07 dicembre 2015 13:08

Se cominciare un lavoro creativo riesce difficile – ne parlavamo la scorsa settimana – smettere è la seconda cosa più difficile da fare. Ed è doppiamente difficile.

In primo luogo, può risultare quasi doloroso interrompersi se ci si trova finalmente nel pieno del flusso (flow): è la condizione di grazia in cui si è totalmente immersi in ciò che si sta facendo e azione e pensiero procedono veloci e sincronizzati.

Ecco le altre caratteristiche del flow, così come Nakamura e Csíkszentmihályi le elencano in un citatissimo articolo intitolato The concept of flow: estrema focalizzazione sul momento presente e perdita del senso del tempo, che sembra scorrere più in fretta del normale. Assoluta identificazione con quanto si sta facendo, fino a scordarsi di se stessi. Senso di gratificazione, di controllo e di pienezza. E chi mai ha voglia di abbandonare una condizione tanto appagante?

In secondo luogo, è difficile concludere un lavoro considerandolo finito: c’è sempre quella virgola da aggiungere o da togliere, quel tratto da modificare, quella piega che non cade come dovrebbe, quella nota, quel tono, quel dettaglio che potrebbe essere migliorato.

Ma non appena si è ripreso in mano il lavoro che in teoria sarebbe già concluso per aggiustare quell’ultimo particolare, ecco che tutti i sottili equilibri interni di quanto si è fatto risultano modificati, e dunque vien fuori un ulteriore dettaglio da sistemare, e poi ce n’è un altro, e un altro ancora.

La sindrome è ben nota a chiunque faccia un lavoro creativo, ed è ugualmente nota a chi gestisce gruppi creativi: il difficile non è far lavorare le persone, ma farle smettere perché il lavoro, a un certo punto, va consegnato.

Bene. Qui di seguito trovate alcuni accorgimenti utili a riprendere un lavoro creativo interrotto a causa di un qualsiasi fattore esterno, oppure a concludere davvero un lavoro creativo senza troppi traumi, e al meglio.

Tenete traccia. È lo psicologo Wolfgang Köhler, uno dei fondatori della teoria della Gestalt, a raccontarlo: il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge prende un paio di grani d’oppio (sì, ai tempi era considerato un farmaco) per contrastare una fastidiosa dissenteria, si assopisce e nel dormiveglia compone a mente alcune centinaia di versi.

Dopo essersi risvegliato comincia a scriverli, ma viene interrotto da un seccatore. Quando riprende, si accorge di essersi dimenticato tutto quanto. Il poema viene pubblicato incompiuto, quasi vent’anni dopo. Le intuizioni sono volatili: prendete appunti. Segnatevi parole-chiave. Spedite a voi stessi un’email. Anche un appunto vocale lasciato sul telefonino può funzionare.

Mentre state lavorando, non buttate via nulla di quanto avete immaginato, anche se al momento vi sembra poco rilevante. Se scrivete e state apportando una grossa variazione a un testo, conservatevi anche l’edizione precedente: magari dentro c’è un singolo elemento che può tornar buono.

Se proprio dovete interrompervi, per esempio per mangiare qualcosa, fatelo dopo aver lasciato qualche traccia del passo successivo: ora ce l’avete in testa, ma non è detto che vi sarà restato in mente tra un’ora.

Considerate la revisione come parte del lavoro. Non è vero che, quando siete arrivati alla fine, il lavoro possa essere considerato davvero “finito”. Anzi: non è quasi mai così. È normale che, ora che avete una visione d’insieme, vi venga voglia di aggiustare una serie di piccoli dettagli che in corso d’opera avevate trascurato.

Dunque, anche quando programmate i tempi, considerate la revisione come parte integrante e necessaria del lavoro. Qui c’è un articolo che può darvi alcuni criteri per fare una buona revisione, in tempi ragionevoli. Rivedere tutto quanto, fra l’altro, vi aiuta anche ad abbandonare con maggiore serenità ciò che avete fatto e a consegnarlo al suo destino.

Siate perfezionisti, non troppo. Esiste un perfezionismo disadattativo (maladaptative) che può impedire di concludere, e alcune volte addirittura di cominciare un lavoro creativo: ne parlo in quest’altro articolo, completo di test per capire se siete “troppo” perfezionisti.

Il perfezionismo disadattativo è fatto di ansia, narcisismo, attese irrealistiche. Lo scrittore David Foster Wallace lo conosce bene, ne soffre, e arriva ad affermare “se la tua fedeltà al perfezionismo è alta, non farai mai nulla”.

Poiché, credo, nessuno di noi è David Foster Wallace, possiamo darci mete più realistiche: corteggiare il flow, non perdere le nostre intuizioni, fare revisioni severe e oneste e proporci di realizzare nel miglior modo possibile quanto di meglio siamo in grado di fare. E già questa è una bella sfida.

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