05 aprile 2024 15:05

Negli anni settanta durante le registrazioni dei dischi dei Funkadelic succedevano le cose più assurde. George Clinton doveva gestire tantissimi musicisti, con i quali a tratti i rapporti non erano semplici. Nonostante questo, gli imprevisti erano accolti più che volentieri. Come ha raccontato nella sua autobiografia La mia vita funkadelica (Sur 2016), mentre lavorava al brano Get off your ass and jam in uno studio di Los Angeles, negli Stati Uniti, un ragazzo un po’ fatto entrò in studio e chiese se poteva suonare la chitarra in cambio di qualche spicciolo. “Avete una traccia sulla quale posso fare un assolo? Datemi venticinque dollari e ve lo faccio” , disse. Il ragazzo, ricorda Clinton nel libro, “si mise a suonare come un indemoniato”. E la sua parte di chitarra finì dritta nel disco. Perché, alla fine, nello studio di George Clinton tutti erano i benvenuti.

Non è un caso che siano proprio i Funkadelic uno dei gruppi citati da Mace per raccontare la genesi di Māyā, il suo terzo disco solista, che arriva a tre anni di distanza dal successo clamoroso di Obe, trascinato soprattutto dal successo del singolo La canzone nostra, registrato con Blanco e Salmo. Anche a Mace, seppur in modo meno estremo rispetto a George Clinton, piace aprire a tutti il suo studio. E piace condividere tutto con i collaboratori: giornate in studio, pasti, chiacchierate e “viaggi”, come li chiama lui, alludendo a spostamenti fisici ma anche mentali. Il producer milanese, al secolo Simone Benussi, vive la musica come uno scambio continuo. Da lì nasce quell’ibrido tra pop, rap e psichedelia che aveva fatto le fortune di Obe. E che torna in Māyā, sebbene in forme diverse. Anche stavolta tra gli ospiti dell’album ci sono nomi di punta dell’hip-hop e del pop italiano, da Guè a Coez, da Salmo (in Non mi riconosco, insieme a Centomilacarie) a Marco Mengoni (con il quale Mace aveva già lavorato in Cambia un uomo), fino a nomi più vicini al circuito del pop alternativo come Cosmo e Rareș. Tutti questi artisti, però, al servizio di basi strumentali che sembrano uscite dagli anni settanta.

Per Māyā – un termine che secondo la filosofia induista esprime la grande illusione che avvolge ciò che definiamo comunemente come “reale”, un velo che nasconde la vera natura delle cose e di noi stessi – Mace ha cambiato metodo di lavoro, ispirandosi proprio a George Clinton, ai Beatles, ai Doors: per la scrittura del disco ha radunato quindici musicisti nella campagna toscana, con i quali non si è limitato a fare singole session, ma ha vissuto per 24 ore al giorno. Con lui, tra gli altri, c’erano Enrico Gabrielli e Fabio Rondanini dei Calibro 35, il polistrumentista Riccardo Cardelli, Izi, le cantautrici Joan Thiele, Altea (ospite nella beatlesiana Solo un uomo, uno dei pezzi migliori), Venerus, il rapper Gemitaiz, il chitarrista Daniele Bronzini, Marco Castello e altri. Alcuni sono stati in Toscana solo un giorno o due, altri si sono fermati per tutto il periodo.

Una volta tornato nella sua casa-studio di Milano, Mace ha ripreso in mano le lunghe registrazioni che aveva accumulato. “Avevo tipo cinquecento brani strumentali e almeno cinquanta canzoni. A partire da questo materiale ho fatto l’editing e ho richiamato in studio alcuni artisti per riregistrare delle parti”, racconta in collegamento su Zoom dagli uffici della Universal a Milano. “Alcuni brani, come Lumiere (dove sono ospiti Ernia, Digital Astro, Izi e Tony Boy), all’inizio sembravano jam psichedeliche dei Doors o dei West Coast Pop Art Experimental Band. Mi sono detto: ‘Questa roba esiste già, non ha senso rifarla oggi’. Così ho fatto una specie di taglia e cuci, una specie di autocampionamento. E ho dato in mano il risultato a dei rapper giovani come Digital Astro ed Ernia, che mi potevano dare una melodia e un testo più moderno”.

