14 luglio 2015 09:45

Lunedì 13 è stato comunicato al mondo dei videogiocatori di tutte le età, degli investitori e di qualche genitore distratto, che ha comunque alzato un sopracciglio, che sabato scorso è morto a 55 anni per un cancro alle vie biliari Satoru Iwata, il presidente della Nintendo. È molto difficile che non sappiate cosa sia la Nintendo, e se siete nati dagli anni settanta in avanti è impossibile. Oggi è un giorno particolarmente triste in un periodo non facile della storia di questa azienda giapponese, unica per una moltitudine di ragioni, e anche per questo oggetto di un culto pluridecennale.

Satoru Iwata a Tokyo, il 17 marzo 2015. (Akio Kon, Bloomberg/Getty Images)

Hanafuda è un mazzo di piccoli cartoncini illustrati con immagini della natura, tra animali, piante, tramonti e soli splendenti, che risale al nostro cinquecento. Il gioco che si gioca con le hanafuda si chiama koi-koi (più o meno “dai, dai”), sembra il ramino e si presta volentieri all’azzardo. Nel 1889 Fusajirō Yamauchi apre a Kyoto un piccolo laboratorio di produzione di mazzi di carte hanafuda, che per secoli erano state vietate e relegate nel mondo dell’illegalità, caratterizzate però da disegni originali e preziosi.

Le carte hanno successo: prendono piede prima nelle bische e nei bordelli gestiti dalla yakuza, poi come passatempo per i giapponesi comuni. Nel 1929 Yamauchi va in pensione e lascia l’azienda al genero. A metà novecento il genero di Yamauchi ha un malore, e chiede al nipote di prendere il suo posto. Hiroshi Yamauchi è l’uomo che raccoglie in eredità una piccola fabbrica di carte e la trasforma nel gigante che conosciamo. I giocattoli compaiono già negli anni sessanta, i giochi elettronici negli anni settanta. La Nintendo è questo: una fabbrica di carte prima e giocattoli poi. Questa è la prima differenza notevole tra questo e gli altri produttori di console e videogiochi.

Hiroshi Yamauchi diventa un colosso del panorama imprenditoriale giapponese e non solo. Tra le altre cose, l’uomo sotto la cui dirigenza sono nati Mario e il Gameboy, è poco reperibile. Si dice che non ami i videogiochi, che non li capisca e non ci giochi mai. È storicamente impossibile intervistarlo. Uno dei pochi che riesce a parlarci a lungo e con calma è uno statunitense appassionato di go (che è insieme una disciplina zen e più o meno un equivalente giapponese degli scacchi), che gli fa delle domande con il pretesto di alcune partite, o viceversa.

Con la spinta creativa di Shigeru Miyamoto, padre di Mario e molto altro, la Nintendo cresce moltissimo soprattutto negli anni ottanta e novanta. Ma per raggiungere il podio come uomo più ricco del Giappone, Yamauchi ha bisogno della rivoluzione realizzata dal primo presidente della Nintendo senza legami familiari di sangue o acquisiti con lui, cioè Satoru Iwata. Teniamo presente che la Nintendo non è la Sony, non è un grande gruppo industriale di Tokyo che produce anche contenuti videoludici; non è nemmeno la Microsoft, un colosso informatico della West coast degli Stati Uniti. La Nintendo è un’azienda quasi esclusivamente familiare del Kansai, la regione meridionale dell’Honshū, l’isola principale dell’arcipelago nipponico.

Si va in Kansai per vedere i ciliegi in fiore, i templi di Kyoto e di Nara, o mangiare l’okonomiyaki a Osaka. Al sud fa caldo, è tutto un po’ più lento, la gente è più amichevole e casinista, i mezzi pubblici sono più scalcagnati, i ristorantini spesso non sono un granché ma hanno un’atmosfera adorabile. Per capirci, immaginate un incrocio tra Torino e la Puglia. La Nintendo è anche questo: una grande azienda di provincia, gelosa della propria identità e per niente determinata a mettersi sullo stesso piano degli altri.

Satoru Iwata, al centro, prova la Wii al festival E3 di Los Angeles, il 9 maggio 2006. (Lucas Jackson, Ap/Ansa)

È sotto Satoru Iwata che la Nintendo produce la console portatile DS nel 2004 e soprattutto la rivoluzione copernicana della Wii nel 2006: la prima è la rinascita del Gameboy, la rifondazione di una tradizione di giochi portatili soprattutto per bambini che è e rimane da sempre appannaggio della Nintendo; la seconda è un ritorno alle origini dei videogiochi, quando erano degli accessori per il televisore, destinati a tutti quelli che vicino al televisore ci stavano comunque.

La Wii è stata la presa di coscienza del fatto che i videogiochi erano diventati un linguaggio per iniziati, e che la tecnologia contemporanea permetteva invece di superare ogni barriera anagrafica per metterli nelle mani della famiglie, trasformarli in strumenti di socialità facili e disponibili, allargare il senso del gioco a forme di fitness e miglioramento individuale, coinvolgere fasce sociali prima di allora ignorate.

