Dalila Johana Flores è diventata una “terrorista” la mattina del 17 gennaio 2023. Prima di quel giorno era una donna di ventiquattro anni con una figlia di tre, che non aveva precedenti penali e si guadagnava da vivere preparando l’impasto per le tortillas da vendere agli abitanti del suo quartiere a Zacatecoluca, una città del Salvador.

Quella mattina una decina di militari è arrivata a casa della famiglia Flores. Al comando del gruppo c’era una sergente. Johana stava macinando il mais, come faceva quasi ogni giorno a quell’ora. I militari si sono presentati cortesemente e le hanno chiesto un documento d’identità. Una richiesta apparentemente semplice che per molte persone ormai coincide con l’inizio di un dramma, per via del clima che si respira nel paese.

Detenuti in un camion a Soyapango, nel Salvador, ottobre 2022 (Moises Castillo, Ap/Lapresse)

Il 27 marzo 2022 il parlamento ha dichiarato lo stato d’emergenza, su richiesta del presidente Nayib Bukele. Il provvedimento aveva l’obiettivo di colpire gli affiliati alla Mara Salvatrucha (MS13) e al Barrio 18, due gruppi criminali che la legge salvadoregna considera terroristi e che da anni tormentano famiglie come quella di Johana. Ma con questo pretesto sono state arrestate più di 73mila persone, spesso dopo segnalazioni anonime o perché la polizia e l’esercito dovevano semplicemente raggiungere una quota minima di arresti.

Solo una verifica

Quando quella mattina i militari hanno cominciato a chiedere informazioni su Johana, il padre della donna, Francisco Antonio Flores Murillo, è tornato a casa. Era uscito per occuparsi delle sue mucche. “Ero sorpreso, ho chiesto a mia figlia cosa stesse succedendo. Mi ha detto che le avevano chiesto un documento, ma non sapeva perché”, ricorda Francisco.

Johana ha continuato a macinare il mais e a servire i vicini che venivano a prendere la loro corita (25 centesimi di dollaro) di impasto. Nel frattempo alcuni soldati si sono allontanati con il documento d’identità di Johana e sono entrati in una casa poco lontano dove, dicono i familiari della donna, vivono i genitori di uno dei leader del Barrio 18 Revolucionarios di Zacatecoluca, una delle tre bande criminali più importanti del Salvador e uno dei principali obiettivi del governo.

Secondo i Flores il problema è nato in quella casa: avevano avuto gravi scontri con la famiglia che viveva lì, e Francisco aveva mobilitato gli abitanti della zona per rispondere. Francisco è convinto che la madre di uno dei leader locali del Barrio 18, in carcere dal 2018, abbia dato ai soldati le false informazioni che hanno trasformato sua figlia in una “terrorista”. È convinto che la donna abbia accusato Johana per vendetta. “In questa zona c’è molta violenza e noi ci siamo organizzati per difenderci a vicenda. Siamo sette fratelli”, spiega Francisco.

Maribel Flores, madre di Johana, aggiunge: “Penso che quella mattina, dopo aver preso il documento, siano andati a mostrarlo a quella donna. Il giorno prima i militari erano stati in casa sua, che era la base delle operazioni della banda. Gli hanno mentito su mia figlia e su altre persone”.

L’assurdità della situazione continua a tormentarla. “Le famiglie dei veri criminali hanno accusato mia figlia di essere un’affiliata”, dice.

Dopo un po’ la sergente ha detto che avrebbero portato Johana alla stazione della polizia di Zacatecoluca, “solo per delle verifiche”. Francisco ha cercato di impedirglielo. Gli ha chiesto se avessero un mandato di arresto. Non lo avevano. Ha dato ai militari il telefono di Johana perché lo controllassero, e loro gliel’hanno restituito perché dentro non c’era niente di sospetto. La conversazione è stata tesa, ma pacata.

