20 gennaio 2015 15:18

Esterno sinistro dal tiro potente, Peter Hopper era una discreta promessa del calcio britannico quando, nel 1951, gli obblighi di leva lo condussero in Kenya, allora parte dell’impero di sua maestà. L’insurrezione dei mau mau sarebbe cominciata solo l’anno successivo, e il biondino del Devon, punto fisso del Dawlish town Fc, probabilmente pensò che la destinazione che gli era stata assegnata dal comando dell’esercito non era poi così male. C’era solo un problema: avrebbe potuto continuare a giocare a calcio o sarebbe tornato a casa arrugginito, o peggio, sfinito da interminabili partite di cricket sui non impeccabili prati coloniali, come era capitato a molti colleghi?

Presto Hopper scoprì che la sua carriera non era affatto finita, ma anzi cominciava laggiù. Le cronache del tempo sono vaghe. Quel che è certo è che Hopper collezionò almeno una presenza con la nazionale keniana, in un’amichevole contro l’Uganda. Nessuna delle due nazioni aveva ancora raggiunto l’indipendenza, ma in ambito calcistico britannico questo non è mai stato un freno alla creazione di rappresentative nazionali. Hopper deliziò i presenti (bianchi? neri?) con numeri di alta scuola, segnando una tripletta e rifornendo di assist i compagni di squadra. Al ritorno in patria diventò una delle leggende dei Bristol Rovers, con cui segnò più di cento reti in quasi trecento presenze. Però non vestì mai la maglia bianca dell’Inghilterra, non per una questione di regolamento (erano gli anni di Ghiggia, Schiaffino e degli oriundi), ma perché aveva giurato fedeltà a un’altra nazione calcistica: il Kenya. Senza saperlo, Peter Hopper aveva aperto la strada a una stirpe pionieristica di calciatori: gli alligatori albini, i bianchi nelle squadre di neri.

Gli esponenti di questa categoria sono entrati a farne parte per ragioni molto diverse. Alcuni perché trascinati lontano da una storia di violenza e migrazione. Altri perché attratti dal mal d’Africa, oltre che dalle scarse possibilità d’ingaggio nelle nazionali europee. Altri ancora per puro spirito mercenario, vinti dalle lusinghe di paesi esotici dove svernare o purgare in pace i peccati di una vita precedente. Le loro storie personali si intrecciano con quelle di paesi e federazioni lontane.

I primi decenni dopo la seconda guerra mondiale non sono tempi propizi per gli alligatori albini, stretti tra la decolonizzazione che li associa ai dominatori e l’apartheid che ancora impone la separazione. Sono anni difficili di ritorni in Europa, nazionalismi e repressioni. Ma a tenere viva la specie ci pensa una sottocategoria particolarmente folle e resistente: i portieri. Scorrendo le rose della prima Coppa d’Africa del 1957 si ritrovano nel Sudan padrone di casa due estremi difensori greci: Giorgios Lengis e Skandros Minas, probabilmente mai scesi in campo. Giocò invece, e vinse la coppa, il portiere dell’Egitto Paraskos Trimerits, per tutti “Brascos”, capace di mantenere la porta inviolata durante la finale vinta 4 a 0 contro l’Etiopia (poker di Al Diba).

Ma quello era ormai il tramonto dell’Egitto cosmopolita, dove i mercanti greci, insieme agli italiani e più ancora degli inglesi, avevano contribuito a importare il calcio. Non è in Nordafrica, dove i colori si mescolano da secoli, bensì nell’Africa australe che la storia coloniale fa nascere alligatori albini di bellezza inusitata. Una bellezza frutto dell’asperità dell’ambiente e dello sforzo di sopravvivere. Basti pensare alla Namibia, dove solo nel 1974 una squadra di bianchi e una di neri poterono affrontarsi in una storica amichevole al Sudweik stadion di Windhoek. Per precauzione, comunque, durante la partita il pubblico fu tenuto segregato, i neri nel settore sud e i bianchi in quello nord.

In Sudafrica la fine dell’apartheid nella nazionale di calcio fu sancita solo nel 1992, e da allora alcuni casi eccellenti si sono fatti conoscere anche al pubblico europeo. Il più famoso in Italia è Mark Fish, roccioso difensore dei Bafana Bafana campioni d’Africa nel 1996 e onorevoli comparse dei Mondiali del 1998, in forza per breve tempo anche alla Lazio. Nel Sudafrica calcistico di quegli anni non era raro imbattersi in casi simili, come l’ex capitano Neil “Mokoko” Tovey o il portiere Hans Vonk. Ma nel 2010, agli storici Mondiali giocati in casa, l’unico calciatore di origini europee a rappresentare il Sudafrica fu Matthew Booth, significativamente ribattezzato “the white knight”, il cavaliere bianco. Booth fu anche al centro di un caso diplomatico montato da alcuni osservatori poco attenti (o in malafede), che hanno scambiato il fragoroso “boooooth” con cui i tifosi di casa salutavano le sue azioni con un più classico e offensivo “buu” motivato da presunte antipatie razziali.

Proprio nell’Africa ex britannica, in un contesto politico altrettanto teso, emerse l’esemplare forse più superbo di alligatore albino. Guarda caso è di nuovo un portiere. Il suo nome è Bruce Grobbelaar, ed era un figlio della Rhodesia meridionale (divenuta poi Rhodesia e basta, e infine Zimbabwe), un paese dove a una netta divisione razziale corrispondeva una quasi altrettanto rigida spartizione sportiva: all’élite bianca il cricket e il tennis, alla maggioranza nera il calcio. Un apartheid sportivo de facto, che ha avuto pesanti strascichi razziali e politici negli anni dopo il 2003 (passati alla storia come la “crisi del cricket”) e ha fatto da contraltare negativo all’unità nazionale del Sudafrica del rugby.

Bruce Grobbelaar dello Zimbabwe, al centro, prima di un’amichevole con il Camerun nel 1993. (Gideon Mendel, Corbis)

Bruce nasce in Sudafrica e si trasferisce con la famiglia in Rhodesia due anni dopo. Da giovane eccelle sia nel cricket sia nel baseball, ma sceglie la carriera calcistica partendo dalla gavetta. Dopo un primo contratto con il Durban City, durante il quale si lamenta dello scarso utilizzo dovuto proprio al colore della pelle (era il primo anno che le squadre di club non avevano limitazioni razziali), si arruola nell’esercito prima di trovare un contratto con i Vancouver Whitecaps della defunta Nasl. Diventerà presto il portiere del Liverpool, con cui vincerà sei campionati e una Coppa dei campioni. In quella del 1984, vinta ai rigori contro la Roma nella capitale italiana, le sue mosse da clown indussero all’errore dal dischetto i campioni del mondo Conti e Graziani. Per la cronaca, il portiere dello Zimbabwe, che ispirò le future gesta del compagno di squadra e di reparto Dudek nel 2005, è stato il primo cittadino di uno stato africano indipendente a conquistare il massimo trofeo calcistico per club d’Europa.

Baffutissimo e stronzissimo, Bruce (celebre un suo litigio con il compagno di squadra Steve MacManaman e l’accusa, mai davvero smentita, di aver truccato alcune partite) fu anche fedelissimo simbolo dei Reds, con cui è restato tredici anni nonostante le successive esperienze in altri club inglesi, quasi sempre per poche partite e in serie minori. La stessa fedeltà la dimostrò anche alla sua nazionale, con cui aveva debuttato diciannovenne nel 1977 e che scelse di rappresentare con costanza negli anni novanta, a costo di giocarsi il posto in squadra a Liverpool e di dover stringere la mano al discutibile presidente Robert Mugabe. In totale furono 32 le presenze, su un arco di oltre 21 anni drammatici per il suo paese, che aveva cambiato nome e assetto costituzionale ma non portiere.

In epoca più recente gli alligatori albini sono stati avvistati soprattutto in Angola. Nel 2006, al suo primo mondiale, la squadra africana ha affrontato all’esordio proprio il Portogallo, da cui il paese si era emancipato neanche trent’anni prima. Durante le foto di rito degli undici titolari, i pochi spettatori di paesi terzi furono colpiti dalla presenza in squadra di tre bianchi: il portiere (naturalmente) João Ricardo, il centrocampista Paulo Figueiredo e il centrale difensivo Kali. Se quest’ultimo è nato e cresciuto nel paese che rappresenta, i primi due sono invece nati in Angola da famiglie di coloni portoghesi. I loro genitori li riportarono nella madrepatria subito dopo l’indipendenza dell’Angola, ma il richiamo del continente, oltre alle scarse chance di convocazione nel Portogallo, li ha risospinti in Africa, dove hanno rappresentato degnamente il loro paese di nascita per una trentina di partite ciascuno.

