23 agosto 2016 18:36

L’album è vivo. Non è stato ancora soppiantato dalle playlist sempre più finemente personalizzate di Spotify o di Apple Music. “Albums, like black lives, matter”, aveva detto il povero Prince ai Grammy Awards del 2015. E in effetti gli album contano ancora. Si sono trasformati, si sono ibridati con altre forme d’arte, si sono adattati a un consumo diverso e hanno imparato a intrufolarsi negli interstizi di una soglia dell’attenzione che è sempre più bassa.

Radiohead, Beyoncé, Rihanna, Adele, Taylor Swift e Kanye West in modi diversi tra loro hanno reso l’uscita dei loro album un evento mediatico. Intorno a ciascuno di questi lavori è stata creata una narrazione che ha contribuito a farli percepire come qualcosa di unico, di imperdibile, di rivoluzionario. Beyoncé con il suo mashup tra il personale e il politico, i Radiohead con la loro promozione snob e idiosincratica, Kanye con il suo ego kitsch e smisurato e Adele con la forza bruta dei milioni di copie fisiche che sposta ogni volta che apre la bocca.

Intorno a ognuno di questi album si è incrostata una storia, una polemica, una strategia di marketing, una modalità di vendita che troppo spesso si è trasformata in un discorso a senso unico, un rumore bianco che ha fatto passare la musica in secondo piano.

L’uscita di Blonde (o blond) di Frank Ocean, il 20 agosto, rappresenta l’apice del frastagliato, caotico metadiscorso che ha accompagnato, come un ronzio di fondo, l’uscita dei più importanti album pop degli ultimi tempi.

Siamo sicuri che tutto questo elucubrare su come, quando, e con che modalità uscirà un disco faccia bene alla musica?

L’intricata vicenda promozionale del ritorno sulle scene di Frank Ocean è stata ben ricostruita da Gianni Sibilla su Rockol: tra date rimandate, cambi di titolo, ripensamenti, false piste sui social media, il successore dell’acclamato Channel orange ha rischiato di trasformarsi in un meme prima ancora di vedere la luce. Ormai siamo abituati ai blitz a sorpresa su determinate piattaforme, ma Ocean ha alzato l’asticella: l’unico modo per avere subito il suo album su supporto fisico era accaparrarsi una copia di una fanzine gratuita distribuita in appositi negozi temporanei sparsi tra Londra, Los Angeles, New York e Chicago. La rivista, ovviamente esaurita nel giro di poche ore, conteneva anche una copia dell’album, ora in vendita su eBay a prezzi stellari. Insomma, in un mondo di musica all you can eat, Frank Ocean ci fa sentire di nuovo il brivido della scarsità.

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Ma siamo sicuri che tutto questo elucubrare su come, quando, e con che modalità uscirà un disco faccia bene alla musica? Tutto questo teorizzare, concettualizzare, in certi casi politicizzare un prodotto pop allunga la sua vita una volta che è uscito ed è nelle cuffie della gente? A distanza di quattro mesi, cosa ne è di Lemonade di Beyoncé? Sì, c’è stato un tour faraonico, di lei si continua a parlare, ma il dubbio che la musica sia rimasta in qualche modo fagocitata dal metadiscorso che ne ha accompagnato la promozione è forte. Ogni nuova uscita di questi artisti promette una rivoluzione tecnologica, artistica e commerciale e noi, puntualmente, abbocchiamo e ci aspettiamo di essere abbagliati da un miracolo di innovazione.

Tra naturalezza e messa a fuoco

La nuova musica di Frank Ocean rischia più che mai di finire triturata da questo ingranaggio. Blonde è un album delicato, crepuscolare e pieno di dettagli che richiedono un ascolto più che mai attento e ripetuto. Non ci sono evidenti hit e le canzoni sembrano fluttuare su arrangiamenti trasparenti, quasi minimali. C’è un uso dello spazio e del vuoto interessantissimo in questa musica che è l’opposto dell’horror vacui di tante produzioni di oggi.

Nei momenti migliori, Solo, Pink + White, Seigfried (sic), sembra esserci un approccio quasi impressionistico alla musica soul, con piccole pennellate sparse che creano uno spazio sonoro ampio e arioso. In Blonde, Ocean si conferma un cantante originalissimo. Il suo stile scivola senza scossoni dal rap al canto soul più morbido. Il suo modo di cantare fa rivivere la sorpresa dei primi dischi di Mary J Blige, quando col suo stile ibrido tra rap e soul, si è guadagnata il titolo di “Queen of hip hop soul”. Non c’è manierismo, c’è la naturalezza dell’improvvisazione, prima, e la messa a fuoco molto cosciente di uno stile, poi.

Come tutti gli album pop di oggi, specialmente quelli afroamericani, anche Blonde è ossessionato dal tema dell’identità. Ma qui Ocean non si limita a raccontarsi narcisisticamente, ci invita a seguirlo in una ricerca di sé che è appena cominciata. Blonde, con tutti i suoi dubbi, la sua delicatezza, la sua incertezza, è lo ying dello yang ipersesessuato e iperpoliticizzato della Beyoncé di Lemonade.

È un peccato che un lavoro così delicato finisca schiacciato dall’inevitabile narrazione mediatica che gli si è condensata intorno. Blonde dimostra che gli album contano ancora. E contano ancora nonostante il modo in cui vengono promossi e raccontati per arrivare a noi.

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