“Per quanto ne so, è un’accusa falsa”, ha detto Francisco alla sergente. “I militari stanno portando via le persone che vivono in questa zona con l’inganno, e quando arrivano alla stazione di polizia le arrestano. Mia figlia, glielo ripeto, non fa parte di nessuna banda criminale”.

Solo che non c’era più niente da fare. I militari hanno aspettato che Johana finisse di macinare il mais e che si lavasse, poi l’hanno portata via su un pick-up bianco delle forze armate. È un veicolo che tengono nella postazione militare vicino al carcere di Zacatecoluca (noto come “Zacatraz”, un riferimento alla famosa prigione di Alcatraz, a nord della baia di San Francisco, in California), a poco più di sei chilometri dal quartiere dove vivono i Flores.

Francisco ha preso in braccio la nipote e ha detto ai militari che sarebbe andato con loro. Maribel, che era uscita per sbrigare alcune commissioni, è andata direttamente alla stazione di polizia, ma è successo tutto troppo in fretta. Nel giro di 15 o 20 minuti, racconta Maribel, una poliziotta li ha informati che Johana era detenuta “per associazione illecita”, l’accusa con cui sono stati arrestati quasi tutti dall’inizio dello stato d’emergenza. Hanno protestato e gridato, però Francisco e Maribel non hanno potuto neanche salutare Johana.

Quello stesso pomeriggio la donna è stata portata in una prigione di Santa Ana, un dipartimento al confine con il Guatemala.

I difensori

Dal giorno dell’arresto la famiglia ha fatto di tutto per far conoscere il caso. I documenti che scagionano Johana e che confermano le informazioni contenute in questo reportage sono stati presentati fin dalla prima udienza. I genitori hanno assunto un’avvocata, hanno raccontato la loro disavventura a un giornalista del Diario de Hoy, hanno parlato con organizzazioni umanitarie, si sono rivolti alla procura per la difesa dei diritti umani, hanno partecipato a manifestazioni e hanno scritto una lettera al presidente Bukele.

Un agente delle forze speciali della polizia, un’unità creata nel 2016 per combattere contro le bande criminali, ha rilasciato una dichiarazione giurata in cui sosteneva di aver indagato per tre anni sulla presenza di bande criminali nel quartiere dove vivono Johana e la sua famiglia, arrivando alla conclusione che si tratta di “persone oneste e lavoratrici, rispettose delle autorità”.

Il poliziotto ha anche confermato la storia di Francisco e Maribel, secondo cui la famiglia “è stata vittima di minacce ed estorsioni” del Barrio 18, e che la casa della famiglia è finita al centro di una sparatoria perché i criminali sospettavano che Maribel fosse un’informatrice della polizia. La famiglia ha raccolto inoltre testimonianze di funzionari e persone della comunità che confermano la totale estraneità di Johana alle accuse. Il direttore del centro scolastico del quartiere, Giovanni Ayala, ha firmato e timbrato un documento in cui “attesta” che Johana è “una persona gentile, onesta e di sani princìpi, che ha studiato dalla prima alla nona classe”.

Juan Carlos Barahona, responsabile di un’associazione cattolica locale, ha rilasciato una dichiarazione formale in cui definisce Johana “una persona molto impegnata e una fedele della nostra congregazione”, aggiungendo che per tutta la sua adolescenza ha fatto parte del coro.

Nicolás Antonio García Alfaro, eletto sindaco di Tecoluca con il partito di Bukele, ha difeso l’innocenza di Johana in una lettera. “La conosco da quando era bambina ed è sempre stata una persona legata alla famiglia e studiosa”.

Ma Johana è ancora in carcere. Nessuno della sua famiglia, e nemmeno l’avvocata, ha potuto parlare con lei da quando è stata arrestata. Sanno solo che è in una sezione del carcere particolarmente dura.

Secondo le stime di Socorro jurídico humanitario (Sjh), un’organizzazione che fornisce assistenza legale, psicologica e medica alle vittime dello stato d’emergenza, Johana è una delle quindicimila persone innocenti detenute nel Salvador.

