina, che aveva enormi risorse da investire, ha cominciato a costruire e a fare grossi prestiti in giro per il continente; infine la debolezza dei tassi d’interesse negli Stati Uniti ha favorito l’accesso ai mercati globali del debito”.

Tempi rapidi

Tra il 2007 e il 2020 ventuno paesi africani hanno raccolto fondi sui mercati, nella maggior parte dei casi per la prima volta. Mentre gli aiuti versati dai grandi finanziatori diventavano con il passare del tempo meno generosi, gli eurobond, cioè titoli denominati in una moneta diversa da quella del paese che li emette, hanno fornito agli stati denaro in tempi rapidi e senza condizioni. Tra il 2010 e il 2019 la Cina ha concesso almeno 127 miliardi di dollari a paesi o a imprese sul continente, secondo la China Africa research initiative, un centro di ricerca dell’università statunitense Johns Hopkins. Sotto la guida del gigante asiatico, i cantieri di strade, porti o ferrovie si sono moltiplicati ovunque, e Pechino è diventata il principale creditore di paesi come Gibuti, Eritrea o Zambia. “L’aspetto positivo è che grazie a questi nuovi debiti c’è un’esplosione d’infrastrutture”, sottolinea Martin Kessler, direttore del centro studi francese Finance for development lab. “Purtroppo però alcuni progetti non hanno generato i rendimenti previsti”. E questo a causa di finanziamenti troppo onerosi o investiti male. In Zambia, per esempio, i fondi raccolti sono serviti sostanzialmente ad alleggerire i debiti, mentre una parte dei prestiti cinesi si è persa per strada, finendo a volte nelle tasche dei politici. In Ghana la trasformazione industriale promessa dal governo non è mai avvenuta.

I debiti di quindici paesi sono cresciuti del 200 per cento tra il 2010 e il 2020

I rischi di sbandamento non minacciano allo stesso modo un continente composto da più di cinquanta stati. “I più esposti sono quelli che gli investitori chiamano ‘frontiera’”, osserva Kessler. Quest’espressione indica i mercati dalla crescita promettente ma più piccoli, volatili e con meno liquidità di quelli emergenti. “Per anni sono stati i più dinamici e sono stati considerati vantaggiosi”, aggiunge il ricercatore.

L’economista Gregory Smith ha creato una lista di quindici paesi, tra cui Zambia, Ghana, Kenya, Etiopia e Senegal, i cui debiti sono cresciuti quasi del 200 per cento tra il 2010 e il 2020. I paesi “frontiera” si sono in un certo senso ritrovati a “guidare un’automobile sportiva su una mulattiera”, scrive Smith, “e questo aumenta la probabilità di un incidente”. Corteggiati dalla Cina e dai grandi investitori, oggi sono intrappolati dall’aumento dei tassi d’interesse e dall’apprezzamento del dollaro, fattori che rendono più onerosi i prestiti denominati in valute straniere.

Questi paesi preoccupavano già prima della pandemia di covid-19 e della guerra in Ucraina, eventi che ne hanno peggiorato fortemente la situazione. In Kenya il governo sta introducendo nuove tasse – sui carburanti, sui prodotti di bellezza e sulle criptovalute – per ridurre il debito, ma ha fatto crescere il malcontento tra i cittadini.

Come lo Zambia, il Ciad e il Ghana, anche l’Etiopia ha chiesto la ristrutturazione del debito seguendo lo schema proposto dal G20. La procedura, però, è complicata e nel frattempo Addis Abeba sta esaurendo le sue riserve valutarie.

I paesi occidentali, con in testa gli Stati Uniti, accusano la Cina di voler trascinare le discussioni per le lunghe, anche se “ormai non c’è più nessuno che crede nell’esistenza di un grande piano di Pechino per depredare i paesi più vulnerabili”, osserva una fonte vicina all’unità che gestisce il programma del G20. Secondo l’Fmi, “solo l’8 per cento del debito dei paesi dell’Africa subsahariana è dovuto alla Cina, mentre tre quarti sono prestiti commerciali, emessi all’interno o sotto forma di eurobond. I creditori privati sono di rado i più solleciti a intervenire nel caso di debiti fuori controllo. A differenza della Cina, nessuno di loro ha partecipato all’iniziativa di sospensione degli interessi sul debito proposta dal G20 alle economie in via di sviluppo all’inizio della pandemia.

Se il rischio d’insolvenza è ancora limitato a pochi paesi, l’Africa nel suo complesso è messa a dura prova dalla scarsità di finanziamenti. La concessione di prestiti della Cina è in netto calo, perché Pechino è preoccupata dalle conseguenze delle precedenti operazioni finanziarie. Da mesi nessun organismo africano si arrischia sui mercati internazionali, dove i tassi sono proibitivi. Il continente paga anche lo scotto di un conflitto, quello in Ucraina, che attira l’attenzione e le risorse dei grandi donatori: secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2022 gli aiuti allo sviluppo destinati all’Africa subsahariana sono crollati quasi dell’8 per cento. La solidarietà promessa dai paesi ricchi nella fase iniziale della pandemia fatica a concretizzarsi, mentre l’inflazione si fa più minacciosa.

“La situazione è insostenibile solo in pochi paesi. Ma se le cose non cambiano, se non troviamo un modo per aumentare le risorse, i problemi di liquidità si trasformeranno in problemi di solvibilità”, avverte Abebe Aemro Selassie, direttore del dipartimento per l’Africa dell’Fmi. Secondo l’economista etiope, le pressioni finanziarie rischiano di sfociare in un nuovo decennio perso per lo sviluppo. Le spese nello sviluppo del capitale umano e delle infrastrutture già oggi non sono al livello di un continente in piena crescita demografica e in cui più di un terzo degli abitanti vive in condizioni di povertà estrema. “Tra quindici anni l’Africa fornirà la metà dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro globale”, ricorda Selassie. “Per diventare motori dell’economia mondiale, questi giovani devono poter andare a scuola e godere di buona salute. Se non sosteniamo la loro battaglia oggi, il mondo ne subirà le conseguenze domani”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati