17 maggio 2016 13:50

Cos’è. È il nuovo film di Paolo Virzì scritto insieme a Francesca Archibugi, e ha per protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. La pazza gioia racconta qualche giorno nella vita di due donne psicopatiche, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti). Beatrice è una ricca affetta da sindrome bipolare che è stata sposata con un avvocato vicino alla classe dirigente dell’epoca berlusconiana, ma poi ha avuto una relazione tormentata e distruttiva con un criminale. Donatella è una ragazza umile affetta da depressione, che vive nel tormento di un figlio dato in adozione e all’ombra di un padre inetto (Marco Messeri) e di una madre (Anna Galiena) incapace di amore.

Le due sono ospitate in una villa di campagna, una comunità terapeutica dove vivono operatori sanitari e alcune decine di pazienti, ma fuggono insieme e passano alcuni giorni nella libertà delle rispettive ossessioni. La musica è di Carlo Virzì, il montaggio è di Cecilia Zanuso e la fotografia è di Vladan Radovic.

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Com’è. È un film di Virzì, il migliore regista di attori che abbiamo, quindi gli attori sono gestiti come al solito divinamente, professionisti e non. Basti notare che nella villa ci sono attrici e pazienti vere mescolate, e non è per niente facile capire quali siano le une e quali le altre. La pazza gioia è anche un film di Francesca Archibugi, quella del Grande cocomero, quindi è più apertamente sentimentale rispetto ad altri film di Virzì, ma anche meno spinto verso il confronto tra elementi contrastanti, più pacificato.

Ciò detto, questo è un film che parla di malattia mentale ed è ambientato nel 2014, quando gli ospedali psichiatrici giudiziari erano ancora aperti. Quindi tocca temi molto delicati, che prevedono automaticamente il rischio di scivolare nel pietismo o nello schema consolatorio dell’antipsichiatria, ma non ha mai nemmeno un tentennamento. Invece è onesto, sentimentale e generoso: onesto nel mostrare la malattia e la sua gestione quotidiana, sentimentale nella relazione con i personaggi e le loro manie, generoso nello slancio con cui gestisce tutto questo materiale umano senza avere paura di nessun tema.

Valeria Bruni Tedeschi nella parte della milionaria decaduta, ossessiva, sexy e completamente fuori di testa, novella Valentina Cortese, è impeccabile. Micaela Ramazzotti è ugualmente efficace, completamente diversa nel carattere, nel fisico, nella recitazione, nel personaggio e nella patologia. Le due non si somigliano mai e si fanno sempre luce a vicenda: non è un risultato alla portata di molti.

Merita una menzione speciale la fotografia di Vladan Radovic, che non ha paura di farsi documentaristica quando descrive la familiarità della comunità terapeutica, per poi diventare più pittorica e sognante quando le protagoniste escono per provare a vivere da sole.

Perché vederlo. Perché è un film di Virzì: si va, poi può piacere o meno ma si va. È anche un film che tratta un argomento complicatissimo nel nostro paese, dove tanto la cultura cattolica quanto un pezzo di pensiero antagonista hanno fatto di tutto per negare la psicopatologia e la sua terapia. In La pazza gioia c’è invece un senso di quotidianità della malattia mentale, di difficoltà umana e necessaria ma normale, di cui abbiamo bisogno (molto credibile anche Valentina Carnelutti, la terapeuta); anche perché siamo il paese di Franco Basaglia, che è una cosa da non dimenticare e di cui andare fieri.

Oltre alla bravura delle due protagoniste e del cast intero, di questo film si può amare proprio il sentimentalismo, la vocazione all’empatia, la voglia di suscitare commozione senza trucchi. Anche se il tocco di Francesca Archibugi costringe la fabbrica delle lacrime a un superlavoro, il risultato dà grandi soddisfazioni.

Perché non vederlo. Il film a mio parere ha due difetti. Il primo è la pancia, la mezz’ora centrale, dove, rispetto a un inizio e una fine senza un difetto, si arranca un po’, e gli eventi si susseguono perdendo un po’ di coesione d’insieme. E poi gli spettatori di Virzì sono abituati ai suoi contrasti forti, gestiti con quel polso che evita le piazzate. Ecco, qui i contrasti forti quasi non ci sono. È un Virzì per sua stessa ammissione più tranquillo, più placido. Per alcuni questa versione del suo cinema che prende per mano lo spettatore può risultare troppo educata e consolatoria.

Una battuta. Nella vita la cosa importante sono i contatti.

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