18 settembre 2023 15:55

Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2018 nel numero 1274 di Internazionale.

Il nome che abbiamo scelto è Funden, dottor Richard Funden. Abbreviato: R. Funden (che in tedesco suona come erfunden, inventato). Lo qualifichiamo come collaboratore della clinica Himmelpforten (“porte del cielo”, è l’indirizzo tedesco a cui si mandano le lettere per Babbo Natale). Funden è il fondatore dell’Institute for applied basic industrial research (Ifabir). Oltre al proprio nome e all’istituto, Funden ha inventato anche un rimedio contro il cancro: una tintura alla propoli, la sostanza resinosa prodotta dalle api.

Funden ha scritto un articolo scientifico sull’argomento. Ecco il cuore della sua tesi: “Attualmente non si conoscono casi di tumore all’intestino nelle api”. Inoltre si legge: “Più in generale le caratteristiche delle api suggeriscono che una terapia con la propoli possa dare buoni risultati (si veda Gibbs, 2012)”. Gibbs sarebbe Edward Gibbs. La sua opera fondamentale s’intitola Little bee (Piccola ape), è lunga 24 pagine ed è un libro illustrato per bambini. La ricerca di R. Funden, invece, s’intitola Effetti combinati degli estratti di acetato di etile della propoli sulla morte delle cellule tumorali intestinali nelle persone. Ma la cosa più importante è che, alla fine dello studio, Funden cita la tintura di propoli “Bio 99 Tm”, attribuendole un effetto quasi magico nella terapia oncologica. Funden dice di possedere la formula. Ma gli manca una solida reputazione. Per questo vorrebbe che la sua scoperta fosse pubblicata su una rivista scientifica, da un editore che si fa pubblicità affermando che ogni contributo viene valutato da esperti indipendenti.

Il 23 marzo 2018 Funden consegna all’editore Omics il testo, farcito di grafici costruiti in fretta, termini scientifici inventati e rapporti su presunte guarigioni. La Omics pubblica lavori di professori di Harvard, multinazionali farmaceutiche e ricercatori di grandi università tedesche. Funden vorrebbe che il suo saggio fosse pubblicato nel Journal of Integrative Oncology, perché sa che se così la terapia alla propoli otterrebbe una parvenza di serietà, rendendo il Bio 99 Tm un vero e proprio affare.

R. Funden non esiste. Ha un profilo Twitter e un sito internet, ma è stato creato apposta per quest’articolo. Ci è servito per indagare un mondo sconosciuto alla maggior parte delle persone. Un mondo pieno di figure che somigliano a Funden: scienziati finiti sulla cattiva strada. Ed editori sospetti che si assumono il rischio di danneggiare – con un misto di imbrogli, noncuranza e sete di profitti – quello che è considerato un pilastro del progresso.

Una tradizione plurisecolare
Le pubblicazioni scientifiche hanno una tradizione plurisecolare. Fungono da prima cassa di risonanza per molte scoperte. Chi vuole diventare professore deve pubblicare lì. Di solito ci vogliono mesi perché un articolo sia accettato. Si pubblicano solo contributi originali utili per la ricerca e passati al vaglio di altri scienziati. La procedura di valutazione dei colleghi si chiama peer review. Certo, anche con questo sistema gli errori ci sono, ma è ancora la regola aurea del controllo di qualità scientifico.

Le pubblicazioni accademiche svolgono un ruolo fondamentale nella società: orientano la ricerca, attirano l’attenzione su certi temi, ispirano leggi, influiscono sulla distribuzione dei finanziamenti, sulle autorizzazioni dei farmaci e sulle decisioni politiche. Finora godevano della fiducia generale, ma ora la stanno perdendo. Proprio in quest’epoca di notizie false e propaganda, mentre le persone cercano verità e solide conferme, una parte del mondo scientifico ha cominciato ad allontanarsi dalla realtà. Proprio nel mondo della scienza, che molti considerano uno degli ultimi bastioni della credibilità, si è fatta strada un’industria del raggiro. È un mercato milionario con un modello aziendale semplice: gestori di siti internet si spacciano per rinomati editori scientifici, convincendo i ricercatori a pubblicare sulle loro riviste e a frequentare le loro conferenze, per le quali si paga fino a duemila euro.

Il settore della falsa scienza sfrutta un’idea di per sé buona: l’open access

Il problema è che questi contributi scientifici spesso sono pubblicati senza un controllo degno di questo nome. Perciò studi di università rinomate possono finire accanto a sciocchezze scritte da qualche ciarlatano, teorie del complotto accanto a pubblicità. Chi li critica ha trovato per questi editori pseudoscientifici un nome a effetto: “editori predatori”. Il loro scopo è spennare i clienti provenienti dal mondo della ricerca e dell’industria, senza preoccuparsi del fatto che così stanno danneggiando anche la scienza.

Noi giornalisti del Süddeutsche Zeitung Magazin e della Süddeutsche Zeitung, insieme ai colleghi delle emittenti radiotelevisive pubbliche Norddeutsche Rundfunk (Ndr) e Westdeutsche Rundfunk (Wdr), ci siamo aggirati per mesi nella galassia degli editori predatori, frequentando conferenze in tutto il mondo e parlando con decine di esperti. Insieme a testate internazionali come il New Yorker e Le Monde abbiamo valutato più di 175mila studi.

