14 febbraio 2015 12:23

Incontro Saverio Raimondo in un bar vicino al casinò. Siamo a metà mattina, c’è la banda che passa per il centro e suona Perché Sanremo è Sanremo, le ragazzine stanno davanti all’hotel ad aspettare i cantanti (all’improvviso corrono tutte da un’altra parte, noi non capiamo ma loro sanno dove e perché), le signore d’età con il barboncino litigioso al guinzaglio sembrano un poco infastidite mentre i poliziotti si guardano intorno tranquilli perché tanto non succede niente: c’è solo la normale confusione di questi giorni di festival.

Le ragazzine che forse amano Angelo Pintus, il comico del festival di mercoledì, non riconoscono il comico Saverio Raimondo. E non sanno che è un presentatore del festival, quasi. Non sanno che dopo Carlo Conti viene lui, quasi. Saverio conduce, insieme a Sabrina Nobile, il Dopofestival, che la Rai quest’anno diffonde solo sul suo sito rai.tv (le puntate sono disponibili qui).

In questi giorni è cresciuto l’interesse per la trasmissione e soprattutto per i monologhi comici di Raimondo, con tanto di articolo molto critico sul quotidiano cattolico Avvenire, una “scomunica” che è per gli stessi giornalisti manna dal cielo in questi giorni assetati di “polemica.” In conferenza stampa Giancarlo Leone, il direttore di Rai1, loda ripetutamente il Dopofestival e spiega che è solo sul web perché la Rai vuole sperimentare nuovi linguaggi. Mentre alla stessa ora su Rai1 si sperimenta Gigi Marzullo, con il suo Sottovoce in differita (registrato alle 19, prima della serata del festival, informano i quotidiani online).

Con le orecchie intasate dal parapappa pa pà della banda e davanti a un caffè - Saverio andrà in onda tra quindici ore, ne prenderà ancora molti nella sua lunga giornata - inizia la nostra conversazione, (che riporto leggermente editata, per ragioni di chiarezza).

Certo che hai avuto vita facile con i comici di quest’anno a Sanremo.
Sì ho avuto vita facile con i comici che ci sono in questo momento. E pure rispetto a un festival così classico, tradizionalista, restauratore. Non ci vuole molto a fare il controcanto, vinci a mani basse, insomma. Con un festival alternativo, pur tra virgolette, sarebbe stato diverso. In generale, riguardo ai comici italiani si è creato un po’ un equivoco. Si sono chiamati comici degli animatori da villaggio vacanze, bravi e meno bravi, ma sempre animatori. E questo fraintendimento, questa lettura della comicità ha inquinato gli ultimi vent’anni di umorismo in Italia.

Tu ti rifai alla stand-up comedy statunitense e inglese, ed è una tradizione da noi ancora poco compresa. Molti sembrano credere che basti ridipingere con l’effetto mattoni a vista la parete dietro il comico e subito il cabaret diventastand-up.
Non è una questione di muratura, non funziona così… Da noi il primo che ha introdotto quell’universo a livello linguistico e tematico è stato Daniele Luttazzi. Io mi rifaccio a lui o meglio ai modelli che lo hanno ispirato. Parlo così perché sicuramente conosci la questione famosa delle battute copiate. Insomma, Luttazzi sta alla stand-up comedy come Fernanda Pivano sta alla letteratura dei grandi americani, con la differenza che Fernanda Pivano non andava a dire che Sulla strada l’aveva scritta lei.

Questa è un po’ una differenza etica, anche se Luttazzi non è riducibile a uno che copia. C’è sicuramente il problema della quantità e qualità di ciò che lui ha “tradotto”, usiamo questo termine meno polemico. Perché il materiale che ha tradotto era proprio tanto e soprattutto era quello che faceva la differenza, la roba davvero geniale. Sai, sulla satira, come Luttazzi stesso ricorda, importa il tuo punto di vista ma quando il tuo punto di vista sull’aborto è quello di Bill Hicks, quando il tuo punto di vista sulla guerra è quello di George Carlin, allora… E tieni conto che nel suo Barracuda Luttazzi attacca ferocemente Bonolis per avergli copiato una battuta, e poi si scopre che quella battuta era di Carlin…

Insomma non traduceva solo i meno conosciuti. Carlin è un monumento e chiunque ami un poco la stand-up comedy lo conosce, anche grazie a Internet.
E appunto Luttazzi è stato fregato da Emule e Youtube… Ma per concludere: se il suo valore artistico in qualche modo esce ridimensionato, la sua importanza culturale no. Luttazzi ha avuto in questo paese un valore culturale inestimabile, è stato il primo a portare il genere della stand-up comedy. Io oggi non sono un pioniere, lui lo è stato. Ed è rimasto isolato per tantissimi anni, anche per le note ragioni di emarginazione politica.

