07 novembre 2016 11:02

Quattro anni fa regnava un deciso ottimismo: secondo i calcoli l’aids era in calo e sarebbe stato possibile, un giorno, debellarlo. All’epoca il Programma congiunto delle Nazioni Unite sull’hiv/aids (Unaids) prevedeva coraggiosamente “la fine dell’aids entro il 2030”. Oggi nessuno è più così ottimista.

Le nuove infezioni da hiv, dopo essere stabilmente scese per i dieci anni tra il 1995 e il 2005, si sono più o meno stabilizzate a due milioni all’anno nell’ultimo decennio. Anche il numero di vittime annuali da aids si è stabilizzato intorno agli 1,5 milioni all’anno. Ma il futuro appare più cupo del presente. Due terzi dei sieropositivi (24 milioni su 36) al mondo si trovano in Africa, e le proporzioni di morti da aids che avvengono nel continente è anche maggiore. Se non fosse per l’Africa, le previsioni di quattro anni fa sarebbero ancora verosimili. Qual è il problema dell’Africa allora? Due cose: è povera e continuano a esserci “pratiche culturali” che facilitano la diffusione del virus dell’hiv.

Il grande risultato della conferenza internazionale sull’aids che si tenne a Durban 16 anni fa è stato quello di allentare la morsa delle grandi case farmaceutiche su alcuni farmaci fondamentali, quelli cioè che già allora permettevano alla sieropositività di essere un fastidio che durava tutta la vita invece di una condanna a morte, come era in altre parti del mondo. Sfortunatamente i farmaci erano così cari che la maggioranza degli africani, semplicemente, non poteva permetterseli, e quindi moriva.

La paura di essere visti
Nel corso di una battaglia condotta sui mezzi d’informazione e al livello diplomatico, e durata almeno un decennio tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, i paesi africani sono riusciti a costringere le grandi case farmaceutiche a consentire l’importazione, nei paesi africani più poveri, di versioni “generiche” e molto più economiche dei principali farmaci antiretrovirali, provenienti perlopiù dal Brasile, dall’India e dalla Thailandia.

Le case farmaceutiche occidentali non hanno solamente lasciato perdere le loro cause collettive contro il governo sudafricano, nelle quali difendevano i loro brevetti. Alcune di loro hanno perfino cominciato a fornire i loro farmaci brevettati nel mercato africano a un decimo o perfino un ventesimo del prezzo che facevano pagare altrove. Un ciclo di cure che negli Stati Uniti costava diecimila dollari all’anno divenne disponibile all’epoca agli africani a un prezzo di circa cento dollari all’anno.

Molti africani sieropositivi non potevano permettersi neppure quella cifra, ma i governi e le fondazioni private occidentali cominciarono a loro volta a fornire grossi finanziamenti ai programmi antihiv in Africa: 8,6 miliardi di dollari nel 2014 (l’80 per cento del denaro proviene dagli Stati Uniti e dal Regno Unito).

La resistenza alla miscela consueta di farmaci è diventata un grosso problema

Ancora oggi, però, metà delle persone sieropositive in Africa non usa regolarmente il cocktail di farmaci antiretrovirali. Chi ha il virus continua a essere stigmatizzato, e molte delle persone che dovrebbero usare i farmaci non vanno nelle cliniche per ritirarli, perché la cosa significa fare la coda ed essere viste da loro conoscenti.

Il tasso di mortalità da aids in Africa aveva conosciuto un netto declino, ma oggi sta risalendo per vari motivi. Il principale è che la resistenza alla miscela consueta di farmaci è diventato un grosso problema. Le cure di seconda linea, che usano nuovi farmaci ancora disponibili con lo “sconto africano”, costano trecento dollari all’anno a persona, ma anche in questo caso si verifica un’apparente resistenza nel 30 per cento dei soggetti. Le cure di terza fascia o di “salvataggio” costano 1.900 dollari all’anno perfino in Africa. I governi non possono permetterseli e pochissimi africani hanno un’assicurazione medica.

La resistenza ai farmaci è cresciuta anche nel mondo sviluppato, naturalmente, ma qui la soluzione è stata quella di sottoporre le persone sieropositive a nuove combinazioni di farmaci molto più care. Oggi il costo della cura, negli Stati Uniti, può arrivare a ventimila dollari all’anno, e meno di un africano su mille può permettersi una cifra simile.

È probabile che i governi africani dovranno lanciare un’altra lunga guerra diplomatica e sui mezzi d’informazione per poter accedere a versioni generiche o scontate dei migliori nuovi farmaci. Nel frattempo moltissime persone moriranno. E questo accade proprio quando i fondi occidentali per i programmi anti hiv hanno cominciato a calare: nel 2015 le donazioni sono state quasi di un miliardo in meno.

L’altro motivo specifico per cui il tasso da infezione dell’hiv nell’Africa subsahariana è molto più elevato è di tipo culturale. Qui le tradizioni sessuali sono differenti: il sesso preconiugale ed extraconiugale è una pratica comune. Inoltre gli uomini più anziani spesso utilizzano il loro relativo potere e la loro relativa ricchezza per fare sesso non protetto con molte giovani donne e ragazze.

Questo potrebbe spiegare perché nell’Africa meridionale, fatto unico al mondo, il 60 per cento delle nuove infezioni da hiv riguarda giovani donne. E colpisce il fatto che, secondo i dati disponibili, i tassi d’infezione da hiv siano molto più bassi in quelle parti del continente che da secoli sono musulmane – o cristiane, come l’Etiopia – e dove i costumi sessuali sono quindi molto più severi.

È quasi inevitabile che la situazione in Africa subsahariana peggiori, invece di migliorare, poiché le persone d’età compresa tra 15 e 24 anni, cioè quelle che hanno più possibilità di essere infettate, stanno crescendo in maniera vertiginosa. Sono circa duecento milioni oggi, ma raddoppieranno entro il 2040. Da molto tempo l’Africa è la capitale mondiale dell’hiv e dell’aids. Ed è probabile che continuerà a esserlo ancora per un po’.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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