Secondo le nostre ricerche, la falsa scienza ormai è decisamente rilevante. Alle conferenze degli editori predatori partecipano come relatori anche dei premi Nobel. I professori di molte università tedesche presenziano a eventi sospetti e pubblicano con questi editori, buttando i soldi dei contribuenti, che invece dovrebbero servire a finanziare la ricerca d’eccellenza.

La verità si fa merce
Il settore della falsa scienza sfrutta un’idea di per sé buona: l’open access. Questo principio dovrebbe servire a scardinare le vecchie strutture di potere attraverso riviste scientifiche che fanno controlli rigidi quanto quelli dei loro corrispettivi cartacei, ma che sono accessibili gratuitamente su internet. Questo perché il sapere non sia più confinato nelle elitarie riviste di settore con abbonamenti così costosi da essere alla portata solo delle università dei paesi ricchi. Con l’open access i ricercatori pagano perché i loro lavori siano controllati e pubblicati, ma poi i testi sono accessibili gratuitamente.

Nel 2017, quando ha ricevuto i giornalisti del settimanale statunitense Bloomberg Businessweek nel suo ufficio a Hyderabad, in India, Srinubabu Gedela parlava ancora molto volentieri di quest’idea. Ha raccontato di quando da giovane era un dottorando in medicina che voleva fare ricerca sul diabete, ma nel suo piccolo ateneo sulla costa orientale indiana non c’era una biblioteca decente. Così questo figlio di contadini di un piccolo villaggio, cresciuto in una capanna di fango, ogni mese doveva investire 250 rupie, quasi quattro euro, per un viaggio di dodici ore sul pullman notturno per Hyderabad, dove gli istituti di ricerca disponevano dei numeri più recenti delle riviste di medicina e chimica.

Una volta conseguito il dottorato, Gedela fondò la casa editrice Omics Online Publishing e oggi pubblica settecento riviste scientifiche, su cui ogni anno escono circa 50mila articoli. Secondo la Omics, il 40 per cento di questi studi arriva dall’Europa. Gedela ha vinto molti premi destinati agli imprenditori, ma ora ha quasi smesso di ricevere i giornalisti, perché sa di essere considerato uno dei responsabili del cattivo uso dell’open access. La Federal trade commission (Ftc), l’agenzia governativa statunitense per la difesa dei consumatori, accusa la Omics di “pratiche ingannevoli”, in particolare verso i ricercatori, che credono di avere a che fare con un editore serio. Nell’agosto del 2016 negli Stati Uniti è stato aperto un procedimento contro l’editore.

Gran parte del giro d’affari di Gedela è solo aria fritta. Per denaro le sue riviste pubblicano praticamente qualsiasi cosa, e la valutazione degli esperti nel migliore dei casi è superficiale. Sia le presunte riviste specializzate sia le conferenze – circa tremila all’anno – si fanno pubblicità ricorrendo a nomi di scienziati famosi, anche se quasi nessuno di loro ha mai accettato di collaborare con la Omics.

Il mondo degli editori predatori è popolato da persone che comprano il privilegio di spacciare le loro idee per scienza seria

Anche noi vogliamo parlare con Gedela, ma dopo un primo contatto positivo sparisce. Allora ci prova il collega indiano Shyamlal Yadav, del quotidiano Indian Express, che riesce a ottenere un appuntamento. Ma, arrivato al quindicesimo piano dell’edificio Hightech a Hyderabad, non trova traccia di Gedela. Allora Yadav comincia a fare domande ai suoi collaboratori e solo a quel punto Gedela si fa vivo sul cellulare e accetta di incontrare Yadav quella sera stessa.

Il giorno dopo l’invio dello studio sulla propoli alla Omics, R. Funden riceve una risposta dalla coordinatrice Natalia Jones. Accanto alla firma in calce alla sua email c’è un numero di telefono che corrisponde all’indirizzo di un edificio a due piani in una zona residenziale a sud di San Francisco. Al momento stanno esaminando l’articolo, spiega Jones. E poi prosegue: la Omics organizza molti convegni a cui R. Funden è caldamente invitato a presentare la sua ricerca. Per diecimila dollari Funden potrebbe anche diventare sponsor del Journal Of Integrative Oncology, fregiandosi per ben tre anni del titolo di membro dell’Association of Omics international.

Dopo due giorni arriva un’altra email: l’articolo ha superato l’esame preliminare e ora passerà agli esperti. A cinque giorni dalla consegna, arriva un commento dettagliato al saggio sulla propoli. A quanto pare gli esperti sono rimasti impressionati dall’articolo e dai suoi “importanti riscontri sperimentali per un eventuale uso della ‘Bio 99’ nella terapia oncologica”. Andrebbe fatta solo qualche correzione qua e là: manca una didascalia sotto un’immagine che mostra tre cerchi quasi identici. Poi gli esperti chiedono – mostrando una sorprendente scrupolosità – se Funden abbia ricevuto l’approvazione di una commissione etica, visto che parla di esperimenti sugli esseri umani. Funden aggiunge una frase in cui afferma che lo studio “molto probabilmente rispetta le regole etiche”. Le modifiche sono ritenute sufficienti e il 3 aprile 2018 l’articolo viene accettato. Quindi a Funden viene chiesto se il suo istituto sia interessato a sponsorizzare un convegno.

