26 gennaio 2015 12:08

Il sindaco della città di Providence, nel New England, il 3 febbraio 2014 lancia un’iniziativa davvero curiosa: si chiama Providence Talks. Ha l’obiettivo di colmare un divario sociale attraverso… le parole. E potrebbe perfino funzionare.

Tutto comincia negli anni ottanta, quando due psicologi dell’infanzia dell’università del Kansas, Betty Hart e Todd Risley, provano a confrontare il modo in cui i genitori delle diverse classi sociali parlano ai propri figli. Reclutano quarantadue famiglie con figli tra i 7 e i 13 mesi: tredici sono famiglie di professionisti, dieci sono di classe media, tredici sono famiglie operaie, sei sono così povere da godere dell’assistenza sociale.

Per i due anni e mezzo successivi, gli psicologi visitano le case una volta al mese e registrano un’ora di quel che si dice. Alla fine, dispongono di oltre 1.300 ore di conversazione casuale. Scoprono che sì, tutte le famiglie accudiscono bene i propri figli, ma che i genitori più abbienti gli parlano molto di più. Scoprono inoltre che tra l’86 per cento e il 98 per cento del vocabolario di cui i bimbi dispongono all’età di tre anni deriva dal lessico familiare (qui una sintesi dello studio). Perché le madri più disagiate non parlano con i figli? Certo: sono stanche e oberate ma, soprattutto, nessuno gli ha mai detto quanto è importante.

Hart e Risley calcolano che, entro i quattro anni d’età, un bambino povero possa aver sentito trenta milioni di parole in meno di un bambino abbiente della stessa età.

E non solo: il linguaggio delle famiglie abbienti è più ricco di aggettivi e verbi al passato, comprende più conversazioni su argomenti proposti dai bambini (compresi i loro infernali “perché?”) ed è ricco di parole di incoraggiamento. Gran parte dei discorsi delle classi più povere, invece, ha carattere disciplinare (non fare questo!).

Il deficit linguistico passa di generazione in generazione e sembra segnare l’inizio di un divario tra figli di famiglie abbienti e figli di famiglie povere che poi si allarga negli anni, e che negli Stati Uniti, quando i ragazzi vanno alle scuole superiori, diventa una voragine. Per colmare la quale sono stati varati, senza troppo successo, molti programmi governativi.

Siamo nel 2012. Il sindaco di Providence, Angel Taveras, sente parlare di un concorso tra città per rendere migliore la vita urbana. Il premio è offerto da Bloomberg, ex sindaco di NewYork, a partire dalla convinzione che le città siano i nuovi laboratori della democrazia. Ci sono cinque milioni di dollari in palio.

Taveras ha letto lo studio di Hart e Risley e governa una città dove il disagio economico è diffuso. Gli viene un’idea praticabile per concorrere al bando: trovare un modo per incoraggiare i genitori della classi disagiate, specie le madri, a parlare di più ai propri figli piccolini. Lo faranno in mammese (motherese): voce di un tono più alto, parole scandite, frasi semplici.

Nel 2013 Taveras vince effettivamente il Bloomberg philanthropies’ mayors challenge, battendo 300 altre città. Ne danno notizia, fra gli altri, il New York Times con un lungo articolo e il Boston Globe. Il progetto parte all’inizio del 2014. Ecco come funziona: i piccoli vengono muniti di un minuscolo strumento (Lena: Language environment analysis), che registra e riconosce parole e turni di conversazione. Gli assistenti sociali misurano i risultati e ne discutono con i genitori. Li incoraggiano a parlare, a spegnere la tv e a leggere libri ai piccoli. Ma, dicono, “perfino se non sai leggere un libro puoi avere una conversazione”. Qui un video del 2014 che mostra bene come funziona il progetto.

Nel 2015 la storia viene ripresa dal New Yorker (che scrive: “Il motherese è dinamite per lo sviluppo del linguaggio”) e, qualche giorno dopo, da la Repubblica. Il progetto sta andando avanti e coinvolge un numero crescente di famiglie (dovrebbero essere duemila nel 2016, dice il sito della città di Providence). Alcuni hanno sollevato obiezioni definendolo “paternalistico”, o giudicandolo uno strumento di omologazione ai comportamenti e al linguaggio della classe media, o ritenendone intrusiva la modalità: dopotutto si tratta di registrare conversazioni molto intime tra genitori e figli.

Ma, in realtà, sembra che il fatto di poter guardare insieme dati oggettivi rassicuri le famiglie aiutandole ad avere una percezione più chiara dei progressi e consenta agli assistenti sociali di non trovarsi in una scomoda posizione giudicante. I risultati al livello cognitivo, ovviamente, si vedranno quando tutti i piccoletti cominceranno ad andare a scuola. Per ora gli assistenti sociali stanno verificando un significativo aumento delle conversazioni.

In ogni caso, l’idea è interessante per diversi motivi: parte dal presupposto che il possesso del linguaggio sia un fattore determinante per lo sviluppo cognitivo. È un intervento precoce. Integra una tecnologia semplice con il fattore umano. Punta sulle famiglie (e sulle madri) sostenendole invece di colpevolizzarle. Ha un approccio empirico, e si propone di ottenere grandi cambiamenti attraverso piccoli miglioramenti quotidiani.

Ci basta aspettare qualche anno, e vedremo se tutto questo funziona davvero. Intanto, se avete figli, nipoti, cugini o fratelli piccoli, nulla vieta che cominciate a chiacchierarci un po’ di più.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it