02 settembre 2015 19:58

La 72ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia non poteva cominciare con due film più diversi. Il primo ci mostra dove siamo arrivati in materia di effetti speciali, emozioni forti e spettacolarità 3d. Il secondo ci ricorda la fragilità materiale che una volta, nell’età analogica, era una delle caratteristiche che definiva la settima arte e la rendeva speciale. Ma ci rammenta anche che è possibile creare emozioni vere e pensieri forti con pochissime risorse.

Sono il disaster movie Everest, dell’islandese Baltasar Kormákur, un kolossal himalaiano girato in parte (per motivi di budget) in Alto Adige, e The merchant of Venice, un adattamento shakespeariano girato da Orson Welles per la rete televisiva statunitense Cbs nel 1969, e che per lungo tempo si credeva perso per sempre.

Di Everest dirò solo poche parole. È la versione cinematografica della sciagura del maggio 1996, quando sulla montagna più alta del mondo sono morti otto scalatori, compresi tre guide e due clienti di due compagnie che organizzavano salite per alpinisti più o meno esperti, dietro il pagamento di una cifra che arrivava a 50mila dollari a testa. Ma Everest fa solo qualche accenno doveroso agli effetti deleteri della commercializzazione di un’impresa che una volta era considerata eroica, riservata ai veri professionisti.

Vi ricordate quel filone di film catastrofici americani degli anni settanta, L’inferno di cristallo, Terremoto eccetera? Personaggi appena abbozzati, alcuni destinati a una morte atroce, altri a essere salvati miracolosamente? Ecco: dietro alla sua visione maestosa della montagna come dio freddo e indifferente, Everest ne è il cugino del 2015. Compreso il suo tentativo di farsi rispettare attraverso la scelta di attori di una certa levatura. Qui ci sono Jake Gyllenhaal, Keira Knightley e Josh Brolin. In Terremoto (strano ma vero) c’erano Charlton Heston, Ava Gardner e Walter Matthau. È una tecnica che Noam Chomsky chiamerebbe la fabbrica del consenso.

The merchant of Venice di Orson Welles. (Dr)

Era sopravvissuto solo qualche frammento di The merchant of Venice, presentato ieri in preapertura del festival davanti a un pubblico soprattutto locale. Welles viaggiava di continuo, ed era notoriamente smemorato per quanto riguardava la conservazione del materiale che aveva girato (poi inventava delle storie per giustificare le perdite – in questo caso disse, in un’intervista anni dopo, che il filmato era stato rubato in circostanze misteriose).

Ma quest’anno più della metà di una copia lavoro montata e parte della colonna sonora già mixata sono state ritrovate da Cinemazero, la storica e dinamica associazione cinematografica di Pordenone. Unita ad altro materiale conservato al Filmmuseum di Monaco di Baviera, la scoperta ha permesso di ricostruire – anche grazie al recente ritrovamento della sceneggiatura originale e delle note sulla partitura del compositore Angelo Lavagnino – ben 35 minuti di un’opera che non doveva durare molto di più.

Era, dunque, una sintesi dell’opera veneziana di Shakespeare, ambientata nell’ottocento, girata fra Venezia, Asolo, Roma, Trogir, e diretta a un pubblico televisivo americano. Una parte dell’impatto del film sta proprio nella frammentarietà di ciò che è rimasto. Quando il sonoro originale si interrompe, i restauratori di Monaco hanno rimediato con la registrazione di un’interpretazione teatrale di Welles di trent’anni prima; il cambio brusco di tono di voce e la mancanza (a volte) di corrispondenza perfetta fra dialoghi e movimenti labiali sono spaesanti, ma poi stranamente toccanti, perché ci fanno ricordare quanto sia delicato, fragile e fuggente l’attimo del cinema.

Completato da Welles alla meno peggio quando la Cbs ritirò l’appoggio finanziario, il film non è certo un capolavoro

Quando finisce il video ma continua l’audio – a metà del discorso famoso “Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, organi, statura, sensi, affetti, passioni…” – sentiamo le parole di Welles su schermo nero, seguito da un fermoimmagine dell’attore nel ruolo di Shylock.

Completato da Welles alla meno peggio quando la Cbs ritirò l’appoggio finanziario, il film non è certo un capolavoro. Certe scene in cui appare l’avvenente Jessica, figlia di Shylock, sembrano uscite da una telenovela. Ma a prevalere su tutto è l’intensità con cui Welles rende quest’uomo amareggiato dalle continue angherie dei cosiddetti “cristiani” che lo deridono e lo insultano tutti i giorni. L’attore-regista, grazie anche al coraggio di Shakespeare nello sfidare l’antisemitismo della sua epoca, ci restituisce l’attualità del tema del razzismo. Il fatto che queste parole ci raggiungano da un film che credevamo perduto, e che è ancora frammentario, rendono il messaggio ancora più tagliente. Welles diventa uno spettro che ci parla dal passato; ma ciò che dice non è mai stato così presente, vero e urgente.

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