Il 9 aprile arriva un’ulteriore email della Omics. È firmata da Joseph Marreddy, che è a Londra. Cercando il suo indirizzo su Google, arriviamo a un’azienda che vende indirizzi di uffici. Marreddy scrive a Funden: “Il suo articolo è pronto per la pubblicazione e siamo lieti di comunicarle che presto potranno accedervi 25 milioni di lettori in tutto il mondo”. In allegato c’è la fattura: 1.892 euro, da pagare entro una settimana a una banca di Singapore. Funden la ignora. Il giorno dopo si fa vivo il Journal of Integrative Oncology: la direzione fa pressione, la fattura va saldata quanto prima, in modo da poter procedere alla pubblicazione l’indomani. Funden non risponde, ma il giorno dopo l’articolo è comunque online.

Ormai Funden è entrato nel mondo della pseudoscienza. Edelweis, un’azienda che pubblica una rivista oncologica, gli chiede se sia disponibile a collaborare. Lo contatta anche un’organizzatrice di convegni: a Parigi si terrà il “nono congresso mondiale sul cancro al seno”. Non è che Funden con la sua esperienza ha voglia di farlo diventare un grande successo? Ora Funden può vantare una pubblicazione scientifica, collabora con una rivista oncologica ed è tra gli organizzatori di una conferenza sul cancro al seno a Parigi.

A prima vista il nostro esperimento sembra solo un gioco buffo. Ma non lo è. Il mondo degli editori predatori è popolato da persone che comprano il privilegio di spacciare le loro idee per scienza seria. Sulla rivista che ha pubblicato lo studio di Funden esce anche il saggio di una naturopata sull’uso del veleno della tignosa verdognola come rimedio contro i tumori.

La conferenza al primo piano
Il confine tra verità e inganno è labile. Nelle biblioteche tradizionali una rivista predatrice non sopravvivrebbe, ma su internet gli articoli di riviste rinomate come Nature o il New England Journal of Medicine distano solo un paio di clic dal Journal of Integrative Oncology della Omics. La peer review dovrebbe far sì che la via d’accesso alle pubblicazioni scientifiche sia stretta come la cruna di un ago. Invece è larga come un tubo di scarico. Secondo le stime degli esperti, otto anni fa gli articoli pubblicati dagli editori predatori erano 50mila, oggi invece sarebbero più di 400mila. Negli ultimi anni i contributi dei ricercatori tedeschi usciti per i due pseudoeditori più noti sono più che triplicati. L’azienda texana Cabell’s ha pubblicato una lista (accessibile ai clienti paganti) che, sulla base di 65 criteri, stabilisce se una rivista è da considerarsi seria. Nel 2017 ha elencato quattromila editori predatori, quest’anno sono già diventati 8.700.

A Hyderabad, intanto, Gedela si presenta davvero all’appuntamento. Ha circa 35 anni, è basso di statura, tarchiato e molto gentile. Dice che enti come la Ftc vogliono solo proteggere i vecchi editori e combattere il progresso. E lui sarebbe una vittima, non un carnefice. Gedela sostiene che dovrebbe querelare la Ftc chiedendo un risarcimento danni per almeno 3,1 miliardi di dollari. Ma se ci sono altre domande è meglio se gliele facciamo avere per email.

Quando è stato interrogato negli Stati Uniti, a marzo del 2018, Gedela si è dimostrato più loquace: era sotto giuramento. Dalle carte delle indagini emerge un quadro sconcertante. Gedela è riuscito a presentare una conferma solo da parte di 380 dei 25mila scienziati che dovrebbero lavorare come esperti per le riviste della Omics. Su metà degli articoli pubblicati non è riuscito a fornire alcuna prova di un’avvenuta peer review e, anche per quanto riguarda i testi che risultano valutati da altri scienziati, in molti casi si è trovata solo un’annotazione che diceva che potevano essere pubblicati senza modifiche.

La Omics è uno degli editori predatori di maggior successo. Ma ormai il mercato è grande abbastanza perché anche altri possano guadagnare raggirando gli scienziati eIn fondo a un lungo corridoio c’è un uomo seduto a un tavolo pieghevole su cui sono poggiati i programmi e le targhette con i nomi. L’uomo, viso tondo, sulla trentina, capelli neri raccolti in una coda di cavallo, si presenta con il nome di Naheed, dice di essere cipriota e di essere un dottorando in informatica. Per quello che ne sappiamo noi, Naheed in realtà si chiama Bora Ardil, è turco e, insieme al padre Cemal e alla sorella Ebru, gestisce la Waset, un’azienda che organizza presunti convegni scientifici. Quando cerchiamo di parlare con lui, Naheed s’innervosisce. L’argomento della sua tesi di dottorato? Be’, insomma, è ancora agli inizi.