I lusofoni sono stati chiaramente i più sensibili al richiamo dell’Africa: basti pensare a Carlos Alberto Fernandes, nato a Kinshasa ma di famiglia e carriera quasi interamente portoghesi. Quasi, appunto, perché angolana era la nonna di Carlos, il quale nel 2009 accetta senza esitazione la convocazione delle Palancas negrasdell’Angola con cui disputerà due coppe d’Africa, nel 2010 (in casa) e nel 2012. E non ha resistito nemmeno Ricardo Campos, formato nelle giovanili del Benfica, onesta carriera tra seconda e terza divisione, che nel 2013 ha accettato di diventare il numero 1 del Mozambico, paese in cui è cresciuto il padre. Con Os Mambas, Ricardo ha sfiorato l’accesso alla Coppa d’Africa prima di essere fatto fuori da Capo Verde e Zambia nel girone F all’ultimo turno delle qualificazioni. Ma intanto la sua carriera, avviata alla mediocrità, si era rilanciata.

La stessa necessità di rilancio ha spinto recentemente altri alligatori albini a migrare verso i Caraibi. Del resto, che altra possibilità avrebbe avuto di girare il mondo e partecipare ai Mondiali un volenteroso e biondo nativo dello Staffordshire come Christopher Birchall? Centrocampista del Port Vale, terza divisione inglese, fisico normale ma grinta da mastino e stessa voglia di mettersi in mostra, Birchall aveva due carte da giocare: un agente furbo e una madre nata a Port of Spain, capitale dell’arcipelago di Trinidad e Tobago. L’agente sparse in giro la voce delle ascendenze del suo assistito. Dennis Lawrence, centrale del Wrexham e della nazionale trinidadiana, drizzò le orecchie e verificò direttamente la notizia durante una partita di terza divisione. La federazione caraibica non tardò a convocarlo.

Il giorno dell’esordio non si mancò di sottolineare che Birchall era il primo bianco in sessant’anni di storia della nazionale locale. Chris è stato una delle attrazioni dei Soca warriors capitanati da Dwight Yorke ai Mondiali 2006. Fece la sua dignitosa figura in campo e nelle foto prepartita, in cui la sua zazzera bionda e le gambette da portuale risaltano in mezzo ai fisici statuari dei compagni. La carriera dell’ex Port Vale fu rilanciata davvero. Dopo il mondiale arrivò la chiamata del Coventry City, squadra di seconda divisione dal discreto blasone. Le cose però non andarono benissimo, e il nostro è stato girato in prestito un paio di volte. Ma intanto la sua fama di giramondo si consolidava. Nel 2009 arrivò la chiamata più glamour, quella dei Los Angeles Galaxy dove per tre stagioni, prima da riserva poi da titolare, ha presidiato il centrocampo insieme a Beckham e Juninho. Quanti altri giocatori di terza divisione avrebbero potuto ambire a tanto? In cambio Birchall ha giurato fedeltà ai colori delle due isole, che ha rappresentato fino al 2013 per un totale di 43 presenze e 4 reti. Nel 2013 è tornato al Port Vale, la squadra che lo ha lanciato. Nel suo salotto, d’inverno, il camino è sempre acceso e i trofei raccolti in tutto il mondo danno all’ambiente un’aria esotica.

Un capitolo a parte, volendo parlare di scelte di vita che nascondono calcoli opportunistici, meriterebbe la Guinea Equatoriale. I suoi geniali e scriteriati dirigenti sono impegnati da almeno una decina d’anni in una spaventosa opera di naturalizzazione di calciatori stranieri, perlopiù brasiliani e spagnoli, volta a rafforzare una nazionale abbastanza scarsa. Questa politica è valsa alla federazione le critiche degli avversari e qualche rimbrotto da parte della stampa e della Fifa, ma le ha anche permesso di alzare il livello tecnico e di presentarsi con ambizioni di grandezza alla Coppa d’Africa di quest’anno dove, da padrona di casa, punta forte sul giovane Ivan Bolado, piedi fatati e un passato nelle giovanili della Spagna.

Queste sono solo alcune storie di alligatori albini. Meticcio, infido, eroico, cosmopolita, opportunista, il suo colore è motivo di orgoglio, vergogna e dibattito. Dell’apartheid, come del meticciato, è al contempo spauracchio ed emblema. Per questo è destinato a tornare, come un gene recessivo che ogni tanto riemerge. Pelle bianca, maschere e cuori neri.

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