05 dicembre 2014 11:17

La parola slumming, che deriva da slum (ghetto, bassifondi), è entrata nell’Oxford English Dictionary nel 1884. Definiva un’attività che in quegli anni andava di moda tra le classi abbienti di Londra e New York: visitare in comitiva i quartieri poveri delle città, per godersi lo spettacolo della miseria. È una forma di quello che oggi si chiama “turismo esperienziale”.

Recentemente, lo slumming è tornato in voga come attività turistica. A Mumbai, dal 2004, il tour operator Reality Tours & Travel organizza visite a Dharavi, la baraccopoli più grande della città. Nel 2008, dopo l’uscita del film Slumdog millionaire, c’è stata un’impennata delle prenotazioni. Reality Tours è molto attento a sottolineare l’aspetto equo e solidale dell’attività: secondo loro, l’80 per cento dei profitti è devoluto a progetti sociali che aiutano la comunità di Dharavi. In alcuni casi, il nuovo slum tourism è gestito direttamente dagli abitanti di questi quartieri poveri, e non solo per motivi economici: era il caso dei township tour offerti da alcuni abitanti di Soweto durante l’apartheid, per mostrare quello che il governo sudafricano voleva nascondere.

I township tour esistono ancora, ma ormai sono solo attività commerciali: una specie di safari umano, a piedi. Perché, come ha scritto nel 2010 l’attivista sociale keniano Kennedy Odede sul New York Times, non basta la gestione locale per sdoganare l’esperienza e renderla moralmente accettabile: “Un mio ex compagno di scuola ha fondato un business turistico. Una volta l’ho visto portare un gruppo a casa di una ragazza che stava partorendo. Alla fine il gruppo ha proseguito il giro, con le macchine fotografiche piene di immagini di una donna sofferente. Che cosa hanno imparato? E la ragazza è stata arricchita dall’esperienza?”.

Esiste anche lo slumming cinematografico. Trash, il film di Stephen Daldry appena uscito in Italia, ne è un buon esempio. Non vorrei essere ingeneroso: non dubito delle buone intenzioni di chi ha creato il film, e non nego l’aspetto magico e fiabesco di una storia che per molti versi mi ha coinvolto.

Essenzialmente, Trash è una favola sul riscatto di tre ragazzi deboli, oppressi e indifesi nei confronti di un intero sistema corrotto, un sistema che esiste per imporre e riprodurre ingiustizia. Ho apprezzato la sua morale edificante, ma mi ha turbato la spettacolarizzazione delle favelas a unico vantaggio di un pubblico straniero, all’interno del quale lo spettatore medio non è esattamente l’abitante di una baraccopoli.

Per chi non l’ha ancora visto, Trash è la storia di tre ragazzi orfani di Rio de Janeiro che racimolano qualche spicciolo rovistando tra i detriti di un’enorme discarica. Un giorno uno di loro trova un portafoglio che la polizia vuole riavere a tutti i costi, perché apparteneva al segretario personale di un uomo politico potente e contiene un messaggio cifrato che potrebbe far crollare un intero impero corrotto. Nonostante l’offerta di una lauta ricompensa, i ragazzi decidono di tenere il portafoglio e di cercare di risolvere il mistero da soli, ma per riuscirci devono cercare di non cadere tra le grinfie dei poliziotti spregiudicati e crudeli.

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In altre parole, come ho detto prima, è una favola, un trionfo dei sogni giovanili sul cinismo adulto, proprio come un altro film del regista britannico, Billy Elliot. In questo senso, funziona. Funziona anche come film di avventura, con scene di fuga ben montate, una fotografia accattivante e una colonna sonora hip-hop brasiliana scelta da Maxine Ashley e altri artisti. E i tre giovani protagonisti – pescati, come in ogni favola che si rispetti, dalla strada – illuminano lo schermo.

Un mio amico ha cercato di convincermi che Trash non può essere un esempio di slumming perché tra i produttori c’è il brasiliano Fernando Meireilles, il regista di Cidade de Deus. Ma anche quello era un esempio, adrenalinico, violento, sgargiante e un pochino vuoto, di slumming cinematografico: l’unica differenza è che si trattava di un tour a gestione locale.

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È vero, però, che Trash ha imparato qualcosa dalle critiche rivolte a Slumdog Millionaire, un’altra discesa agli inferi diretta da un regista inglese, girato in un altro paese (l’India) in cui la povertà, la corruzione e lo sfruttamento dei minori sono ancora molto diffusi. Slumdog era stato bersagliato da alcuni giornalisti indiani per i dialoghi in inglese, piuttosto improbabili nei bassifondi di Mumbai. In Trash i dialoghi sono tutti in portoghese, a parte qualche concessione al pubblico internazionale in alcune scene tra i tre ragazzi e una volontaria americana interpretata da Rooney Mara. Un altro aspetto più avveduto di Trash rispetto a Slumdog riguarda il capo del personaggio di Mara, Padre Julliard (Martin Sheen), un prete ribelle le cui invettive contro i burocrati ottusi della casa madre in America servono a dimostrare che il Brasile non è l’unico paese al mondo che ha problemi di malgoverno.

Qual è la differenza, si potrebbe chiedere, tra ambientazione e spettacolarizzazione? È una linea sottile, in realtà, fatta di piccole scelte. Ho trovato eloquente una dichiarazione del direttore della fotografia del film, Adriano Goldman, un bravo operatore brasiliano che aveva già curato Cidade dos Homens, il seguito di Cidade de Deus. Intervistato recentemente al festival Camerimage, in Polonia, Goldman ha dichiarato: “All’inizio ero un po’ testardo. Pensavo che Trash dovesse avere un look diverso rispetta agli altri progetti che avevo girato in Brasile. Non mi piace ripetermi. Se provassimo dei colori attenuati? Con meno contrasto? Ma poi, dopo aver letto la sceneggiatura e aver visitato le location, ti accorgi che i tropici richiedono colori forti, esigono contrasto, il sudore c’è sempre. Il compito del direttore della fotografia è servire la storia e il regista e aiutarlo a realizzare la sua visione”. In parole povere: ho provato a fare una cosa diversa, ma il regista non voleva. Ormai lo stile visivo dei film sulla vita violenta nel ghetto “tropicale” è stato stabilito: colori iperreali ottenuti spingendo il contrasto del negativo.

Concludo citando un bell’articolo apparso su Newsweek poco dopo l’uscita di Slumdog Millionaire. L’autore è un giornalista indiano, Sudip Mazumdar, che è cresciuto nella baraccopoli di Tangra, a Kolkata.

“La gente continua a lodare il ritratto ‘realistico’ dei bassifondi indiani nel film. Ma non è realistico per niente. La vita nella baraccopoli è una gabbia. Ti rende insicuro nei confronti dei ricchi e avvantaggiati. Ti ruba l’orgoglio, ti smorza l’ambizione, ti limita la fantasia e ti storpia psicologicamente ogni volta che ti avventuri fuori dalla ‘comfort zone’ tuo quartiere. La maggior parte degli abitanti di questi bassifondi non avranno mai un lieto fine”.

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