28 luglio 2016 17:32

L’attacco terroristico di Nizza, la sparatoria di Monaco, l’incidente ferroviario in Puglia, i bambini investiti dalle macchine in tutte le città a tutte le ore: ogni giorno i notiziari riportano tragedie e manifestazioni in onore dei morti. E, altrettanto inesorabili, sembrano essere le lamentele sui social network per l’incapacità e l’insensibilità dei giornalisti nel raccontare la morte, le sue vittime e le loro famiglie. È una faccenda sulla quale vale la pena di riflettere.

Noi giornalisti non facciamo parte dei servizi di emergenza, che raccolgono i corpi e danno la terribile notizia alle famiglie attonite. Il nostro rapporto con la morte è di seconda mano. Raramente siamo testimoni oculari; la verità è che scriviamo di ultimi momenti ai quali non abbiamo assistito e di cose che sono successe a persone che non abbiamo mai conosciuto. Ho scritto centinaia di articoli sulla morte – incidenti, terremoti, carestie, omicidi e così via – ma, come la maggior parte dei giornalisti, la mia esperienza diretta è sempre stata limitata.

Avevo quasi trent’anni quando ho visto il primo cadavere, ed è stato nell’ambiente asettico di un obitorio, non su una strada bombardata. Era un senzatetto del quale avevo scritto e al quale a volte avevo portato da mangiare. Quando Dennis, un diabetico che non avrà avuto più di 40 anni, fu trovato morto nella casa abbandonata dove si era accampato, io ero l’unica persona che le autorità riuscirono a trovare che potesse ufficialmente identificare il corpo. Un assistente in camice bianco aprì una tenda ed eccolo lì, che sembrava più sano da morto di quanto non lo fosse sembrato in vita. Il suo viso immobile sembrava quasi levigato.

Centinaia di articoli e poca esperienza

La cosa triste è che da allora in poi non sono più riuscito a richiamare alla mente l’immagine di Dennis da vivo, tutti i ricordi di lui in movimento sono stati sostituiti da quel volto cereo steso su una lastra di marmo. È per questo che quando sono morti i miei genitori e gli addetti alle pompe funebri hanno insistito perché li vedessi, mi sono rifiutato di farlo. Volevo ricordarli com’erano quando erano pieni di vita. Se ne sono andati, senza troppe sofferenze, in età avanzata, a casa loro. E i miei pochi amici che sono morti lo hanno fatto con la stessa rapidità, compreso il mio testimone di nozze, che è spirato mentre si scolava una birra nel pub vicino casa, il tipo di fine che avrebbe voluto fare, se solo fosse arrivata trent’anni dopo.

Perciò non ho mai partecipato a una di quelle scene sul letto di morte tanto care ai romanzieri vittoriani, fino alla settimana scorsa. Era un vecchio amico che mi era molto caro ed era paralizzato dalla vita in giù da venti mesi. In quelle condizioni, sarebbe bastato poco per portarselo via, e alla fine è successo. Lo hanno trasportato in ospedale privo di coscienza e nessuno si aspettava che sarebbe durato molto. Ma dopo quattro giorni abbiamo saputo che si era svegliato e siamo corsi a trovarlo.

Sapevamo che stava morendo, e lo sapeva anche lui, ma abbiamo parlato come al solito di politica e di calcio. Solo quando ci siamo salutati è apparso chiaro che non ci saremmo mai più rivisti. Il mio solito “ciao” è stato sostituito da un “arrivederci Bill, grazie di tutto” carico di significato e di affetto inespresso. Era la cosa che più si avvicinava a dirgli che mi sarebbe mancato, anzi, a pensarci bene, non ci si avvicinava per niente. È morto un’ora dopo.

Nel corso degli anni ho conosciuto bene i genitori di tre ragazze assassinate. Non se ne fanno mai una ragione

Sono riuscito finalmente a dire quanto era stato importante per me quando ho incontrato i suoi figli per decidere che cosa dire nel discorso funebre che mi avevano chiesto di scrivere. Quell’incontro mi ha ricordato l’altro rapporto di seconda mano che i giornalisti hanno con la morte: quando vanno a trovare le famiglie delle vittime nella speranza che gli parlino della persona che è appena stata strappata al loro affetto.

I vecchi reporter rassicurano i novizi dicendo loro che sicuramente la famiglia li accoglierà con piacere, che parlerà per ore, tirerà fuori album di fotografie e cose del genere. Questo, in realtà, mi è successo una o due volte, ma in genere mi sono sempre sentito un intruso e spesso sono tornato in redazione dicendo che la porta, alla quale non avevo mai bussato, non mi era stata aperta. Tuttavia, non ho mai fatto niente di terribile come un certo giornalista americano. Andando a trovare i genitori di una ragazza che era stata violentata e assassinata, esordì dicendo: “Ricordo quello che ho provato quando è morto il mio cane”. Fine dell’intervista.

Un cliché molto usato dai giornalisti quando raccontano una morte violenta è dire che la famiglia della vittima sta cercando di “farsi una ragione” di quello che è successo. Nel corso degli anni ho parlato con molte famiglie delle vittime e conosciuto bene i genitori di tre ragazze assassinate. Non se ne fanno mai una ragione. Una coppia si è ritirata in campagna e non è più tornata a lavorare; un’altra è su tutti i database, a disposizione di qualsiasi giornalista o produttore televisivo alla ricerca di un po’ di dolore allo stato puro per condire i suoi servizi; e la terza madre ha fondato un ente di beneficenza a nome della figlia e ha lavorato lì in modo ossessivo fino a quando non è morta anche lei.

Spesso si dice che quello di cui hanno bisogno i giovani reporter è un po’ più di esperienza della vita. Be’, se vogliono smettere di scrivere stupidaggini dopo una tragedia, forse dovrebbero avere anche un po’ più di esperienza della morte.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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