Non è capace di farsi venire in mente rapidamente neanche il nome della sua università. Gli Ardil organizzano praticamente una conferenza alla settimana: Singapore, Bali, Stoccolma, Roma. Il sito della Waset sembra il catalogo di un’agenzia di viaggi, pieno di foto di metropoli e spiagge accanto ai titoli altisonanti dei vari incontri. Bora Ardil svolge sempre lo stesso compito: verifica che chi entra nella sala convegni abbia pagato, 300 euro per gli uditori e 400 per i relatori. Ci sono conferenze in programma fino al 2030. Il sito ha un’aria sospetta, sembra l’opera di un dilettante, ma settimana dopo settimana gli Ardil attirano scienziati alle loro conferenze.

Nella sala le tende sono tirate e il caffè nei bicchieri di polistirolo è annacquato. Le sedie sono una ventina: poche, se si considera che secondo il programma qui si dovrebbero tenere 34 diverse relazioni scientifiche. In prima fila c’è uno studente saudita che sembra agitato e chiede al suo vicino di scattargli una foto quando comincerà la sua relazione. “È per la mamma”, dice.

Il primo discorso lo tiene un professore indiano, che per venti minuti snocciola lunghe serie di numeri. Gli umanisti in sala sfogliano i loro programmi: che abbiano fatto confusione? Che siano finiti nella sala sbagliata?

Bora Ardil non si trova più: ha abbandonato il tavolino pieghevole. Sembra proprio che non voglia spiegare perché invece delle numerose conferenze specialistiche ce ne sia una sola dal tema improbabile.l’opinione pubblica. A gennaio del 2018 siamo in un hotel alla periferia di Londra. La donna alla reception non ha mai sentito parlare dell’International conference on internet communication technologies. Sfoglia l’agenda, ma non c’è niente. “Provi ad andare al primo piano, c’è una conferenza scientifica”, dice.

In fondo a un lungo corridoio c’è un uomo seduto a un tavolo pieghevole su cui sono poggiati i programmi e le targhette con i nomi. L’uomo, viso tondo, sulla trentina, capelli neri raccolti in una coda di cavallo, si presenta con il nome di Naheed, dice di essere cipriota e di essere un dottorando in informatica. Per quello che ne sappiamo noi, Naheed in realtà si chiama Bora Ardil, è turco e, insieme al padre Cemal e alla sorella Ebru, gestisce la Waset, un’azienda che organizza presunti convegni scientifici. Quando cerchiamo di parlare con lui, Naheed s’innervosisce. L’argomento della sua tesi di dottorato? Be’, insomma, è ancora agli inizi.

Non è capace di farsi venire in mente rapidamente neanche il nome della sua università. Gli Ardil organizzano praticamente una conferenza alla settimana: Singapore, Bali, Stoccolma, Roma. Il sito della Waset sembra il catalogo di un’agenzia di viaggi, pieno di foto di metropoli e spiagge accanto ai titoli altisonanti dei vari incontri. Bora Ardil svolge sempre lo stesso compito: verifica che chi entra nella sala convegni abbia pagato, 300 euro per gli uditori e 400 per i relatori. Ci sono conferenze in programma fino al 2030. Il sito ha un’aria sospetta, sembra l’opera di un dilettante, ma settimana dopo settimana gli Ardil attirano scienziati alle loro conferenze.

Nella sala le tende sono tirate e il caffè nei bicchieri di polistirolo è annacquato. Le sedie sono una ventina: poche, se si considera che secondo il programma qui si dovrebbero tenere 34 diverse relazioni scientifiche. In prima fila c’è uno studente saudita che sembra agitato e chiede al suo vicino di scattargli una foto quando comincerà la sua relazione. “È per la mamma”, dice.

Il primo discorso lo tiene un professore indiano, che per venti minuti snocciola lunghe serie di numeri. Gli umanisti in sala sfogliano i loro programmi: che abbiano fatto confusione? Che siano finiti nella sala sbagliata?

Bora Ardil non si trova più: ha abbandonato il tavolino pieghevole. Sembra proprio che non voglia spiegare perché invece delle numerose conferenze specialistiche ce ne sia una sola dal tema improbabile.

Le star del mondo scientifico hanno pubblicato ripetutamente presso gli editori predatori.

Di solito i convegni scientifici servono a far incontrare gli studiosi di un certo settore, perché presentino le ricerche in corso, ne discutano e stabiliscano relazioni. Le università e le grandi aziende vanno fiere di un loro collaboratore che fa da relatore a un convegno importante, perché significa che quella ricerca è abbastanza rilevante. Ma a Londra l’intera giornata è semplicemente senza capo né coda: ci sono politologhe coreane che non capiscono una parola della relazione della psicologa di Singapore. Dopo aver tenuto la sua relazione ed essersi fatto fotografare, il dottorando saudita sparisce in un batter d’occhio. Durante la pausa caffè il professore indiano ammette che fin dalla prima occhiata al programma online aveva intuito che non ne sarebbe valsa la pena. Ma la sua università paga il viaggio, e Londra andrebbe visitata almeno una volta nella vita. Si risparmia il resto delle relazioni e va a fare shopping.

