22 novembre 2023 08:15

Nel film La la land di Damien Chazelle (2016) c’è una memorabile scena in piscina in cui i due protagonisti (Emma Stone e Ryan Gosling) s’incontrano durante una festa. Gosling suona la tastiera in un gruppo scalcinato che fa cover anni ottanta: lui è un musicista serio, un pianista jazz, e preferirebbe sprofondare invece di essere riconosciuto mentre suona Take on me degli a-ha con addosso un giubbotto di pelle rossa. Ovviamente Emma Stone lo provoca e chiede alla band un pezzo ancora più anni ottanta e più imbarazzante, ovvero I ran degli A Flock of Seagulls.

La scelta delle canzoni per questa scena di seduzione/imbarazzo è indicativa della percezione che gli statunitensi avevano e hanno del pop europeo degli anni ottanta. I norvegesi a-ha per loro sono stati una one hit wonder, un gruppetto da un successo e via, così come lo sono stati gli A Flock of Seagulls. Peccato che non sia così: all’insaputa del mercato americano, che non li ha mai davvero capiti, gli a-ha sono stati una band dall’attività lunghissima che ha avuto un’impressionante serie di successi e una innegabile influenza sul pop tra i tardi anni novanta e i primi duemila. È difficile immaginare cosa sarebbero stati i Coldplay o i Killers senza l’influsso del romanticismo melodico e debordante degli a-ha.

Take on me, nel 1985, fu per gli sconosciuti e periferici a-ha un successo immediato, tanto grande quanto imprevedibile. Accompagnata da un pionieristico video con i fumetti animati, si sentiva ovunque ed era una delle hit più suonate di un anno in cui le grandi hit non mancavano: We are the world, Material girl e Like a virgin di Madonna, Careless whisper di George Michael e Money for nothing dei Dire Straits erano rivali che i norvegesi a-ha avevano saputo affrontare a testa alta nelle classifiche.

Take on me aveva una qualità unica che veniva dalla sua scandinavità: un synth-pop scoppiettante e moderno al servizio di una melodia romantica e struggente, sottolineata dalla voce atletica ed elastica del cantante Morten Harket. Oltre alla voce Harket aveva un viso perfetto per i poster e gli adesivi delle riviste per adolescenti: mascella squadrata, zigomi disegnati e due occhi di ghiaccio su un viso angelico. Era efebico senza essere asessuato, fanciullesco ma non infantile, la sua voce era tanto acuta nei ritornelli quanto era grave e profonda nelle interviste: nel panorama pop di metà anni ottanta sembrava un principe uscito da una fiaba del nord.

Se i Duran Duran e gli Spandau Ballet, i gruppi pop britannici più in auge in quegli anni, venivano dal post punk e dal movimento new romantic, gli a-ha non si capiva da dove venissero e il loro album di debutto Hunting high and low, aveva qualcosa di esotico e misterioso, anche nella barocca e ambiziosa costruzione di alcune canzoni, una fra tutte The sun always shines on tv. Gli a-ha erano carini, indubbiamente, ma avevano anche qualcosa di dolente: un lato oscuro che decidono di svelare, con una mossa commercialmente avventata, nel loro secondo album, Scoundrel days che letteralmente significa “giorni delinquenti”, con una parola desueta che sembra uscita da un romanzo di Dickens.

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“Was that somebody screaming?”, qualcuno ha gridato? Queste sono le parole che aprono il disco. La prima canzone, quella che dà il titolo all’album, è pop gotico e drammatico. Quell’arpeggio minaccioso di synth su cui Harket scandisce la sua intro ricorda più i Depeche Mode di Black celebration che i Duran Duran, e quando il pezzo si spalanca su un ritornello pieno di lampi e di tuoni gli a-ha tornano a suonare familiari, ma sembrano emergere da un’oscurità di cui non li credevamo capaci. Gli archi che entrano a metà pezzo non fanno che rendere tutto più drammatico e incalzante. The swing of things è uno dei pezzi migliori dell’album: un’apertura ancora vagamente in stile Depeche Mode fa spazio a un beat che si spezza solo per aprirsi in uno di quei ritornelli memorabili che sicuramente i Coldplay hanno ascoltato con attenzione. La produzione ricchissima e stratificata di questo disco è evidente: The swing of things parte come un pezzo synth pop e finisce come un ambizioso pezzone rock.

Una canzone sicura di sé
I’ve been losing you è il primo singolo con cui l’etichetta discografica decide di lanciare questa nuova direzione degli a-ha. E non è un pezzo immediato come Take on me. Eppure ha, soprattutto nel ritornello, un respiro epico e vagamente duraniano. L’uso di una batteria vera al posto delle drum machine gli dà una muscolarità inattesa. I’ve been losing you è un pezzo coraggioso e sicuro di sé anche nella scelta del video, che vede semplicemente la band suonare sul palco senza effetti speciali o cartoni animati.

October è un totale cambio di marcia: una canzone pop morbida e malinconica, più Everything but the Girl che Depeche Mode o Duran Duran. Morten la canta con abbandono arrivando anche a fischiettare sul finale. Ma October serve solo come introduzione a Manhattan skyline, altro pezzo ambizioso e stratificato con idee melodiche che a un gruppo normale avrebbero fruttato almeno tre singoli di successo. Gli a-ha sono maestri nell’arte di costruire canzoni pop complesse che sembrano cominciare in un modo ma poi con uno spintone ti portano altrove. Era interessante anche il video, che li vede tornare sulle pagine di un giornale: però non più di un fumetto romantico come nella vecchia Take on me ma prima come un disegno da scoprire unendo i puntini e poi come foto sgranate di un tabloid pieno di strilli e di titoloni.

Quando si gira l’album, il primo pezzo della seconda facciata è Cry wolf, la definitiva prova che gli a-ha sono ancora assolutamente in grado di scrivere hit. Il pezzo è irresistibile e ha qualcosa del funk bianco e intellettuale dei Talking Heads: il ritornello con quel refrain “wooo-ho” in acuto è indimenticabile e quei tastieroni anni ottanta hanno ancora il loro ingombrante fascino.

Se We are looking for the whales è la più canzone pop più scontata dell’album (anche se il testo è abbastanza astratto e bizzarro) e Maybe, maybe ha un andamento deliziosamente ska, la sorpresa arriva per l’ultima canzone: Soft rains of april, un’ambiziosa composizione che ha qualcosa di baroque pop e di prog rock. Solo un gruppo scandinavo poteva mettere insieme un pezzo del genere, così mostruosamente anni sessanta e primi settanta in un contesto che più anni ottanta non si poteva. Soft rains of april è un momento di grande pop, surreale e immaginifico. È una canzone intima e soffusa di malinconia: la solitudine del protagonista, lontano da casa e chiuso in una cabina telefonica, ha qualcosa di freddo che quasi ci penetra nelle ossa.

Scoundrel days è un disco di grandi estremi: a tratti è intimista e quasi impressionista, con i suoi richiami alle tenui luci del nord, altre volte è un muscolare e scattante album di pop rock ambiziosamente e dispendiosamente prodotto. Sicuramente non è un lavoro banale ed è stato un estremo atto di coraggio da parte di una band che in quegli anni era vissuta e raccontata solo come una fantasia pop per adolescenti.

a-ha
Scoundrel days
Warner Bros., 1986

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