23 novembre 2015 17:35

Lascio Atene per Beirut giovedì 12 novembre. Le dita del Peloponneso si distendono e sembrano toccare la costa del Libano. Un volo di meno di un’ora mi fa prendere coscienza di quanto il limite dell’Europa sia vicino alla striscia di Gaza.

La Siria è lì, appena oltre la catena montuosa dell’Antilibano. Se l’acqua, invece del mare, rappresentasse l’unità geografica, il Mediterraneo sarebbe un nuovo territorio liquido capace di sciogliere le frontiere politiche e linguistiche dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. Un “mare bianco” come lo chiamano i turchi – per contrasto con il “mar nero” e il “mar rosso” – che collega Alessandria, Tripoli, Orano, Marsiglia, Fiume, Lesbo, Palermo, Atene, Beirut. Quel che è stato rappresentato come lontano diventa vicino.

Sono diretto a Beirut per assistere all’inaugurazione di Home Works 7, un incontro di dieci giorni dedicato alle pratiche culturali e organizzato dal Beirut art center e da Ashkal Alwar. Qui si ritrovano artisti, attivisti e critici di tutta le regione. Le ricognizioni che svolgo in vista dell’organizzazione del festival Documenta 14, che si svolgerà nel 2017, mi hanno portato ultimamente a frequentare un certo numero di biennali e incontri artistici in tutto il mondo. E posso affermare che nessuno di questi eventi mi è parso così profondamente creativo e rigorosamente organizzato come Home Works.

Nel bel mezzo di due sentieri che, a causa della guerra, non si sono trasformati in strade o cantieri destinati alla speculazione immobiliare, si trovano due edifici. Sul tetto di uno dei due, Marwan Rechmaoui ha cucito un’enorme tela composta dalle bandiere dei diversi quartieri di Beirut, ricordando così che, prima delle divisioni politiche e religiose, i quartieri portavano nomi di fiori, animali o piante.

Oggi non resta che la certezza di aver perso tutto, tutto tranne la tristezza

Salendo su questo tetto si possono osservare le montagne di spazzatura accumulate dietro a qualsiasi autostrada e che marciscono su un terreno tanto dolce quanto implacabile. Ogni tanto un odore nauseabondo rende l’aria irrespirabile. Gli attivisti mi spiegano che stanno preparando una campagna per criticare la corruzione del governo e i suoi legami con le mafie locali, dal titolo “Tu puzzi”. L’odore d’immondizia (intenso, diffuso, incontrollabile, corporeo) agisce come l’arte: rende percepibile ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto.

Intorno alla mostra s’incontrano ogni giorno più di trecento persone durante seminari, conferenze, laboratori o performance. Rasha Salti, Joana Hadjithomas, Khalil Joreige, Walid Raad, Natascha Sadr Haghighian, Bassam el Baroni, Lawrence Abu Hamdan, Ahmed Badry, Walid Sadek, Christine Tohme, Marwan Hamdan, Akram Zaatari, Ahmad Ghossein, Leen Hashem, Haytham el Wardany, Ayman Nahle, Arjuna Neuman, Rabih Mroué, Manal Khader, Lina Majdalanie, Marwa Arsanios, Bouchra Ouizguen, Nahla Chahal, Marwa Arsanios. Il rinascimento artistico del Medio Oriente. La massa critica generata da uno solo di questi incontri farebbe sembrare una qualsiasi mostra newyorchese un ballo delle debuttanti.

Un’organizzazione capitalista d’ispirazione occidentale

Durante il vernissage arriva la notizia dell’esplosione di due bombe a Burj al Barjneh, un quartiere sciita della periferia sud di Beirut. Il gruppo Stato islamico ha colpito un quartiere noto per i suoi legami con Hezbollah. In questo caso non si tratta di un concerto rock, ma dell’uscita da una moschea. Si parla di almeno quaranta morti e di un centinaio di feriti.

Gli artisti presenti ricordano che erano almeno due anni che a Beirut non accadeva niente di simile. Sui loro volti si legge il dispiacere, non la paura. Ma l’inaugurazione non viene interrotta. La musica e gli abbracci creano un rifugio nel quale è possibile continuare a vivere. Joana Hadjithomas mi racconta che la notizia di una bomba ha, su di loro, un impatto fisico. “Esplode in città ed è come se esplodesse nel tuo corpo, è un luogo della tua memoria che esplode”. Rasha Salti dice che, dopo aver creduto che le cose potessero cambiare, oggi non resta che la certezza di aver perso tutto, tutto tranne la tristezza, “una tristezza che è diventata la nostra pelle”.

È la politica che trasforma il petrolio in sangue

Mentre ceniamo, il venerdì, in un ristorante del quartiere cristiano, ci arrivano le notizie di Parigi. Molti di noi, arabi ed europei, hanno dei familiari o degli amici a Parigi. Conosciamo e amiamo quelle strade, e perfino il Bataclan. Che suono ha una bomba che esplode a Beirut, a Parigi? Che rumore fanno i proiettili sparati su Parigi, a Beirut? Qui nessuno parla di religione, ma di petrolio.

I jihadisti dello Stato islamico (Is), dicono, non hanno niente a che vedere con l’islam, è un’organizzazione globale, capitalista, d’ispirazione occidentale. I suoi riferimenti possono anche essere coranici, ma i suoi modelli d’azione sono hollywoodiani: non sanno neanche leggere o parlare l’arabo, dicono le persone accanto a me. La vera battaglia ha a che vedere con Exxon Mobil, Chevron, Bp, Shell. Il punto fondamentale è il controllo dei giacimenti, dei territori di passaggio degli oleodotti, la sicurezza delle esportazioni. È la politica che trasforma il petrolio in sangue.

Rientro ad Atene. L’odore di Beirut mi ha seguito, e m’impedisce di mangiare. Ho le vertigini. Il mondo è alla rovescia. Quando arrivo nell’appartamento in cui vivo, sulla collina di Philoppapus, trovo un catalogo d’arte che mi ha lasciato Monika. È il catalogo di Ika Knežević, un’artista di Belgrado. Il titolo riprende un modo di dire serbocroato: “Hope is the greatest whore” (La speranza è la più grande puttana). Allora ho voglia che questa puttana trascorra la notte insieme a me. Voglio mettermi a letto con questa puttana. Voglio sedermi accanto a lei e lavarle i piedi. Perché questa puttana è tutto ciò che ci resta.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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