A Londra, però, non ci sono solo i raggirati e i turisti dei congressi. A fine pomeriggio tiene la sua relazione un australiano. Indossa una polo nera con il logo aziendale e parla di un sistema di misurazione che sarebbe in grado di determinare la stabilità del calcestruzzo “meglio della maggior parte delle altre tecniche”. Sta facendo un dottorato, ma è principalmente un imprenditore. Infatti è a capo di un’azienda che offre ai suoi clienti proprio il sistema di misurazione che sta presentando. “Grazie alle referenze universitarie i clienti si fidano di più”, racconta. È per questo che è qui: “Così potrò dire di aver presentato la nostra tecnica a un pubblico di esperti internazionali”. Ma ormai il pubblico in sala è composto da una sola persona, un francese che combatte con il sonno.

Volendo verificare quanto sia facile partecipare a un convegno della Waset raccontando un sacco di sciocchezze, anche noi ci siamo iscritti sotto falso nome come relatori. Non sembra che la Waset faccia controllare in anticipo gli interventi. Pagando si può presentare qualsiasi cosa. La nostra relazione dal titolo “Highly-available, collaborative, trainable communication: a policy-neutral approach” (Comunicazione altamente affidabile, collaborativa e aggiornabile: un approccio indipendente dalla politica) non è neanche farina del nostro sacco.

Su internet abbiamo scovato un programma, Scigen, che genera testi scientifici: a una prima occhiata sembrano credibili, ma in realtà sono accozzaglie di testo prive di senso e accompagnate da grafici senza significato. Scigen è stato inventato da alcuni studenti statunitensi: è uno scherzo per iniziati che vuole prendere in giro il gergo scientifico. Durante la nostra presentazione londinese, diciamo tra l’altro di aver eseguito le misurazioni servendoci di vecchi game-boy della Nintendo al posto dei computer. Nessuno tra il pubblico storce il naso. La sera stessa il nostro finto scienziato riceve un’email dalla Waset. La relazione sarà premiata con il Best presentation award. Il certificato è già allegato all’email.

La sicurezza dell’albergo
Chiunque, pur sapendo cosa sono la Waset e la Omics, continui a presentare i propri lavori a questi convegni e a pubblicarli su queste riviste si rende complice della diffusione della pseudoscienza. Ai convegni della Waset a Vienna, New York e Berlino la situazione è altrettanto disastrosa. A Berlino riproviamo a parlare con Bora Ardil. Gli chiediamo se c’è qualcosa in questi convegni che meriti di essere chiamato scienza. Ardil stringe le labbra, alza le mani e si schermisce: “Farò intervenire i miei avvocati”. Attraversa di corsa il corridoio dell’hotel, fa una telefonata e poi chiama la sicurezza dell’albergo. La Waset non risponde alle domande che le mandiamo per iscritto. Un’occhiata ad alcuni articoli pubblicati dai più noti editori predatori fa capire la gravità del problema. Tra gli autori ci sono professori e presidi di facoltà di tutta la Germania. Bernd Scholz-Reiter, rettore dell’università di Brema, ha pubblicato tredici volte con editori predatori. Ci scrive che all’epoca le malefatte di queste case editrici gli erano sconosciute, e che oggi le condanna.

Le star del mondo scientifico hanno pubblicato ripetutamente presso gli editori predatori. Per esempio Günther Schuh e Achim Kampker, due professori di Aquisgrana noti per aver sviluppato lo Street-scooter, un furgone elettrico che consegna pacchi per conto delle poste tedesche. Kamp-ker dice che sta cercando di chiarire la situazione. Schuh sostiene di non aver mai sentito parlare di “eventi fasulli” come le conferenze della Waset. Se qualcuno ci offre un palcoscenico, il nostro istituto “di solito se lo prende”, dice. Ma d’ora in poi le cose cambieranno.

E poi c’è Peter Nyhuis, direttore dell’istituto di impianti industriali e logistica all’Università di Hannover e vicesegretario della commissione scientifica del Wissenschaftsrat, il più potente organo di consulenza sulle politiche scientifiche in Germania. L’istituto di Nyhuis è tra quelli con più pubblicazioni presso editori predatori: 32 articoli su riviste legate a congressi della Waset che si sono tenuti tra il 2009 e il 2016 portano la sua firma. Nyhuis non è mai stato a una conferenza della Waset, ma l’hanno fatto molti suoi collaboratori, e spesso era coautore delle loro relazioni.

Una mattina di giugno gli chiediamo un’intervista sul tema delle pubblicazioni scientifiche. Nyhuis capisce subito dove vogliamo andare a parare. Sa che è in gioco la sua reputazione, ed è imbarazzato. Ci racconta che un collega di un’altra università gli ha fatto notare un contributo del suo istituto alla Waset: “Ma perché pubblica lì, è impazzito?’”. Secondo Nyhuis, il problema è risolto: alle presentazioni delle ricerche ripete sempre ai candidati che la Waset è tabù. Ma 32 pubblicazioni significano circa 15mila euro dei contribuenti spesi. Perché nessuno si è accorto che le conferenze della Waset sono una beffa? O forse questa beffa permette una pubblicazione facile e veloce? Secondo Nyhuis, la Waset li ha ingannati garantendo una peer review di cui in realtà non c’era traccia.