“Ogni giorno ci arrivano tra le dieci e le quindici segnalazioni da famiglie che non hanno cercato prima un aiuto perché pensavano di doversi rimettere alla volontà di Dio o perché si fidavano del sistema”, racconta Ingrid Escobar, direttrice di Sjh. “Abbiamo registrato almeno 1.500 casi di persone innocenti, con nomi e cognomi. Solo 33 sono state rilasciate”.

Nel frattempo la figlia di Johana a settembre ha compiuto quattro anni

Ci sono altre organizzazioni che fanno un lavoro simile, come Cristosal, l’Istituto per i diritti umani dell’università dell’America Centrale (Idhuca), l’associazione Tutela legal Dra. María Julía Hernández, il Centro di scambio e solidarietà e il Movimento delle vittime dello stato d’eccezione (Movir).

“Riteniamo che dopo un anno e mezzo di indagini tutti i detenuti non ancora condannati siano innocenti”, afferma Samuel Ramírez, rappresentante del Movir.

Escobar aggiunge: “Le persone innocenti sono almeno il 30 per cento di quelle arrestate durante lo stato d’emergenza”. Il 30 per cento delle 73.271 che la polizia sostiene di aver catturato fino al 30 settembre 2023 equivale a quasi ventiduemila persone.

Il 22 agosto 2023 il ministro della sicurezza Gustavo Villatoro ha dichiarato in un’intervista in tv che fino a quel momento i detenuti rilasciati erano “poco più di settemila su 72mila”.

“Il sistema giudiziario sta funzionando”, ha aggiunto poco dopo.

L’imponente apparato propagandistico del governo continua a sottolineare i progressi compiuti nella lotta contro le bande criminali, con toni trionfalistici e in parte esagerati. Allo stesso tempo, si fa di tutto per nascondere gli arresti arbitrari. E nelle dichiarazioni ufficiali non c’è traccia dei settemila innocenti liberati fino ad agosto; l’amministrazione Bukele continua a dire che si sono più di 73mila “terroristi” detenuti.

Spese da sostenere

Il 2 ottobre la famiglia di Johana ha portato un pacco di cose da mangiare e prodotti igienici al carcere di Apanteos. C’erano Francisco, Maribel e due sorelle. La loro casa è così lontana che devono noleggiare un’auto e partire la mattina presto per tornare la sera.

Quella per la visita è una delle tante spese che la famiglia deve sostenere dall’arresto di Johana: i compensi dell’avvocata, le pratiche burocratiche, i bonifici alla figlia in carcere (che eseguono disciplinatamente, senza sapere se quei soldi le arrivano) e molto altro.

“Spendiamo 525 dollari al mese. È come se il governo mi rubasse questi soldi”, dice Maribel trattenendo a fatica la rabbia. Due fratelli di Johana e il compagno, padre di sua figlia, che sono emigrati negli Stati Uniti, cercano di mandare del denaro. Senza il loro appoggio la famiglia non saprebbe come sostenere i costi della detenzione. Nel frattempo la figlia di Johana, che non vede la madre dalla mattina del 17 gennaio, ha compiuto quattro anni.

Francisco e Maribel hanno sei figli e cinque nipoti. Un poster di un metro e mezzo del santo recentemente canonizzato, monsignor Óscar Arnulfo Romero, domina la stanza principale della casa.

“Se per i genitori già è molto difficile dal punto di vista psicologico, non si può immaginare quanto sia complicato lavorare con i bambini”, dice Germán Cerros, psicologo dell’équipe Processi di giustizia dell’istituto per i diritti umani dell’università dell’America Centrale.

A ottobre, quando la famiglia è andata alla prigione per consegnare il pacco, non è riuscita a vedere Johana, tanto meno a parlarle. “Speriamo che sia ancora viva”, dice Francisco. ◆ fr

Roberto Valencia è un giornalista spagnolo nato nel 1976. Vive nel Salvador dal 2001. Il suo ultimo libro è Made in El Salvador (Índole Editores 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati