10 febbraio 2015 08:48

C’è un “prima” e un “dopo” nella storia del segreto bancario, dei paradisi fiscali e di quell’evasione fiscale a cui Le Monde e una sessantina di altre testate hanno dato grande risalto nella giornata di lunedì.

Prima del 2008 e della crisi di Wall street, diventata poi crisi del debito pubblico in Europa, la situazione era quella descritta dall’inchiesta internazionale. Un gran numero di persone, mediamente ricche o immensamente ricche, trasferivano il loro denaro con ogni mezzo possibile nei paradisi fiscali per sottrarsi alle imposte, protetti dal più assoluto riserbo.

Allo stesso tempo molte banche tra le più famose del mondo, non solo Hsbc e non solo quelle svizzere, avevano trasformato l’evasione fiscale in un’industria internazionale perfettamente rodata. Niente più valige piene di soldi nascoste sotto il sedile posteriore e niente più contrabbandieri professionisti incaricati dai più prudenti di effettuare il trasporto del contante. In una parola niente più frodi artigianali e largo ai circuiti bancari illustrati da eleganti faccendieri a chiunque fosse abbastanza ricco da cercare un modo per sfuggire al fisco.

Mentre le banche organizzavano e favorivano l’evasione fiscale i governi chiudevano un occhio, perché le loro casse non erano ancora vuote e perché non avevano troppa voglia di irritare i potenti e di utilizzare eccessive risorse per combattere un fenomeno di cui sottovalutavano la portata.

Poi però, con le crisi del 2008 e del 2009, arrivarono i problemi di bilancio. Bisognava trovare il denaro e non si potevano certo imporre sacrifici alla popolazione mentre i ricchi e gli imbroglioni sfuggivano a ogni regola. La caccia ai paradisi fiscali fu aperta da una legge americana che obbligava le banche straniere a segnalare i clienti americani al fisco degli Stati Uniti per non incorrere nelle ritorsioni di Washington. Poi cominciò a diffondersi lo scambio automatico di dati, che presto potrebbe far crollare il segreto bancario nei paradisi fiscali di una volta.

Questo non significa che non ci siano più irregolarità. Gli imbrogli ci sono e ci saranno sempre, ma è diventato talmente pericoloso realizzarli che molti evasori preferiscono autodenunciarsi per non rischiare di finire in prigione. E così gli stati assistono al ritorno dei capitali, aumentati dalle sanzioni e dal pagamento degli arretrati.

Presto il grande scandalo non sarà più la vecchia evasione fiscale, ma quella che chiamano “ottimizzazione fiscale”, un processo che permette alle multinazionali (spesso americane) di fissare la loro sede sociale in paesi a bassa pressione fiscale trasferendovi gli utili realizzati in stati dove le società sono adeguatamente tassate, il tutto senza infrangere alcuna norma.

L’evasione fiscale è solo un albero che nasconde una foresta, ma gli Stati Uniti e soprattutto l’Unione europea stanno finalmente attaccando (anche se con eccessiva lentezza) questa piaga insopportabile.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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