In un certo senso anche loro hanno imbrogliato, ma non lo hanno fatto consapevolmente. Nyhuis dice che il loro sistema di verifica interno fa sì che nessun articolo lasci l’istituto se non è degno di pubblicazione. Il problema, però, è che il suo istituto – come molti altri – con il suo prestigio ha nobilitato un’azienda poco seria.

Aggiunta di vitamina C
La pressione a pubblicare è fortissima, basta ascoltare Nyhuis per capirlo. Da lui vige la vecchia regola di due pubblicazioni all’anno in lingua tedesca e due in inglese. Nel 2016 in Germania hanno conseguito un dottorato circa trentamila studenti. In alcune università le tesi di dottorato si scrivono come alla catena di montaggio, e da qualche parte tutta questa conoscenza dovrà pur trovare visibilità. C’è un eccesso di offerta di ricerche e poca domanda. Aver riconosciuto e quindi sfruttato questa lacuna è il motivo del successo di personaggi come Ardil e Gedela.

Ma i colleghi che hanno partecipato ai convegni della Waset non hanno messo in guardia gli altri? Secondo Nyhuis, dopo ogni viaggio è previsto un incontro per commentare gli interventi, ma può capitare che anche conferenze importanti siano deludenti, di per sé non sarebbe affatto strano. E poi nessuno dell’istituto è mai tornato a un convegno della Waset per la seconda volta. In compenso continuavano ad andarci altri colleghi da Hannover. Ma quando si è reso conto del problema, ne ha mai parlato con i colleghi per evitare che commettessero lo stesso errore? Con alcuni sì, dice Nyhuis. Ma non può certo guarire da solo il sistema. Gli editori predatori come la Waset giocano anche sul fattore vergogna. Quella che prova un dottorando quando non ha il coraggio di confessare al relatore che volo, iscrizione e pernottamento sono state spese inutili. Che l’articolo proposto è stato accettato senza alcun controllo e che bisognerebbe cancellarlo dal registro delle pubblicazioni. Nel mondo della scienza la reputazione è la moneta più preziosa, e per paura di rovinarsela molti ricercatori preferiscono coprire un sistema sospetto.

Da tempo questo modello non è limitato al mondo accademico. Nell’autunno del 2017 sul Journal of Health Care and Prevention della Omics è uscito uno studio su uno dei prodotti più noti della Bayer: l’aspirina. Il medicinale continua a generare profitti ma, visto che altri produttori offrono lo stesso principio attivo a prezzi inferiori, la Bayer lancia sul mercato versioni leggermente diverse a prezzi più elevati. Per esempio l’aspirina plus C: non è altro che un’aspirina con aggiunta di vitamina C, ma costa quasi il doppio. Che sia più efficace è opinabile. Ma la ricerca della Omics dichiara fin dal titolo che l’aspirina plus C è più efficace contro i sintomi del raffreddore. Visto che nello studio l’aspirina plus C è messa a confronto con un placebo, cioè con dell’acqua frizzante, non c’è da sorprendersi: l’aspirina combatte i sintomi del raffreddore più di quanto non faccia l’acqua con le bollicine. E invece la domanda dovrebbe essere: questo medicinale più costoso è più efficace di quello senza vitamina C, che è meno caro? Lo studio non se ne occupa.

Martin Hug, professore di farmacia all’Università di Friburgo, ha esaminato la ricerca per il Süddeutsche Zeitung Magazin. “Dal presente lavoro non è possibile dedurre se questo preparato presenti o meno vantaggi rispetto alla normale aspirina”, dice. Una rivista seria non lo avrebbe mai accettato, perché dà un contributo troppo scarso.

Ma con altri suoi prodotti la Bayer va anche oltre. Nel febbraio del 2017 la casa farmaceutica ha pubblicato un comunicato stampa dal titolo allarmante: “Anche in Germania deficit di micronutrienti nelle giovani donne”. Il testo rimandava a uno studio che “fa vacillare quella che finora è stata la convinzione dominante”, e cioè che le donne in gravidanza assumano dosi sufficienti di micronutrienti attraverso un’alimentazione normale. Non è così. Anche in occidente c’è una notevole carenza di acido folico, vitamine e sali minerali. Le conseguenze potrebbero essere “gravi”: farebbero aumentare il rischio di avere un aborto spontaneo o di partorire un bambino con deficit mentali. I medici non dovrebbero limitarsi a consigliare alle donne in gravidanza l’acido folico, già ampiamente diffuso, ma anche le pillole contenenti vitamine e sali minerali. Per questo c’è un prodotto della Bayer che si chiama Elevit: sulla base di una recente pubblicazione scientifica di una ricercatrice della Bayer si può concludere che assumendolo le donne trarrebbero dei benefici.

