09 giugno 2015 12:53

Qualche giorno fa ho scoperto che fudgelling è una parola inglese del settecento che significa “fingere di lavorare mentre in realtà non si sta facendo nulla”, il che dimostra che il fenomeno è tutt’altro che nuovo. In italiano, il Fantozzi di Paolo Villaggio aveva la “giacca civetta”, per indicare una giacca appesa alla sedia dell’ufficio fino a tardi mentre il suo proprietario si sta prendendo una pausa da qualche altra parte. Oggi che il lavoro ci chiede sempre di più, non c’è da meravigliarsi se questa pratica è così diffusa.

Ai fini di un suo recente studio, la ricercatrice Erin Reid ha passato un po’ di tempo in un’anonima società di consulenza statunitense che pretende dai suoi dipendenti una dedizione assoluta: che rispondano alle email anche a mezzanotte, che annullino le feste di compleanno per fermarsi in ufficio e così via. Ha scoperto così che il 31 per cento degli uomini e l’11 per cento delle donne trovano il modo per “dare l’impressione” di essere stacanovisti: spariscono dall’ufficio senza dirlo a nessuno, o si mettono segretamente d’accordo con i colleghi per poter passare un po’ di tempo con la loro famiglia.

E il sistema funziona benissimo. Le persone che chiedono ufficialmente una riduzione del carico di lavoro, soprattutto donne, sono penalizzate. Invece i finti stacanovisti, soprattutto uomini, non sono considerati meno dediti al loro lavoro degli altri, e sono ricompensati di conseguenza. Questo ci ricorda tristemente quanto sia ancora comune il sessismo, ma dimostra anche che non sarà premiato chi lavora instancabilmente, ma chi dà l’impressione di farlo.

È tutta una questione di segnali. Nel caso specifico, tutto sta nel trasmettere il messaggio che si sta lavorando, anche se non si sta facendo nulla. Nelle organizzazioni come quella studiata da Reid, le conseguenze possono essere disastrose, perché alla fine si sprecano energie e tempo solo per mantenere le apparenze.

Ma i segnali sono importanti in quasi tutti i settori. È un po’ inquietante, infatti, pensare a quanta parte di ogni lavoro consiste nel riferire agli altri quello che stiamo facendo – quando siamo in riunione, quando dobbiamo rendere conto a un superiore e così via – piuttosto che nel farlo. Ed è ancora più inquietante che possiamo inviare questi segnali perfino a noi stessi. Come si può definire altrimenti l’abitudine di compilare liste di cose già fatte per poter poi cancellare le voci una a una? O di dedicarsi a cinque compiti inutili alla fine di una giornata improduttiva per avere l’illusione di aver combinato qualcosa?

La triste conclusione che potremmo trarre dai risultati della ricerca di Reid è che dovremmo tutti imparare a essere più machiavellici. Se siamo sovraccarichi di lavoro è inutile chiedere che quel carico ci venga ridotto, è molto meglio provare a fare di meno senza che nessuno se ne accorga. Ovviamente, meglio ancora sarebbe se le aziende non ci imponessero questa finzione, e qui lo studio di Reid apre uno spiraglio di speranza.

Diamo tutti per scontato che le richieste del mondo del lavoro siano inevitabilmente in contrasto con il nostro desiderio di vivere una vita equilibrata. Ma i clienti e i superiori delle persone che fingevano apprezzavano la loro performance quanto quella di tutti gli altri, quindi è chiaro che lavorare un po’ di meno non ha un grande peso per i piani alti.

In poche parole, se i superiori volessero, potrebbero favorire una cultura del lavoro più umana senza sacrificare il rendimento. Quelli che continuano a imporre orari impossibili meritano di essere ingannati.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it