28 novembre 2016 12:43

Il sito si chiama Roars, Return on academic ReSearch. Discute di università, istruzione, ricerca e delle politiche connesse. Ospita anche una sezione di scritti in lingua inglese. Eppure proprio Roars pubblica un breve articolo intitolato “Talis, Byod, Iea Pirls! Ed ecco a voi, Siore e Siori, la neolingua del Miur”, che se la prende con i termini astrusi e “l’anglo-pedagoghese” impiegato nel recente Piano per la formazione dei docenti.

Pesco tre esempi dalla lista pubblicata al termine dell’articolo.

Primo esempio: la flipped classroom. Non si tratta, come si potrebbe immaginare, di un’aula piena di studenti flippati, ma della classe ribaltata, o capovolta, di cui parla Tullio De Mauro. È un’idea che scardina la tradizionale sequenza didattica costituita da ascolto passivo della lezione, studio individuale a casa e interrogazione. Con il nuovo metodo, invece, in classe si lavora in gruppo, si risolvono problemi, si sperimenta e si esercita il pensiero critico. Di tutto ciò parla anche una vivace pagina Facebook, intitolata (appunto) Classe capovolta. È una rivoluzione che potrebbe cambiare molte cose, e che è già in atto in diverse scuole. Ma nel documento ministeriale è citata solo di sfuggita (pagina 30), e in coda a un elenco eterogeneo di altri termini anglo-pedagoghesi: project-based learning, cooperative learning, peer teaching e peer tutoring, mentoring, learning by doing.

Ed eccoci al secondo esempio: il learning by doing. È l’imparare facendo, delineato già agli inizi del novecento da Maria Montessori. All’estero se ne ricordano ma noi, sembra, ce ne siamo dimenticati, tanto da dover prendere a prestito il modo di dire inglese come se si trattasse di un’idea del tutto nuova per la scuola, ed esotica.

Tra l’altro: negli Stati Uniti ci sono 4.500 scuole Montessori, in Germania ce ne sono 1.140 e nel Regno Unito ce ne sono 800. In Italia sono solo 137. Imparare facendo, a scuola, sarebbe meraviglioso. Ed è possibile. Nel piano, però, il termine è usato in un’accezione diversa, disloca la dimensione del “fare” fuori delle aule e indica l’alternanza scuola-lavoro.

Esistono vari equivalenti in italiano che eviterebbero di accentuare l’immagine aziendalistica dell’università oggi imperante

Il terzo esempio riguarda i docenti. Si tratta del job shadowing. Per fortuna, in questi tempi di lavori sempre più evanescenti, non è “l’ombra di un lavoro”, o un lavorare nell’ombra. Nel caso specifico degli insegnanti, consisterebbe nell’andare nella scuola di un paese straniero per un paio di settimane: si affiancano i colleghi che insegnano lì, ci si scambiano esperienze, gli orizzonti si allargano.

Nel piano, però, si parla in generale di “stage, visite di studio, permanenze all’estero al fine di affinare le competenze linguistiche e interculturali”. Il termine, che forse avrebbe senso se riferito a ciò che precisamente indica, diventa puramente decorativo.

Nella lista pubblicata da Roars ci sono anche il mentoring, il coaching e il counselling. E poi: expertise e soft skills. Ci sono non solo il peer teaching e il peer tutoring, ma anche la peer review e la peer observation. I workshop e i panel. E un preoccupante fall out, che per fortuna non è radioattivo perché riguarda le azioni di tirocinio e le loro ricadute.

Poiché a pensar male si fa peccato, ma ogni tanto ci si azzecca, viene il sospetto che alla base della scelta linguistica di tradurre pratiche didattiche interessanti, sensate e potenzialmente efficaci in formule che l’anglo-pedagoghese rende astruse ed esoteriche ci sia uno stravagante e non so quanto consapevole presupposto: che l’uso dell’inglese sia la condizione necessaria e sufficiente per rendere automaticamente qualsiasi proposta più moderna, attraente, realizzabile e operativa.

Peer review (in italiano: la revisione tra pari) appare anche nell’elenco dei Termini aziendali inglesi nell’università stilato di recente dal gruppo Incipit dell’Accademia della Crusca. Il quale pazientemente ricorda che un learning tool non è altro che uno strumento di apprendimento, che un debriefing è un resoconto, che abstract è una sintesi o un sommario, che un feedback è un riscontro e che una deadline è una scadenza.

Già che c’è, il gruppo Incipit segnala l’esistenza di vari equivalenti italiani perfettamente adeguati, i quali eviterebbero di accentuare quell’immagine aziendalistica dell’università che sembra oggi imperante. E invita a riflettere sul rischio che questa fitta terminologia aziendale anglicizzante sia applicata in maniera forzosa e sia esibita per trasmettere un’immagine pretestuosamente moderna dell’istituzione universitaria.

Parole al vento.

Valeria della Valle mi consegna l’elenco dei termini inglesi impiegati nel corso del recente convegno “I Lincei per una nuova didattica della scuola”, all’interno del singolo intervento di una dirigente del Miur davanti a una perplessa platea, comprendente molti insegnanti delle medie superiori.

Eccoli: policy, shop and go, feedback, portfolio, soft skills, target, accountability, Erasmus plus (pronunciato plàs), input, top down, bottom up, workshop, best practice, education, legacy, future, community, governance, top performance (pronunciato, al solito, pérformans), customer satisfaction.

Per carità: ci sono temi più importanti. O più urgenti. O più preoccupanti.

E ancora: proprio mentre stavo scrivendo questo articolo ho ricevuto (cito testualmente) una call d’invito a una talk, cioè una telefonata per una conferenza, e dopo un istante di perplessità ho risposto senza fare una piega.

E ancora: so perfettamente che, se parlo con un gruppo di colleghi e sostituisco il termine target con “acquirenti potenziali”, vengo guardata come se fossi un’aliena. Però, e anche a rischio di apparire aliena, evito di dire che lo store management del retail deve implementare i tools per la customer satisfaction.

E comunque gli studenti non sono esattamente customer. E, santa polenta, i docenti non sono managers del retail dell’education.

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