Esiste già uno studio che raccomanda una certa combinazione di sostanze nutritive, pubblicato sempre dalla Omics e scritto dalla stessa autrice. Anche lì il risultato è che il preparato aiuta le donne in gravidanza a compensare una carenza di sostanze nutritive. Mostriamo lo studio a Herbert Fluhr, professore di medicina di Heidelberg. “Se si vuole vendere, le donne incinte e le neomamme sono il target ideale. Sono preoccupate per il bambino che deve nascere e vogliono fare tutto nel modo migliore”, dice. Secondo Fluhr, la qualità delle ricerche è scarsa. Gli risultano problematici soprattutto i risultati: “Solo se il prodotto fosse migliore di altri uno studio del genere sarebbe scientificamente rilevante”. L’Elevit, invece, è un prodotto standard. Una confezione da novanta pillole costa 36 euro, mentre nei negozi un prodotto quasi identico viene meno di tre euro. La Bayer ammette che tra gli editori ci sono alcune “pecore nere”, ma sostiene di pubblicare solo su riviste scientifiche “riconosciute da chi è del mestiere”. L’azienda non chiarisce se i suoi articoli continuano a uscire presso editori predatori.

Anche altre grandi aziende investono negli editori predatori. La Philip Morris, esclusa da molte conferenze e riviste scientifiche serie, pubblica con la Waset studi in cui si sostiene che i suoi vaporizzatori di tabacco Iqos provochino meno danni per la salute e manda i suoi ricercatori ai congressi della Omics. La Bmw pubblica con la Waset degli studi sulle macchine che si guidano da sole, mentre gli ingegneri della Siemens tengono relazioni sui rivestimenti per le pale eoliche alle conferenze della Omics in Spagna. I ricercatori della Framatome, un’azienda che si occupa di sicurezza nelle centrali nucleari, hanno presentato i piani di emergenza in caso di incidenti nucleari a una conferenza della Waset a Madrid. L’Air-bus pubblica con la Waset gli studi sulla stabilità delle cabine degli aerei.

Avvenimenti spiacevoli
Le aziende reagiscono con irritazione alle nostre domande. La Bmw ci scrive che in futuro i suoi collaboratori saranno obbligati a prendere le distanze dalla Waset. La Siemens parla di avvenimenti “spiacevoli” e pensa di compilare una lista a uso interno degli editori che d’ora in poi saranno esclusi. L’addetto stampa dell’Airbus ci risponde che il fenomeno degli editori predatori gli è sconosciuto e che l’azienda controlla le sue pubblicazioni. La Framatome ci comunica che lavora costantemente per scegliere accuratamente i convegni a cui partecipare. Le email che abbiamo inviato alla Philipp Morris sono rimaste senza risposta.

Ma le pubblicazioni scientifiche non servono solo per convincere i clienti a comprare i farmaci o le automobili. La nostra inchiesta dimostra che le ricerche entrano a far parte della quotidianità politica. L’Istituto europeo per il clima e l’energia (Eike) è considerato un ricettacolo di negazionisti del cambiamento climatico provocato dall’essere umano. L’Eike collabora con persone che hanno il sostegno della CO2 coalition, un’organizzazione discussa vicina a Donald Trump. La sua tesi principale è che le elevate emissioni di anidride carbonica farebbero bene al pianeta.

Il vicepresidente dell’Eike è Michael Limburg, che alle elezioni legislative del 2017 si è candidato con i populisti di destra dell’Alternative für Deutschland (Afd). Di recente, invitato al parlamento regionale del Brandeburgo in qualità di esperto, Limburg ha dichiarato che non ci sono le prove del fatto “che l’anidride carbonica prodotta dall’essere umano riscaldi, in qualche modo misterioso, la temperatura dell’atmosfera del pianeta”.

Limburg ha detto al Süddeutsche Zeitung Magazin che “la ricerca scientifica, se è fatta bene, ci dà sempre la possibilità di indagare a fondo su ogni questione”. Su internet l’Eike definisce peer reviewed delle ricerche che in realtà sono state pubblicate da editori predatori. Per esempio quella di Horst-Joachim Lüdec-ke, addetto stampa dell’Eike. In una conferenza tenuta a Düsseldorf alla fine del 2017 Lüdecke sottolineava che nell’ambito della letteratura scientifica non è facile farsi pubblicare: “I paletti sono molto rigidi”.

Nel 2016, però, Lüdecke aveva pubblicato un suo contributo sul Journal of Geography, Environment and Earth Science International. Abbiamo proposto a questa rivista un nostro saggio privo di senso, generato dal computer. La rivista ci ha contattati accettando l’articolo con poche modifiche. Jochem Marotzke, direttore dell’istituto Max-Planck di meteorologia di Amburgo, ha letto il lavoro di Lüdecke per conto del Süddeutsche Zeitung Magazin. “Quest’articolo non soddisfa neanche gli standard scientifici minimi”, dice. “Se uno scienziato pubblicasse un lavoro del genere su una rivista del genere sarebbe bandito dal Max-Planck”.

