07 dicembre 2016 15:16

Dalla Libia all’Iraq, negli ultimi tempi il gruppo Stato islamico (Is) ha subìto diverse sconfitte. Non è un caso quindi se il primo messaggio del nuovo portavoce dell’organizzazione, Abulhassan al Muhajer, diffuso il 5 dicembre, è stato un invito alla pazienza e alla resistenza rivolto ai combattenti. Al Muhajer è il successore di Abu Mohammed al Adnani, l’ex responsabile della propaganda e delle operazioni all’estero del gruppo (tra cui gli attentati di Parigi), ucciso da un drone statunitense ad agosto.

Le difficoltà dell’Is in Medio Oriente, però, potrebbero preludere a un cambio di strategia. Come avverte l’Europol, molti jihadisti stanno facendo ritorno in Europa e potrebbero pianificare nuovi attacchi, anche con autobombe.

La caduta di Sirte, in Libia
Il 5 dicembre è stata annunciata la liberazione della città libica di Sirte dall’Is, dopo otto mesi di combattimenti che hanno causato la morte di almeno settecento miliziani fedeli al governo di unità nazionale di Tripoli e di un numero imprecisato di jihadisti. La presa di Sirte è stata possibile anche grazie ai bombardamenti dell’Us Africa command: almeno 15 nella giornata del 5 dicembre, per un totale di 492 dall’inizio di agosto.

L’Is aveva preso il controllo della località costiera, città natale del dittatore Muammar Gheddafi, nel maggio del 2015, approfittando delle divisioni che si erano create in Libia dopo la caduta di Gheddafi. Sirte è così diventata la roccaforte nordafricana del gruppo, che al culmine della sua potenza controllava una striscia di territorio lunga duecento chilometri e profonda cinquanta. Si stima che i jihadisti libici fossero in tutto circa tremila.

Oggi la riconquista di Sirte potrebbe aiutare il governo di unità nazionale guidato da Fayez al Sarraj a imporsi sull’esecutivo rivale con sede nell’ovest del paese. Tuttavia, prima di decretare la fine dell’Is in Libia, bisognerà capire quanti jihadisti sono riusciti a rifugiarsi in altre parti del paese, per esempio a Bengasi dov’è nota la presenza di miliziani dell’Is e del gruppo terrorista Ansar al Sharia. La città di recente è stata colpita da due attacchi suicidi, mentre a Sirte una donna si è fatta esplodere mentre si stava consegnando alle truppe fedeli al governo di Tripoli.

Continua l’offensiva su Mosul, in Iraq
Nella città del nord dell’Iraq continua l’avanzata delle forze del governo iracheno e dei loro alleati, tra cui gruppi paramilitari sciiti e peshmerga curdi. Il 6 dicembre i soldati di Baghdad si sono addentrati nel centro della città da sudest per conquistare uno dei cinque ponti sul fiume Tigri. Il 7 dicembre le truppe governative sono riuscite a prendere il controllo dell’ospedale Al Salam, che serviva da centro di comando dei jihadisti. Questi ultimi sviluppi danno nuovo slancio alla battaglia contro l’Is lanciata lo scorso 17 ottobre.

Mosul era la più grande città sotto il controllo dell’Is ed era considerata la capitale del califfato proclamato da Abu Bakr al Baghdadi nel giugno del 2014. All’offensiva governativa partecipano circa centomila combattenti iracheni, con il sostegno aereo e terrestre di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti.

A Mosul l’esercito iracheno combatte quartiere per quartiere, tra attacchi suicidi (circa 650 finora), cecchini e imboscate. Le operazioni si svolgono tra una popolazione civile di circa un milione di abitanti. Si pensa che i jihadisti ancora presenti in città siano circa tremila, mentre due mesi fa il loro numero era stimato fino a cinquemila. Secondo le Nazioni Unite i soldati governativi morti sono duemila, cifra non confermata da Baghdad, e le vittime civili più di novecento. La Mezzaluna rossa ha dichiarato che alla fine di novembre le persone che avevano trovato accoglienza nei campi allestiti dal governo sono state 82mila. Inoltre ci sono diecimila persone della minoranza turcomanna in fuga verso la Turchia e il nord della Siria.

Obiettivo Raqqa, nel nord della Siria
Anche la roccaforte siriana dell’Is è sotto attacco. Il 6 novembre è stata lanciata l’operazione Rabbia dell’Eufrate, il fiume su cui sorge Raqqa, la capitale di fatto dei jihadisti. La campagna militare è condotta dalle Forze democratiche siriane (Sdf), formate da circa trentamila combattenti, di cui ventimila sono veterani curdi e diecimila appartengono alla popolazione araba sunnita del nord del paese. Le Sdf sono sostenute dagli Stati Uniti, ma il rapporto è complicato perché Washington non vuole provocare la Turchia, che considera i curdi siriani dei terroristi.

Raqqa è sotto il controllo jihadista dal gennaio del 2014. Qui vivono i leader dell’Is e qui sono si sono rifugiati altri dirigenti del gruppo scappati da Mosul. Le operazioni di Rabbia dell’Eufrate mirano a circondare Raqqa prendendo il controllo dei villaggi circostanti e delle vie d’accesso alla città, con l’obiettivo finale di liberare la città di 320mila abitanti. Ma le tensioni tra curdi e sunniti all’interno delle Sdf hanno rallentato le operazioni. In ogni caso il 27 novembre è stata annunciata la fine della prima fase della campagna militare, con la conquista di un’altura, Tal Saman, a 25 chilometri dalla città. La seconda fase prevede il lancio di attacchi su vari fronti fino alla liberazione della città.

Migliaia di persone hanno già dovuto abbandonare i villaggi della provincia di Raqqa interessati dai combattimenti. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati si prepara ad accogliere centomila sfollati.

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