29 settembre 2015 10:23

“Avremmo preferito un referendum come quelli in Québec o in Scozia, ma l’unica strada che ci rimaneva era organizzare queste elezioni”, ha dichiarato Artur Mas, presidente del governo regionale catalano. Per questo, ha aggiunto, le elezioni del 27 settembre nella più ricca regione spagnola dovrebbero essere considerate un referendum sull’indipendenza (che Mas ha vinto).

Non è stata una grande vittoria: i partiti favorevoli all’indipendenza avevano bisogno di 68 seggi su 135 per ottenere la maggioranza nel parlamento regionale, e ne hanno ottenuti 72. Ma è comunque una vittoria, e Mas sostiene di aver ricevuto il mandato per dichiarare unilateralmente l’indipendenza nei prossimi 18 mesi.

La Catalogna potrebbe sicuramente farcela come stato indipendente: ha più o meno la stessa superficie della Svizzera e all’incirca la stessa popolazione (7,5 milioni di abitanti). Ma non è affatto detto che la Spagna le concederà un divorzio amichevole, e nemmeno che la maggioranza degli elettori catalani voterebbe sì a un referendum sull’indipendenza.

Come nella maggior parte del mondo, in Catalogna le circoscrizioni rurali hanno meno elettori di quelle urbane. Ma il sostegno all’indipendenza catalana è più forte proprio nelle zone rurali, dove i partiti secessionisti hanno ottenuto la maggioranza dei seggi, senza però ottenere la maggioranza dei voti, che si sono fermati al 48,7 per cento.

Il premier Rajoy propone un referendum a tutta la Spagna sull’indipendenza catalana

La maggioranza parlamentare di Mas rappresenta quindi una base piuttosto fragile per prendere una decisione fondamentale come lo smembramento della Spagna, ma lui sembra comunque deciso ad andare avanti con il suo piano e dice che comincerà subito a creare le istituzioni di uno stato indipendente (diplomazia, banca centrale, fisco ed esercito).

Per arrivare allo scontro con Madrid servirà meno di un anno e mezzo, perché la legge spagnola vieta di creare istituzioni del genere svincolate dallo stato centrale. Però, Mas sostiene di non poter fare altro che andare avanti senza un referendum, dato che il governo spagnolo rifiuta di autorizzarne uno sostenendo che la costituzione non permette alle regioni di prendere decisioni sulla sovranità.

La controproposta del primo ministro Mariano Rajoy è un referendum in cui tutto il paese dovrebbe votare sull’indipendenza catalana. Rajoy si giustifica dicendo che la secessione riguarderebbe tutta la Spagna, perché in Catalogna vive il 16 per cento della popolazione e si produce un quinto della ricchezza nazionale.

Una questione emotiva

Naturalmente una simile prospettiva è inaccettabile per i leader separatisti, ma l’intransigenza di Madrid gli offre una scusa per andare avanti senza un referendum che probabilmente perderebbero. Il sostegno all’indipendenza è stato molto variabile negli ultimi anni: nel 2010 era inferiore al 40 per cento, è salito a poco più del 50 per cento tra il 2012 e il 2013 ed è sceso a poco più del 40 per cento negli ultimi sondaggi.

Il voto del 27 settembre non basta a dimostrare che questa percentuale è tornata a salire. La maggioranza dei partiti indipendentisti è di sinistra, e molti elettori di sinistra potrebbero averli votati anche senza essere favorevoli alla secessione. La questione è spesso presentata in termini economici, ma probabilmente l’indipendenza non cambierebbe molto la situazione della Catalogna.

L’indipendenza è fondamentalmente una questione emotiva, non economica, e i nazionalisti catalani provano sentimenti molto forti.

L’ultima volta che sono stato a Barcellona, tre persone mi hanno detto in tre diverse occasioni che un ministro spagnolo aveva dichiarato che “Barcellona deve essere bombardata almeno una volta ogni cinquant’anni” per tenere sotto controllo i catalani. Come potevano vivere in un paese governato da persone simili?

Sono andato a controllare e ho scoperto che era vero. L’uomo che aveva detto quella frase era il generale Espartero, ed era addirittura capo del governo spagnolo. Però lo aveva detto all’inizio degli anni quaranta dell’ottocento, dopo la fine della prima guerra civile carlista. Non ha molta rilevanza per la situazione attuale, ma gli animi sono ancora accesi. È probabile che oggi la maggioranza delle persone di origine catalana voterebbe per l’indipendenza.

Il problema è che solo metà della popolazione è di origine catalana. La relativa prosperità della Catalogna ha attirato molti immigrati dal resto della Spagna nella seconda metà del ventesimo secolo, e oggi il 46 per cento degli abitanti della Catalogna parla spagnolo come prima lingua (anche se circa il 96 per cento afferma di parlare anche il catalano).

È molto difficile vincere un referendum sull’indipendenza quando quasi metà della popolazione non ne condivide lo scopo: perciò la speranza dei separatisti è ottenere l’indipendenza senza organizzare una consultazione. Le cose si faranno complicate in Catalogna, e la violenza non è da escludere.

Non c’è nemmeno da aspettarsi che le prossime elezioni nazionali spagnole modifichino l’accanita resistenza di Madrid all’indipendenza catalana: tutti i principali partiti spagnoli sono contrari, anche se Podemos è favorevole a concedere alla Catalogna un referendum sulla questione. Potrebbe trattarsi di pura tattica: permettere ad Artur Mas di organizzare un referendum non significherebbe necessariamente fargli un favore.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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