Per capire come e quanto la Nintendo sia diversa dagli altri basta prendere in mano una delle loro macchine e guardarla. Tutti i produttori di dispositivi elettronici al mondo in questi anni hanno asciugato le loro forme fino all’eccesso. Oggi siamo alle lame di alluminio e vetro degli smartphone, lucide e lussuose tanto che sembra un peccato maneggiarle con troppa convinzione. Un Nintendo DS è l’antitesi di tutto questo. Ci sono ancora controlli a slitta, analogici, come quello del volume; c’è il 3D senza occhialini, che funziona bene, consuma poco e non è morto come tutti gli altri 3D; ci sono batterie che durano giorni, mentre per qualsiasi altro dispositivo portatile quello delle batterie è un problema; c’è un senso di compattezza plasticosa che mette a proprio agio, fa venire voglia di usare a piacere.

La Nintendo pensa e ha sempre pensato i videogiochi come espansione dei giocattoli. Agli occhi di chi è abituato ai videogiochi contemporanei, alla loro grafica e al loro linguaggio, un titolo molto amato dai fan Nintendo – prendiamo Pikmin ad esempio – può sembrare un sciocchezza infantile piena di colori. In realtà maestri come Shigeru Miyamoto e Satoru Iwata (nato come sviluppatore di giochi per l’azienda, prima di esserne assorbito) hanno costruito un’idea di videogioco che si basa su equilibri sottilissimi, insieme molto larghi e disponibili per i giocatori di tutte le età, e straordinariamente accurati e puntuali per gli appassionati.

Chi gioca vede solo facilità, bellezza, morbidezza di linee e dinamiche; chi guarda più in profondo vede idee di progetto innovative e solidissime, nascoste nell’ergonomia generale. Con questa ricetta l’azienda di Kyoto ha saputo godere per decenni insieme di un successo molto popolare e di un fanatismo rigoroso da maniaci.

La console Game Cube della Nintendo esposta all’E3 di Los Angeles, il 18 maggio 2005. (Mike Fanous, Gamma-Rapho/Getty Images)

La notizia della morte di Iwata non arriva in un momento facile. All’ultimo E3 di Los Angeles, mentre altri si scannavano a suon di novità presenti e future, la Nintendo ha mostrato qualche delizia per un pubblico ristretto, facendo intendere che dietro l’angolo ci fossero sorprese. L’attuale console domestica Wii-U, uscita da qualche anno, è stata un passo falso, soprattutto se si pensa che viene dopo la valanga Wii. Facendo mente locale sul numero di case in cui ciascuno di noi ha visto la Wii, e il fatto che già solo la parola Wii-U lascia un po’ confusi, si coglie molto bene il problema.

Per il 2016 è attesa una nuova piattaforma che potrebbe di nuovo cambiare tutto, rimescolare ulteriormente le carte. C’è chi dice che sarà una console e insieme un tablet, oppure una console e insieme un cellulare. Ma sono solo voci: la Nintendo non parla, non svela, non fa trapelare, non lo ha mai fatto e non lo farà mai, è il suo lato piemontese.

Contemporaneamente l’azienda ha ufficializzato accordi con Universal per la costruzione di parchi a tema con le sue proprietà intellettuali. E questa è un’apertura che ha dato insieme l’impressione di una corsa ai ripari, della fine di una gelosia cronica nei confronti del marchio, e di enormi potenzialità di espansione e ricavi futuri. È indubbio che l’idea di un parco con un Mario alto alcune decine di metri, da visitare come fosse una Statua della libertà, fa girare la testa.

Qualche giorno fa è uscito nei negozi Yoshi woolly world, un videogioco a piattaforma che ha per protagonista il draghetto Yoshi in un mondo di lana interamente fatto a maglia. L’idea di usare i tessuti in contesti videoludici, rimandando al mondo reale tramite superfici e consistenze, e non imitandolo direttamente, non è originale: altri l’hanno sfruttata anni fa con risultati sorprendenti. Ma la Nintendo non è interessata a quello che fanno gli altri, se non in termini di quote di mercato e ricavi. Se la sua versione di un gioco fatto di lana arriva sei anni dopo LittleBigPlanet (Media Molecule, Sony), non importa. Perché in una certa misura quello che non è della Nintendo per la Nintendo non esiste. Così Yoshi woolly world, presentato in un momento in cui altri avrebbero perso la compostezza per fare qualcosa di clamoroso, è sicuramente prevedibile e non sconvolgente, ma anche bello, classico ed elegante come sanno fare solo a Kyoto.

Nei negozi di giocattoli giapponesi sono comunque in vendita i mazzi di hanafuda Nintendo per sfidarsi a koi-koi tra amici. Costano poco e sono fatti benissimo.

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