19 febbraio 2016 10:37

“Il mercato può rimanere irrazionale più a lungo di quanto tu possa rimanere solvente”, disse una volta John Maynard Keynes. È questa la verità immutabile su cui faceva affidamento l’Arabia Saudita quando ha deciso di non ridurre la sua produzione di petrolio, e lasciare che il suo prezzo crollasse, alla fine del 2014.

L’obiettivo saudita era mantenere il prezzo del petrolio abbastanza basso, e sufficientemente a lungo, da mettere in forte difficoltà i produttori statunitensi di petrolio di scisto e preservare la quota di mercato dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). L’Opec controlla solo il 30 per cento della produzione petrolifera mondiale, una quota già molto bassa per quello che avrebbe dovuto essere un cartello in grado di stabilire i prezzi.

La fine delle sanzioni contro l’Iran, che ora vuole aumentare la sua produzione per recuperare la sua vecchia quota di mercato, hanno spinto ulteriormente verso il basso il prezzo del petrolio. E lo stesso ha fatto il rallentamento dell’economia cinese.

In realtà, l’eccesso di petrolio è tale che nel mondo non c’è più posto per stoccare il greggio in più

I produttori statunitensi di petrolio di scisto (che ha alti costi di estrazione) sono in difficoltà, e negli Stati Uniti quest’anno l’estrazione calerà di 700mila barili al giorno, ma lo stesso vale per i produttori dell’Opec. E i sauditi sembrano aver appena dimostrato di averne abbastanza.

Il 16 febbraio l’Arabia Saudita, la Russia, il Venezuela e il Qatar hanno annunciato che avrebbero congelato la loro produzione di petrolio ai livelli di gennaio. Ci si attende che la maggior parte degli altri paesi dell’Opec facciano lo stesso, e dal momento che l’Arabia Saudita e la Russia (che non fa parte dell’Opec) sono rispettivamente il secondo e terzo principale produttore di petrolio al mondo, questa decisione riguarderà quasi metà della produzione petrolifera del pianeta.

Ma non basterà a tirare fuori i paesi Opec e la Russia dalle crisi nelle quali attualmente versano le loro economie (l’Arabia Saudita è passata da un avanzo primario del 13 per cento del pil nel 2012 a un disavanzo del 21 per cento nel 2015). Congelare la produzione non farà risalire il prezzo del petrolio, dal momento che l’attuale livello di produzione globale supera la domanda globale di almeno due milioni di barili al giorno.

In realtà, l’eccesso di petrolio è tale che nel mondo non c’è più posto per stoccare il petrolio in eccesso. Negli Stati Uniti e in Europa i depositi sono pieni e si parla già di comprare delle petroliere da usare come strutture di stoccaggio galleggianti. Dall’inizio dell’anno il prezzo del petrolio, che due anni fa era arrivato a 115 dollari al barile, è sceso più volte sotto i trenta.

Non solo l’accordo non risolverà questo problema, ma non produrrà nemmeno un vero blocco della produzione. Se c’è una cosa in cui i paesi dell’Opec sono bravi, è truccare i dati ed estrarre più petrolio di quanto dovrebbero. Quanto alla Russia, ha rotto l’ultimo patto che aveva sottoscritto con l’Opec a proposito del congelamento della produzione, e probabilmente lo farà di nuovo.

Per quanto inefficace, quest’accordo dimostra che il panico sta cominciando a diffondersi tra i principali produttori, preoccupati che il prezzo del petrolio rimanga basso ancora a lungo. La Russia e l’Arabia Saudita stanno andando verso uno scontro militare frontale in Siria: l’aviazione russa sostiene il regime di Bashar al Assad, mentre i sauditi pensano di inviare truppe di terra per combatterlo. Ma il prezzo del petrolio è più importante.

Quali conclusioni si possono trarre da questa vicenda? Innanzitutto, che il prezzo del petrolio rimarrà basso. Nel breve periodo potrebbe anche scendere ulteriormente: gli analisti della Morgan Stanley ritengono possibile che il prezzo arrivi “intorno ai venti dollari” se la Cina svaluterà ancora la sua valuta. La Standard Chartered Bank prevede che il prezzo potrebbe arrivare addirittura a dieci dollari al barile.

Strategia saudita ben precisa

Nel medio termine il congelamento della produzione potrebbe far tornare il prezzo intorno ai quaranta dollari al barile, a meno che la domanda cinese non crolli del tutto e i produttori non si rimangino le loro promesse. Questo prezzo permetterebbe alla maggior parte delle attività di fracking negli Stati Uniti di essere competitive sul mercato, ma sarebbe ancora decisamente insufficiente a far quadrare i bilanci della Russia e dell’Arabia Saudita, che non possono davvero permettersi una guerra aperta in Siria.

Inoltre i paesi dell’Opec con una popolazione numerosa che dipendono dal petrolio per oltre il 75 per cento delle loro entrate si trovano di fronte alla prospettiva di gravi scontri civili o perfino di rivoluzioni. Tra questi ci sono la Nigeria, l’Algeria, il Venezuela e l’Angola. Per l’Iran e il Messico (che non fa parte dell’Opec) i rischi politici sarebbero minori, ma non trascurabili.

Infine, se il prezzo di petrolio e gas dovesse rimanere basso ancora a lungo, sarebbe danneggiato tutto il settore dell’energia e delle tecnologie di trasporto ecologiche, dai parchi eolici alle automobili elettriche. Il costo dell’energia è ancora un elemento fondamentale, anche se i governi possono in qualche modo riequilibrare la questione tramite il carbon pricing e altre misure di controllo. Ma il carbone, il combustibile fossile più inquinante, rischia comunque di sparire presto, perché il suo principale rivale per la produzione di energia è il gas, che è sempre meno caro.

Se l’Opec fosse gestita in maniera spietatamente razionale (cioè se l’Arabia Saudita fosse guidata da economisti e strateghi competenti) potrebbe bloccare l’emorragia finanziaria e ridurre i rischi politici tagliando drasticamente la produzione e facendo risalire i prezzi del petrolio. Ma la grande scommessa di sconfiggere i produttori statunitensi mandandoli in bancarotta non è stata una scelta spontanea che si è affermata da sola nell’Opec.

È stata una strategia precisa, concepita e promossa da alcuni specifici e potenti individui, perlopiù sauditi di alto rango. Questi ultimi perderebbero la faccia in maniera clamorosa se dovessero abbandonare tale strategia, e quindi si andrà avanti così ancora per un po’.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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