09 luglio 2014 10:51

Conviene diffidare delle mode. È quanto invita a fare il [Corriere Cultura][1] a proposito del termine empatia: viviamo nel mezzo di una “smania empatica”, per usare l’espressione di Steven Pinker, docente ad Harvard.

Per esempio, la frequenza della ricerca per la parola empatia su Google è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni. Sono andata a vedere (bastano un paio di clic su GoogleTrends).

In effetti è vero, sia nel mondo anglofono (empathy), sia per italiani, spagnoli, polacchi (empatia). Sorte analoga, ma su livelli più bassi e solo nel mondo anglofono, per un’altra parola emergente: resilienza. I cinque paesi dove più si è cercato empathy sono, nell’ordine, Ghana, Giamaica, Filippine, Nigeria e Stati Uniti. Resilience invece va forte in Kenya, a Singapore, in Australia, in Nuova Zelanda e a Hong Kong.

Il Corriere prosegue affermando che oggi un alto quoziente d’intelligenza – il vero mito del secolo scorso – non basta più a districarsi nelle complessità della vita, e che le nuove generazioni, piegate dalla crisi, cercano prospettive che vadano oltre il successo e il possesso: l’empatia, appunto.

Il rischio, conclude il Corriere citando, tra gli altri, [un brillante articolo uscito su The Atlantic][2], è che la moda empatica si affermi nella sua versione ingenua e buonista, il sentimentalismo, e infine collassi su se stessa schiacciata dal peso dell’attenzione dovuta a ogni più delicata sensibilità individuale: se il “politicamente corretto” degli anni passati intendeva infatti rispettare i sentimenti collettivi delle minoranze, l‘“empaticamente corretto” si pone l’obiettivo impossibile di proteggere ciascun individuo da ogni possibile fonte di turbamento.

In questa prospettiva, è confortante che cresca anche l’attenzione nei confronti del concetto di resilienza. Dopotutto, potrebbe essere quella la chiave per ridurre le ormai troppe aree sensibili da cui sembrerebbe empaticamente obbligatorio stare alla larga.

Tuttavia.

È [Giulio Giorello][3] a sottolineare che il sentimento morale dell’empatia è in realtà antichissimo, universale, e che lo condividiamo con numerose specie animali, coccodrilli compresi. Forse, semplicemente, abbiamo trovato una parola nuova e più suggestiva per definire ciò che si è sempre chiamato “compassione”: quel tipo di affetto che connette l’interiorità dell’uomo alla realtà esterna, la sua coscienza alle vicende altrui, appunto attraverso la cognizione del dolore.

E la rivista Le Scienze segnala i risultati di una ricerca che prova a collegare [culture, stili di pensiero e tradizioni agricole][4] delle singole comunità: succede che nelle regioni del nord della Cina, dove si coltiva il grano, le persone siano più individualiste e orientate al pensiero analitico. A sud si coltiva il riso, che chiede non solo più lavoro ma anche più cooperazione per la manutenzione di una complessa infrastruttura di dighe, terrazze e canali. Risultato: le persone sono più cooperative, solidali e orientate al pensiero olistico.

Mi sto chiedendo se le recenti fortune dell’empatia non possano derivare anche dal fatto che ormai [quasi tre miliardi][5] di persone si incontrano, lavorano e [hanno occasione di cooperare][6] su quella complessa infrastruttura che è il web: una risaia, erbacce, zanzare e sanguisughe comprese, grande come il mondo.

Per esempio, in una terrazza ci sono [giovani brasiliani][7] che imparano l’inglese chiacchierando con americani anziani soli: uno scambio che arricchisce entrambi. In un’altra, gli innumerevoli redattori occupati a scrivere e a rivedere oltre 24 milioni di voci, in 250 lingue, pubblicate su Wikipedia, per la quale siamo tutti grati. In un’altra ancora, [sconosciuti che collaborano][8] per catalogare comete, tenere sotto controllo il cambiamento climatico, decifrare i canti delle balene o dare una mano alla ricerca sul cancro.

Certo: non è tutto così idilliaco. Anche per questo conviene che l’idea di empatia si rafforzi, fino a comprendere la possibilità di sviluppare (empaticamente) discussione e pensiero critico. Per quanto mi riguarda, però, sono contenta che si parli di empatia (dopotutto, esistono mode assai peggiori) e che siamo tutti qui, con i piedi a mollo nella stessa risaia. Tra l’altro, frugando qua e là, ho ritrovato questo video delizioso.

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