La rivista respinge le accuse, dicendo di non essere affatto un editore predatore e di impegnarsi per la trasparenza. Anche Lüdecke nega che si tratti di un editore predatore e sostiene che la peer review sia stata accurata e l’interazione con la rivista sia stata “straordinariamente cortese, corretta, oggettiva e gentile”.

Risultati di ricerche dubbie compaiono ormai anche in rapporti della Commissione europea, nelle richieste di brevetto per medicinali e addirittura nella banca dati del Gemeinsamer Bundesausschuss (G-Ba), un organo che stabilisce se i costi di un medicinale possano essere coperti dalla sanità pubblica tedesca. Le aziende farmaceutiche consegnano al G-Ba le loro domande di autorizzazione, che spesso contano centinaia di pagine, a dimostrazione dell’efficacia dei medicinali.

In questi documenti ci sono molti rimandi ad articoli usciti presso editori predatori. Presentando la domanda per l’ammissione di un farmaco oncologico, un’azienda ha ripreso per intero un’immagine tratta dal Journal of Cancer Science & Therapy della Omics. La rivista è diretta da Kurt Zänker, professore di medicina all’Università Witten/Herdecke. Zänker ci ha spiegato che il suo curriculum e la sua foto sono state messe lì senza il suo consenso. Alle nostre domande, il G-Ba dichiara di essere consapevole del pericolo e di non aver tenuto conto di quegli studi nelle sue valutazioni, proprio perché non rispettavano i criteri di scientificità.

L’Istituto federale per la valutazione del rischio (Bfr) è considerato da molti una roccaforte della ricerca seria. Da più di quindici anni l’istituto analizza alimenti, sostanze chimiche e altri prodotti per accertare se e come possono risultare dannosi per la salute. Nella sua sede di Berlino lavorano ottocento persone, di cui circa la metà scienziati. Leggono pubblicazioni scientifiche e ricavano delle valutazioni da inoltrare ai ministeri che stabiliscono l’ammissibilità dei prodotti, i valori soglia e le avvertenze. Il Bfr svolge un compito fondamentale quando si tratta di stabilire quali prodotti fitosanitari sono consentiti in Germania e quali prodotti chimici possono essere contenuti nei detersivi.

Nel 2013 alcuni esperti dell’istituto hanno scritto una relazione sul discusso diserbante glifosato incentrata su un articolo uscito sul Journal of Environmental & Analytical Toxicology, una rivista della Omics. Il Bfr criticava l’articolo, ma non bollava la rivista né l’editore come pseudoscientifici. Alle nostre domande l’istituto risponde di non avere nessuna lista delle pubblicazioni sospette. Alcuni collaboratori del Bfr hanno addirittura pubblicato articoli con la Omics e sono stati ospiti a dubbie conferenze della Waset e della Omics. Sul sito della Omics c’è anche una pagina dedicata all’istituto. Sembrano accorgersi che si tratta di un editore predatore solo quando glielo suggerisce il Süddeutsche Zeitung Magazin. Ora il Bfr dice che verificherà se ci sono “gli estremi per un’azione legale”.

Nuove regole
Cosa deve succedere perché questa truffa sia presa sul serio e fermata? “Servirebbero regole nuove sulla valutazione della ricerca scientifica”, spiega l’attivista scientifica Debora Weber-Wulff. Spacciare sciocchezze per scienza è facile ma, una volta diffuse, smentirle è difficilissimo. Per eliminare gli editori predatori, dovrebbero voltargli le spalle gli utenti a cui si rivolgono: gli scienziati. Ma gli scienziati, allora, dovrebbero ammettere una cosa spiacevole: che proprio loro, i ricercatori così altamente preparati, sono entrati a far parte di un sistema truffaldino. Prima da vittime, ma poi – tacendo, occultando e accampando scuse – anche da carnefici.

Intanto R. Funden ha ottenuto molti successi. Riceve continuamente inviti a scrivere un nuovo articolo, a parlare a un convegno o a collaborare con una rivista specializzata. Ma noi vogliamo mettere fine all’esperimento. Vogliamo che Funden dica addio al mondo della pseudoscienza e ritiri il suo saggio dal Journal of Integrative Oncology.

Il presunto direttore della rivista, un professore di dermatologia texano in pensione, non risponde alle nostre email. Solo la coordinatrice della rivista, Natalia Jones, replica alla richiesta di Funden che chiede di cancellare l’articolo dalla rete perché “contiene errori gravi”. Eliminare l’articolo non è semplice, scrive Jones, perché sta già andando “in stampa”. La possibilità di cancellarlo, però, c’è ancora. Basta pagare una penale di 2.019 dollari.

(Traduzione di Susanna Karasz)

Da sapere
Gli autori

Quest’inchiesta è stata realizzata da Patrick Bauer, Till Krause, Katharina Kropshofer, Katrin Langhans e Lorenz Wagner, in collaborazione con Felix Ebert, Laura Eßlinger, Jan Schwenkenbecher e Vanessa Wormer. Insieme ad altre testate tedesche e internazionali, come il New Yorker e Le Monde, i giornalisti hanno indagato per mesi sul settore degli editori predatori analizzando circa 175mila articoli.


Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2018 nel numero 1274 di Internazionale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa ne pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it