E in quegli anni aveva molto successo la tradizione del cabaret, importata in televisione.
Direi che il cabaret stesso è stato tradito, perché lo spirito originario, anche del cabaret milanese, era un’altra cosa (pensa alle prime prove di Gabriele Salvatores, Comedians e Kamikazen). Da Zelig in poi si è trasformato in quella che davvero è l’animazione da villaggio vacanze. Il cabaret si è ridotto ancora una volta a quel regionalismo che è la tara della comicità italiana, e ce la portiamo dietro dalla commedia dell’arte.

Tu sei forse l’unico comico romano che non fa mai il romano.
Esatto, e non avendo neppure l’accento mi dovrei sforzare. Mi verrebbe pure male…

Saverio Raimondo negli studi del Dopofestival, nel casinò di Sanremo, il 12 febbraio 2015. (Parlamenti/Pantanella)

Ma allora come sei finito a questo Dopofestival?
È stata una sorpresa, è arrivata la telefonata che non ti aspetti e ho accettato. Mi divertiva e pure onorava. Il Dopofestival è un “marchio Rai” importante e alcune edizioni mi piacquero molto. Chiambretti ed Elio e le Storie Tese, soprattutto. E per venire subito all’altra domanda che mi farai: stare solo sul web è un’opportunità e non uno svantaggio. Lo dico perché in questi giorni di bel successo per il Dopofestival molti – su Twitter, sui blog, ma anche i giornalisti adesso – rimpiangono un pochino il fatto che non sia in televisione. Io questo rimpianto lo capisco a metà cioè ringrazio per il “doveva andare in tv”, perché capisco che è un commento positivo sul lavoro mio, di Sabrina Nobile, di tutti noi. Però la verità è che se questo Dopofestival è piuttosto forte e di rottura, lo deve al web. Certe cose non è possibile farle sulla tv generalista, non voglio dire che sia giusto o sbagliato, e io posso piacere o meno, ma di certo il contesto è questo.

Appunto se fossimo negli Stati Uniti il festival avrebbe come ospite comico Louis C.K, per citare un nome noto anche in Italia grazie alle serie tv. Ma se catapultassimo Louis C.K. sul palco dell’Ariston cosa succederebbe?
È impossibile, è come chiedere un incrocio tra un barboncino e una pescanoce. Sono due mondi completamente diversi. Negli Stati Uniti i Golden Globes sono stati presentati da Ricky Gervais, così nomino pure io uno noto qui per le serie. E modestamente mi sono un po’ rifatto a Gervais per il Dopofestival.

La distanza Italia-Stati Uniti è proprio oceanica. Se tu pensi all’esibizione di Siani o di Pintus e poi pensi a un Jerry Seinfeld, un grandissimo e il più mainstream del mainstream. Beh sarebbe inimmaginabile su quel palco… È un mondo proprio altro: non è diverso, è proprio altro. L’alterità profonda è che lì c’è una tradizione di scrittura comica: quella inglese affonda le sue radici in Swift, quella americana in Twain. E questa cosa è sempre stata il mio tormento: mentre nella letteratura anglosassone ci sono moltissimi esempi di scrittura comica e umoristica, da noi…

C’è il “libro del comico”, cioè il libro che l’editoria propone al comico diventato famoso in televisione. Scusami, ti ho interrotto.
Esatto, esatto. Da noi per la scrittura comica vera abbiamo pochissimi nomi, grandi del passato come Achille Campanile e una parte di Fruttero & Lucentini. Li amo molto e non hanno eredi. Qui c’è il mito del canovaccio, con un’idea dell’improvvisazione peraltro molto superficiale.

