12 febbraio 2015 14:38

Per secoli è stata un’arte per pochi. Poi è diventata un’attività artigianale di molti che la esercitavano di tanto in tanto. Adesso sembra essere il mestiere di tutti, sempre: ci mettiamo in posa, ci sistemiamo bene. È l’ultimo passo della società dello spettacolo. Non ci limitiamo più a guardare senza sosta. Adesso dobbiamo anche imparare a farci guardare. L’arte di mettersi un posa è una novità di questi anni affetti dalla registrazione.

Nove persone su dieci hanno sempre con sé un apparecchio in grado di registrare. Tutti hanno un cellulare. Visto che la macchina crea la funzione, documentiamo senza mai fermarci. Abbiamo smesso di fidarci dei nostri occhi. Abbiamo smesso di fidarci anche della nostra memoria, e davanti al minimo dubbio ricorriamo alla memoria esterna della cultura attuale, la rete 4G. Non crediamo di dover usare più neanche la memoria visiva, immagazzinando nei nostri telefoni le immagini che un giorno potremmo voler guardare. Tra quelle immagini, chiaramente, non c’è niente di più abituale di trovare le facce delle persone amate e, primus inter pares, amata tra gli amati, quella di noi stessi.

“Hai visto la foto che ti ho mandato dalla torre?”.

Davanti allo schermo onnipresente siamo apparecchi per produrre il futuro, per cercare di definire il nostro ricordo. Siamo memorialisti persistenti, creiamo un’immagine di noi per quelli che ci vedranno domani o (speriamo) tra vent’anni. Per questo è importante sapere come farci vedere: come porci nel ricordo, quali pose, quali gesti e quali smorfie adottare per essere un giorno migliori di adesso. Costruire a poco a poco la storia di noi stessi che, ogni giorno di più, dovrà essere visiva.

“Hai visto il nonno com’era giovane? Era quasi bello…”.

Ecco perché la prima cosa da fare è costruirci una faccia: prepararla davanti allo specchio digitale, disegnarci la faccia in ogni foto. Anche se è molto facile che la foto ci tradisca: che ci mostri una faccia che avevamo cercato accuratamente di non vedere mai. Ma i tentativi persistono e il volto ricercato, ovviamente, deve comprendere un sorriso. Il futuro dovrà essere sorridente. Il sorriso è il messaggio che vogliamo dare: guardate, amici (amici è una parola molto attuale) come vivo bene, come ho vissuto bene.

Nella nostra cultura di edonismo immediato, il sorriso è il grimaldello che apre tutte le porte. Darwin credeva che il sorriso facesse parte della nostra eredità evolutiva, e che per questo esiste in quasi tutte le culture. Alcuni dei suoi colleghi scoprirono che anche i primati usavano il sorriso per comunicare le loro intenzioni pacifiche. Adesso è il segno universale per dire: tutto a posto, mi sto divertendo, sono un po’ felice, non ho niente contro di te. Non sorridere è sospetto: qualcuno potrebbe voler sapere perché, e allora sorridiamo. Il segno precede il significato: non sorridiamo perché siamo contenti, sorridiamo per dare l’impressione di esserlo, insomma, per esserlo. Il genere umano non ha mai sorriso tanto davanti a cose così poco divertenti: tequila, cheese, smile. I metodi per ottenere la parvenza di un sorriso si moltiplicano e si confondono.

Bisogna mettersi in posa, bisogna far vedere – ai parenti, agli amori, agli amici di Facebook, al tempo e alle sue età – quanto si è felici. Bisogna lasciare una registrazione. Ma è una registrazione sempre più continua. Forse diventerà così continua che non ci sarà più bisogno di posare, e allora si sarà chiuso il cerchio: prima non ci preoccupavamo perché non ci registravano mai, adesso cominceremo a non preoccuparci perché lo fanno sempre. E gli estremi, per tornare al vecchio detto, s’incontreranno tra i sorrisi.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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