13 maggio 2015 15:14
Un’operaia della ItacLab di San Benedetto del Tronto, maggio 2012. (Marta Sarlo, Contrasto)

Uno spettro si aggira per l’Europa, quello dell’automazione. L’allarme è scattato la scorsa estate, quando i ricercatori di Bruegel, influente think-tank con sede a Bruxelles, hanno calcolato che tra il 45 e il 60 per cento della forza lavoro europea rischia, nel corso dei prossimi decenni, di essere sostituita da robot governati da sofisticati algoritmi.

Come raccontato anche nell’articolo di John Lanchester apparso su Internazionale, lo sviluppo tecnologico ha ormai condotto alla possibilità di produrre automi in grado di svolgere i compiti di un’ampia fascia di persone oggi occupate in lavori dal contenuto ripetitivo. Ed è proprio questo il crinale che separa i sommersi dai salvati, nella geografia delle vulnerabilità emersa durante la crisi degli ultimi cinque anni. Come le famiglie di Tolstoj, ognuna infelice a modo suo, i lavoratori italiani sono stati toccati in maniera molto eterogenea dalla recessione. I dati Istat-Eurostat sull’occupazione per categoria professionale parlano chiaro. La contrazione occupazionale degli ultimi tre anni, pari a più di 300mila posti di lavoro perduti, si è concentrata esclusivamente sui lavori di routine, sia quelli manuali (operai, addetti alle catene di montaggio, tipicamente toccati dall’automazione), che registrano un -5 per cento, sia quelli intellettuali (per esempio, numerose categorie impiegatizie), anch’essi giù del 5 per cento. L’occupazione è invece perfino aumentata per i lavori non di routine: +0,9 per cento per quelli intellettuali, una categoria che comprende manager e professionisti, e + 5 per cento per quelli manuali, in cui figurano i lavoratori nell’ambito dei servizi.

Anche in Italia, insomma, emergono i primi segnali di una polarizzazione del mercato del lavoro: mentre una piccola categoria di lavoratori altamente qualificati cresce a livello numerico e retributivo, ma non in maniera sufficiente per trainare la ripresa, la classe media smotta verso occupazioni a bassa retribuzione, ma ancora al riparo dall’automazione. È una dinamica che da decenni sta svuotando la manifattura statunitense, dove secondo Carl Frey e Michael Osborne, che a Oxford studiano l’impatto delle nuove tecnologie sul mondo del lavoro, il 47 per cento dei 150 milioni di lavoratori statunitensi potrebbe essere sostituito da robot entro i prossimi vent’anni.

Lo scenario è ancora ipotetico, e questo tipo di transizione richiede notevoli investimenti. Ma il costo dei robot scende di anno in anno: alla fine del 2012 la Rethink Robotics di Boston ha messo sul mercato la prima versione di Baxter, un robot in grado di svolgere una serie molto ampia di compiti manuali rispondendo all’ambiente circostante, al prezzo di soli 25mila dollari. Così, a rimanere esposte sono soprattutto le economie caratterizzate da strutture produttive a bassa specializzazione intellettuale, e quindi più propense alla sostituzione, come quelle della periferia europea. Una distopia luddista che, secondo i calcoli di Bruegel, mette a rischio il 56,1 per cento dei posti di lavoro italiani – cioè poco più di 12 milioni di occupati.

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