14 gennaio 2016 12:37

Arriva gennaio, con il suo vuoto: è ormai passata la furia del consumo in ricordo di quel bambinello povero. Adesso, se il suo padre celestiale non interviene, la prossima grande notizia sacra sarà la canonizzazione di una donna che si chiamava Anjezë Gonxhe Bojaxhiu prima di farsi chiamare Madre Teresa di Calcutta. L’ha annunciato qualche giorno fa sua santità Bergoglio, per festeggiare il suo compleanno, ed è probabile che la canonizzazione diventi realtà il 4 settembre. La sua ascesa alla santità, dicono i dotti, è tra le più veloci della storia.

I santi sono sempre di più: oscillano, a seconda delle fonti, tra 6.599 e 19.200, e stanno aumentando. Ogni tanto la chiesa di Roma si prende una pausa dal suo impegno per sembrare moderna e torna alle sue fonti: sostiene che una persona è in grado di operare certe magie, che nel suo gergo chiama “miracoli”, che consistono nello stravolgere l’ordine naturale e produrre effetti sorprendenti.

Adorabile gracilità

Perché qualcuno diventi santo ci vogliono due miracoli, anche se un papa ha il potere di sorvolare, chiaramente, su qualsiasi requisito. Nel caso di Bojaxhiu, il miracolo che l’ha consacrata definitivamente è avvenuto dopo la sua morte, quando la moglie di un signore in coma si è rivolta a lei in preghiera perché lo salvasse, e l’uomo si è risvegliato nel bel mezzo della sala operatoria, si è stupito e ha chiesto perché fosse lì. Provata in tal modo la santità della suddetta Bojaxhiu, manca solo la cerimonia che la consacri per l’eternità.

Ma Bojaxhiu era consacrata da anni: ancora in vita, si erse a Grande Buona. Sembra che sia una funzione necessaria: ogni comunità ha bisogno di una figura da adorare come esempio di bontà. Bojaxhiu ha svolto questo ruolo con la sua adorabile gracilità, il suo interesse per i poveri e i suoi discorsi bruschi.

Servono molta fede e molta ideologia perché il tuo obiettivo non sia aiutare a vivere ma a morire

Era nata nel 1910 a Skopje, allora Albania e oggi Macedonia, però diventò famosa nel suo centro a Calcutta, fondato nel 1950. Io ci andai più di vent’anni fa, quando era già famosa e aveva ricevuto il premio Nobel per la pace. La sua corporazione riceveva montagne di soldi. All’epoca mi sorprese vedere che il suo centro, molto precario, non era un posto per guarire, ma per morire. Chi lavorava lì non cercava di curare ma di aiutare a morire bene (sistemati, puliti) i poveri raccolti per strada. In quei giorni, per esempio, era morto un uomo che era arrivato con una gamba rotta.

“Non possiamo curarli. Non siamo medici. Abbiamo un medico che viene due volte alla settimana, ma non abbiamo le attrezzature o le medicine necessarie. Noi li confortiamo, ci prendiamo cura di loro, gli diamo affetto, gli offriamo una morte dignitosa”, mi disse all’epoca un volontario. Il problema non era economico: Bojaxhiu era famosa, riceveva ingenti donazioni e aveva aperto centinaia di centri nel mondo.

Era frutto di una decisione: servono molta fede e molta ideologia perché il tuo obiettivo non sia aiutare a vivere ma a morire. Ce n’è bisogno anche per accettare soldi ed elogiare dittatori come Papa Doc Duvalier o Enver Hoxha, o per guidare le campagne contro l’aborto o la contraccezione con frasi diventate famose. “L’aborto è oggi la più grande minaccia per la pace nel mondo”, disse accettando il premio Nobel, e poi aggiunse, per fugare ogni dubbio: “La contraccezione e l’aborto sono moralmente equivalenti”.

Ma è probabile che la sua ideologia non sia mai stata così chiara come quel pomeriggio in un ghetto nero di Washington, quando il sindaco nero dell’epoca, Marion Barry, le chiese se insegnasse ai poveri ad accettare la loro sorte, e Bojaxhiu gli rispose che la povertà era un dono del suo dio: “C’è qualcosa di molto bello nel vedere i poveri che accettano la loro sorte, soffrendo come Gesù Cristo durante la passione. Il mondo guadagna dalla sofferenza dei poveri”, disse, e adesso queste saranno parole sante.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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