E infatti se, senza andare troppo indietro ai De Filippo, nella stessa tradizione napoletana guardi alla Smorfia… Massimo Troisi e Lello Arena, oltre all’enorme talento e alla simpatia naturale, avevano tempi comici impeccabili e una tecnica perfetta.
Tutta un’altra scuola, sì… Non voglio essere monotono ma oggi il modello è l’animazione da villaggio vacanze. È un altro mestiere e lo fanno sia Fiorello che Pintus. Fiorello poi ha sempre avuto dalla sua il fatto di essere molto simpatico, Pintus – e lo dico non per forza come caratteristica negativa – ha un atteggiamento un po’ arrogante. Ma il primo obiettivo del comico, secondo me, deve essere quello di ridicolizzare se stesso.

Ritorniamo al tuo Dopofestival. Diversi comici dalla lunga carriera e dai molti spettacoli fanno su Bill Hicks, morto molto giovane, una battuta tipo: “è un grandissimo ma viene giudicato su due ore di materiale limate al meglio”. Tu devi scrivere per tutta la settimana cose al volo, tirare fuori minuti nuovi ogni sera. Senti la pressione della “qualità”?
Ho l’ambizione, magari destinata allo scacco, di fare bene. Rispetto ai riferimenti alti che mi pongo, e soprattutto adesso. Non è che questo Dopofestival sia visto poco e quindi dici “vabbè, dai, stic…” Io oggi devo rispondere anche a un’aspettativa del pubblico, a un certo standard. Ho la fortuna che il Dopofestival è il prodotto di un’ora, all’interno della quale i momenti di stand-up, quindi scritti, sono due e brevi. Insomma sto riuscendo a realizzarli con una certa qualità e precisione, spero. Nell’arco della giornata riesco a scriverli. Certo farlo tutti i giorni in mezzo alla confusione, alle bande che passano e non ti danno tregua non è semplice.

Tu hai insistito molto, anche con astuzia, nel confronto con il porno. Ne hai fatto un po’ la cifra del Dopofestival.
Sì dico sempre che il porno è il nostro principale concorrente. E il nostro immaginario oggi è un immaginario pornografico. Adesso a nove anni in un pomeriggio con uno smartphone vedi quello che in tutta una vita prima di Internet la maggior parte delle persone non avrebbe mai visto.

A lungo in rete si è evitato di pensare al rapporto tra pornografia onnipresente e sviluppo emotivo per non sembrare tromboni sessuofobi.
Giusto. Perché oggi il nostro immaginario collettivo è costruito nelle fondamenta, giorno dopo giorno, dalla pornografia. E stiamo pornificizzando tutto, dalla politica all’informazione. Lo vedi anche nei dettagli, nell’attacco dei primi piani schiacciati, feticisti. E questo immaginario diventa una forma mentis. Soprattutto se siamo sul web dobbiamo farci i conti. Perché la pornografia è stato il motore della rete, della stessa libertà della rete, e di Twitter e Facebook, alla fine. E se la pornografia è così forte, ovviamente, è perché c’è qualcosa di pornografico già dentro di noi.

Nella serata di giovedì è stato piuttosto apprezzato il primo intervento di Luca Kessisoglu e Paolo Bizzarri. Io ho riso per il brano su Massimo Giletti eroe anticasta che “fa il culo a capanna” (anche con la C maiuscola). Ma ho provato però disagio nel vedere lo stesso Giletti lì in prima fila a ridere, “autoironico”.
La promiscuità, mica te lo immagini Carlin a fare quelle cose… Di nuovo importa il contesto. Sanremo non è uno spazio per fare la stand-up comedy, che rimarrà in Italia sempre una cosa di nicchia, la più larga possibile, mi auguro, ovviamente. Ma sempre nicchia e va bene così. Anche per questo rivendico il Dopofestival sul web: a maggior ragione è uno spazio altro.

E in Italia il comico vive una condizione piuttosto strana. O c’è la museificazione del sommo artista o il ciglio alzato e la condiscendenza per il filmaccio di Natale. Mentre Louis C.K., citiamolo di nuovo, viene recensito con una critica tanto onesta quanto profonda sul New Yorker.
Ma la differenza fondamentale è che Louis C.K., dopo che gli hanno fatto il lenzuolo sul New Yorker, non si mette a leggere Dante o la Bibbia. Continua a fare Louis C.K. Da noi c’è, invece, una grande voglia di istituzionalizzarsi, cioè di smettere di essere comico. È assurdo. Guarda un’altra cosa: i comici, alla fine del loro intervento all’Ariston, vanno sempre sul momento retorico o poetico. È una cosa di una tristezza infinita. Sei un comico, mi devi fare ridere e devi essere sempre antiretorico, devi prenderti gioco di te stesso.

