10 settembre 2014 15:39

Un palestinese davanti a una moschea distrutta dai bombardamenti israeliani a Gaza, il 29 luglio. (Mahmud Hams, Afp)

Fatti recenti come la guerra nella Striscia di Gaza, l’espansione militare dello Stato islamico, l’abbattimento del volo Mh17 della Malaysian Airlines e la diffusione del virus dell’ebola offrono una nuova occasione per riflettere sull’uso e gli effetti delle immagini violente nel mondo dell’informazione.

Fred Ritchin, professore dell’università di New York e condirettore del programma Photography & human rights alla Tisch school of art, ha scritto per Time un articolo intitolato Why violent news images matter, perché le immagini violente sono importanti.

Ogni giorno, giornalisti e photoeditor ricevono dai fotografi immagini che ritraggono scene drammatiche. Molti di loro, afferma Ritchin, scelgono di non mostrare ai lettori le immagini più cruente per paura di urtarne la sensibilità o di allontanarli dalla lettura dell’articolo. Altri credono che l’esposizione costante a immagini violente faccia perdere la capacità di valutare ciò che si guarda e altri ancora temono di traumatizzare i bambini che potrebbero vedere quelle foto.

*Una donna accanto ai resti dell’aereo della Malaysia Airlines che è stato abbattuto nell’est dell’Ucraina, il 18 luglio 2014. (Dmitry Lovetsky, Ap/Lapresse) *

Il Sunnybrook health sciences center di Toronto ha condotto quest’anno il primo studio dedicato agli effetti dell’esposizione alle immagini violente. L’esperimento ha coinvolto 116 giornalisti di testate internazionali che vedono quotidianamente immagini cruente, molte delle quali considerate troppo scioccanti per essere mostrate al grande pubblico. Dallo studio è emerso che l’esposizione ripetuta a queste immagini (nell’esperimento erano inclusi anche i video) aumenta la possibilità di soffrire di disturbi psicologici come ansia o depressione.

Il dibattito su cosa pubblicare o meno può apparire anacronistico, continua Ritchin, considerando la tendenza dei social media a pubblicare qualsiasi cosa, ma è invece importante continuare a riflettere su come informare i lettori nella maniera più corretta possibile.

Che diritto ha un photoeditor di censurare le immagini che altre persone potrebbero voler vedere, soprattutto se possono comunque trovarle su internet? Se lo chiede Roger Tooth, capo della redazione fotografica del Guardian. Secondo Tooth l’unica soluzione è cercare di garantire una copertura degli eventi quanto più umana e dignitosa possibile.

Anche il fotografo Christopher Bangert nel suo ultimo libro War porn si chiede perché rifiutare di guardare immagini di atrocità quando nella realtà ci sono persone che quelle atrocità sono costrette a viverle; e il fotografo Kenneth Jarecke sulla rivista American Photo nel 1991 si domandava perché, se siamo abbastanza adulti da combattere una guerra, non dovremmo esserlo abbastanza da poter guardare le immagini che la ritraggono.

A questo punto, scrive Ritchin, ci si chiede perché non esponiamo nei supermercati le foto e i video su come sono allevati gli animali che mangiamo o, nei negozi, le foto delle fabbriche dove lavorano le persone, spesso bambini e ragazzini, che producono le magliette o le scarpe che indossiamo.

Forse perché, continua Ritchin, le foto di guerra rappresentano uno scenario molto più coinvolgente e vario di un gruppo di galline in gabbia (senza considerare l’effetto che queste immagini provocherebbero sull’industria alimentare).

*In un centro di isolamento per pazienti che hanno contratto il virus dell’ebola a Monrovia, in Liberia, il 1 agosto 2014. (Ahmed Jallanzo, Epa/Corbis) *

Quando si chiede ai fotografi perché abbiano scattato determinate foto, la risposta è spesso legata alla necessità di far conoscere quelle realtà, soprattutto perché spesso sono le stesse persone fotografate ad aver chiesto di essere ritratte per far conoscere la loro situazione drammatica. Una volta che queste foto sono state scattate, i fotografi sentono la necessità di rispettare il “patto” preso e si rivolgono soprattutto a chi può avere qualche possibilità di cambiare la situazione, anche se di poco.

Ritchin cita poi alcuni esempi di eventi in cui molte delle immagini cruente uscite sui giornali non servivano secondo lui a fare capire meglio la notizia: per esempio le foto dei corpi o dei giocattoli dei bambini tra i resti dell’aereo della Malaysian Airlines o la ripetizione delle immagini dei funerali delle vittime dei bombardamenti a Gaza.

*Yazidi fuggiti dalle violenze dello Stato islamico in viaggio verso il monte Sinjar al confine con la Siria, il 10 agosto 2014. (Rodi Said, Reuters/Contrasto) *

L’esistenza di immagini violente, prosegue Ritchin, è comunque importante per il potere di testimonianza che esse hanno nel presente e per il ruolo che avranno nella storia. Per quante foto riusciamo a guardare, possiamo solo immaginare quante storie non saranno mai fotografate. E quante si trovano a distanza di appena uno o due scatti da quello che stiamo leggendo o ascoltando.

Non c’è una regola su quale sia il modo migliore per mostrare l’orrore, conclude Ritchin. Ma sicuramente è importante raccontare il processo che lo produce, non soffermandosi solo sulle sue terribili conseguenze. (rs)

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