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Mace, che ha i capelli lunghi e tinti di verde e indossa vistosi orecchini, è appena tornato da un viaggio in Egitto, dove ha fatto immersioni subacquee per scaricare la tensione in vista dell’uscita di Māyā. “Amo fare questo sport. In Egitto mi sembrava di nuotare in un acquario, sono andato fino a trenta metri di profondità. È molto meditativo. Devi solo controllare il respiro e guardarti intorno. Mi serviva molto a svuotare la mente in quei giorni”, racconta.

Māyā comincia con un brano dal sapore cinematografico, Viaggio contro la paura: un arpeggio di chitarra, i fiati, un’orchestra sinfonica e un’arpa aprono la strada alla voce di Joan Thiele. Sembra un pezzo pop degli anni sessanta. A metà entra Gemitaiz, che rappa con un tono quasi da cantautore, snocciolando immagini rétro: “Volo via come la busta di American beauty”, oppure “Let it go, let it be, come i Beatles”. È il manifesto del disco, il brano che meglio descrive la volontà di Mace di stare in bilico tra passato e presente. “Viaggio contro la paura è il primo pezzo che abbiamo scritto, è nato in modo molto spontaneo all’inizio delle session in Toscana. In seguito ho aggiunto altri elementi, come l’orchestra sinfonica registrata a Budapest”, spiega Mace.

Brani come Mentre il mondo esplode e La guerra, pur nella loro leggerezza pop, lanciano invece messaggi pacifisti. “Io cito i Funkadelic o i Doors perché, oltre alla loro musica, mi piaceva il loro modo di stare insieme e di far nascere idee dall’interazione delle persone. E condivido molti dei messaggi che la loro musica lanciava. Penso che siano ancora attuali”.

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In Fuoco di paglia domina il soul, con Marco Mengoni che gioca con le note alte in un ritornello scritto da Calcutta. A conti fatti, invece, l’unico pezzo rap “classico” è Praise the lord, dove al giovane Tony Boy si affiancano due veterani come Guè e Noyz Narcos. “Ho deciso di allontanarmi un po’ dalla scena rap italiana, ma è naturale, dai. Ho fatto il mio primo disco hip-hop nel 2003 con i La Crème. Poi mi sono dedicato all’elettronica per tanti anni e ci sono tornato in un secondo momento. La matrice del rap è indelebile, non la vorrei mai cancellare, ma è giusto esplorare altri generi. E poi proprio perché il genere ora è così popolare in Italia io sento il bisogno di fare cose diverse”, aggiunge il musicista, illuminato dal sole che filtra dalle grandi finestre alle sue spalle.

Mace suonerà il disco anche dal vivo. Al momento l’unica data annunciata è quella al forum di Assago il 18 ottobre: “Ci saranno tantissimi ospiti, anche se chiaramente non potranno esserci tutti. Per quelli che mancheranno ci saranno degli ologrammi proiettati sul palco. Se il concerto rap di solito ha la base in sequenza e le voci dal vivo, io voglio fare il contrario: le voci registrate e tutto il resto suonato dal vivo. Sarà un viaggione tra tutti i generi musicali”.

L’ultimo pezzo del disco è Il velo di Māyā. È l’unico strumentale, il più lungo (otto minuti) ed è qualcosa a metà strada tra l’ambient e il jazz, con un liberatorio crescendo finale. Forse è quello a cui Mace tiene di più.

“È venuto fuori insieme con Enrico Gabrielli, che suona su tanti altri pezzi del disco e mi segue in tour. Siamo amici, è una delle menti musicali più geniali che conosca. Un giorno è venuto in studio da me a Milano e abbiamo fatto una jam session senza avere particolari progetti in testa. Lui suonava il sassofono e il sintetizzatore Moog, io i sintetizzatori modulari. Quando abbiamo finito, ci siamo guardati un po’ sorpresi, come se fossimo stati da un’altra parte per otto minuti”, spiega. “Ho capito subito che quel brano era potente, anche se magari un po’ difficile da digerire per una fetta del mio pubblico, dovevo trovargli assolutamente un posto nel disco. Era come se alla fine, dopo aver fatto un grande sforzo per tenere insieme tante personalità e stili diversi, volessi rilasciare la tensione e tirare un sospiro di sollievo”.

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