Lo stesso Benigni ha smesso di prendersi gioco di se stesso, e ha smesso di far ridere. Non è una semplice questione d’età, negli Stati Uniti Joan Rivers invecchiava ed era sempre più forte. Se sei un comico, non smetti di far ridere. Oppure ti ritiri. Non ti metti a leggere Dante. È questa l’enorme differenza e questo accade perché da noi esiste ancora un pregiudizio culturale rispetto alla comicità. Mentre in altri paesi è un non-problema, e così ci ricolleghiamo anche al discorso della tradizione di scrittura comica che abbiamo fatto sopra.

Veniamo all’inevitabile domanda sulla satira politica… Giancarlo Leone, il direttore di Rai1, all’inizio della prima conferenza stampa sul festival 2015 ha persino lamentato la mancanza della “polemica politica”, anche in chiave comica.
Allora dobbiamo prendere le mosse dalla famigerata questione dell’emergenza Berlusconi, che ha finito con il monopolizzare la satira in Italia, al punto tale che la satira è stata scambiata come la battuta sui politici. Mentre quella è solo una delle possibili possibilità – passami l’espressione – della satira e nemmeno la più stimolante.

Io vorrei persino che la satira trascurasse quello che sta succedendo in parlamento. Certo una battuta ci può stare ma la satira oggi in Italia deve scoprire il mondo che c’è oltre la stretta parlamentare. Pensa al razzismo ammorbante… E invece siamo fermi a questa moda recente, alimentata da Berlusconi, che ora mostra proprio la corda. Al di là di tutte le altre considerazioni, non c’è più quello scenario. La satira, si è sempre detto, va contro il Potere. Ma la mia personale opinione è che neppure la politica abbia più potere. Se vuoi fare satira devi andare oltre: i temi importanti, le vere controversie, i veri gangli sono altrove. Spesso e volentieri ce li abbiamo addosso, sono le nostre contraddizioni.

Per collegare un po’ di cose di cui abbiamo parlato: mi aveva colpito il blocco di Maurizio Crozza sul palco dell’Ariston, nel 2013, di fronte a una parte del pubblico che rumoreggiava un poco per la sua parodia di Berlusconi.
Ho capito cosa vuoi dire. Uno stand-up comedian mediocre, uno con molto meno talento di Crozza, se li sarebbe mangiati quei quattro heckler [termine inglese che indica i “disturbatori” del pubblico negli spettacoli di stand-up]. Credo che Crozza abbia avuto quel blocco perché fondamentalmente non è un comico di palco. Conta il tipo di esperienza. Nei teatri, nei teatri che Crozza riempie, la gente paga e ti ha scelto, non fischia. Negli Stati Uniti e in Inghilterra tutti si formano nei comedy club e lì ti trovi l’ubriacone rumoroso e magari litigioso che non è venuto per vedere te. Devi imparare a confrontarti con quelle persone. Inoltre, negli ultimi anni Crozza si è quasi completamente esaurito nell’esperienza televisiva e pure il suo teatro è un prolungamento delle sue trasmissioni. E quindi, lì dal vivo, con un pubblico in parte ostile, si è ritrovato in una situazione che non era preparato a gestire. Poi certo siamo umani e la pressione di quel palco la sentiremmo tutti.

Anche Saverio Raimondo sente la pressione. Si scusa perché ha un collegamento in diretta con Radio 2, “giusto cinque minuti”, cerca un angolo meno rumoroso e parla veloce con la sua voce robusta. Intanto arrivano i suoi collaboratori e si è fatta ora di andare verso l’Ariston. Facciamo via Matteotti insieme, mentre si studiano possibili spunti per la trasmissione. “Come mai gli artisti di strada a Sanremo fanno pena?”, e per smentirci ecco un chitarrista acustico molto bravo. Ci fermiamo un attimo stupiti, ma non c’è il tempo per stare ad ascoltarlo.

Saverio è ormai davanti all’Ariston, e ha davanti giusto 14 ore di lavoro - tra interviste, scrittura del materiale, pezzi da registrare e caffè - prima di andare in onda. In onda, sul web.

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