01 ottobre 2014 15:20

Durante una delle sue “conversazioni infinite”, Hans-Ulrich Obrist mi chiede qual è una questione urgente da porre e alla quale artisti e movimenti politici dovrebbero rispondere insieme.

Io dico: “Come convivere con gli animali? Come convivere con i morti?”. Qualcun altro chiede: “E l’umanesimo? E il femminismo?”.

Signore, signori e tutti gli altri, diciamolo una volta per tutte: il femminismo non è umanista. Il femminismo è animalista. In altre parole, l’animalismo è un femminismo dilatato e non antropocentrico.

Le prime macchine della rivoluzione industriale non sono state la macchina a vapore, la stampa o la ghigliottina, ma il lavoratore schiavo della piantagione, la lavoratrice sessuale e riproduttiva e l’animale. Le prime macchine della rivoluzione industriale sono state delle macchine viventi.

E così l’umanesimo inventò un altro corpo, chiamandolo umano: un corpo sovrano, bianco, eterosessuale, sano, spermatico. Un corpo stratificato e pieno di organi, pieno di capitale, i cui gesti sono cronometrati e i cui desideri sono gli effetti di tecnologie del piacere che sottomettono la vita alla morte (necropolitica).

Libertà, uguaglianza, fraternità. L’animalismo svela le radici coloniali e patriarcali dei princìpi universali dell’umanesimo europeo. Il regime della schiavitù e poi del lavoro salariato appare come fondamento della libertà degli “uomini” moderni. L’espropriazione e la segmentazione della vita e della conoscenza si presentano come il rovescio dell’uguaglianza; la guerra, la concorrenza e la rivalità come operatrici di fratellanza.

Il rinascimento europeo, l’illuminismo e il miracolo della rivoluzione industriale si basano quindi sulla riduzione degli schiavi e delle donne allo status di animale e sulla riduzione dei tre (schiavi, donne e animali) a quello di macchina (ri)produttrice. Se un giorno l’animale fosse concepito e trattato come macchina, la macchina diventerebbe progressivamente un tecnoanimale vivente insieme ad altri animali tecnoviventi. La macchina e l’animale (migranti, corpi farmacopornografici, figli della pecora Dolly, cervelli elettrodigitali) si costituiscono come nuovi soggetti politici del futuro animalismo. La macchina e l’animale sono i nostri omonimi quantici.

E dato che l’intera modernità umanista non ha fatto che contribuire alla proliferazione delle tecnologie di morte, l’animalismo dovrebbe cercare un nuovo modo di convivere con i morti, con la Terra come cadavere e come fantasma. Trasformare la necropolitica in necroestetica.

In questo contesto l’animalismo diventa una festa funebre, una celebrazione del lutto. L’animalismo diventa rito funerario, nascita. Un’assemblea solenne delle piante e dei fiori intorno alle vittime della storia dell’umanesimo. L’animalismo è una separazione e un abbraccio. L’indigenismo queer, la pansessualità planetaria che trascende le specie e i sessi, e il tecnosciamanesimo, sistema di comunicazione tra le specie, sono tutti dispositivi di lutto.

L’animalismo non è un naturalismo, ma un sistema rituale totale. Una controtecnologia di produzione di coscienza, la conversione a una forma di vita senza alcuna sovranità. Senza alcuna gerarchia.

L’animalismo istituisce il suo proprio diritto, la sua propria economia. L’animalismo non è un moralismo contrattuale, rifiuta l’estetica del capitalismo e la subordinazione del desiderio al consumo (di beni, di idee, di informazioni, di corpi). Non si basa né sullo scambio né sull’interesse individuale.

L’animalismo non è la rivincita di un clan su un altro clan. L’animalismo non è un eterosessualismo né un omosessualismo né un transessualismo. L’animalismo non è né moderno né postmoderno. L’animalismo non è un hollandismo né un sarkozysmo né una versione femminile del lepenismo. L’animalismo non è un patriottismo. Non è un matriarcato. Non è un nazionalismo. Né europeismo.

L’animalismo non è né un capitalismo né un comunismo. L’economia dell’animalismo è una prestazione totale di tipo non competitivo. Una cooperazione fotosintetica. Un piacere molecolare. L’animalismo è il vento che soffia. È il modo attraverso il quale lo spirito della foresta degli atomi ha ancora un potere sui ladri. Gli esseri umani, incarnazioni mascherate della foresta, dovranno togliersi la maschera umana e riprendere di nuovo quella del sapere delle api.

Il cambiamento necessario è talmente profondo che si dice sia impossibile, talmente profondo che si dice sia inimmaginabile. Ma l’impossibile arriverà e l’inimmaginabile è inevitabile. Del resto cosa era più impossibile e più inimmaginabile, la schiavitù o la fine della schiavitù? Il tempo dell’animalismo è quello dell’impossibile e dell’inimmaginabile. Questo è il nostro tempo: l’unico che ci rimane.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it