17 febbraio 2015 19:45

Un anno al potere si dovrebbe festeggiare. Sì, ma cosa festeggiare? La più lunga recessione del dopoguerra, da cui nel migliore dei casi l’Italia uscirà solo nel primo trimestre 2015? Una disoccupazione che supera il 13 per cento? Un debito pubblico in aumento (2.135 miliardi di euro rispetto ai 2.069 miliardi del 2013)?

Dodici mesi dopo essere stato incaricato di formare un nuovo governo, Matteo Renzi suscita dubbi e delusioni, e il suo bilancio presenta numerosi punti interrogativi. Molte riforme (del mercato del lavoro, della legge elettorale, delle istituzioni, della magistratura, della pubblica amministrazione) sono ancora in cantiere e questo rende difficile un bilancio globale.
In compenso il bilancio politico appare più contrastato. Questa comunque è la tesi di Christophe Bouillaud, professore di scienze politiche all’Istituto di studi politici di Grenoble, in un articolo della fondazione Jean Jaurès intitolato “Il renzismo e la sinistra italiana”, che sarà pubblicato il 19 febbraio. Dopo aver descritto i numerosi episodi che hanno portato nel 2007 alla formazione del Partito democratico (Pd), nato dalla fusione tra ex comunisti e rappresentanti dell’ala sinistra della Democrazia cristiana, l’autore crea il concetto di “decisionismo democratico”, che anche se molto lontano dall’identità culturale della sinistra, si adatta perfettamente al presidente del consiglio.

Finora Renzi ha cambiato più la sinistra che il paese. Culturalmente allergica al culto del capo, influenzata dalle sue lotte contro il fascismo e Silvio Berlusconi, la sinistra sembra avere più o meno completamente adottato la linea del più giovane dei suoi leader. “Il Pd scopre una situazione che non aveva conosciuto nessuno dei suoi predecessori, cioè l’identificazione tra la sorte del partito e quello di una persona”, scrive Bouillaud. “Da tempo gli altri partiti italiani (…) avevano tendenza a identificare il loro destino con quello del loro fondatore e/o leader, e l’elettorato italiano chiedeva una personalizzazione della politica (…). Ormai il Pd è Renzi”.

Questa tendenza si è accentuata dopo le elezioni europee del maggio 2014, quando il Pd ha ottenuto da solo più del 40 per cento dei voti, diventando il più potente dei partiti di centrosinistra in Europa. Presidente del consiglio non eletto, Renzi ha approfittato di questa vittoria, che deve tutto alla sua personalità e al suo carisma, per presentarsi come unico garante delle riforme, come leader legittimo, mentre tutti gli altri (opposizione di destra e interna) rappresentano per lui il “partito dell’immobilismo”.

Questa dinamica, continua Bouillaud, emargina in primo luogo l’estrema sinistra (radicali, ecologisti, intellettuali), “incapaci agli occhi dell’opinione pubblica di produrre una storia alternativa capace di spiegare le ragioni della crisi italiana e i mezzi per uscirne”. Bisogna inoltre aggiungere che i mezzi d’informazione non danno loro i mezzi per esprimersi.

In questo contesto egemonico e mentre la destra post-berlusconiana è a pezzi, ci si chiede chi nei prossimi anni potrà contendere a Renzi il suo ruolo di leader. Per Bouillaud questa opposizione potrebbe paradossalmente venire dal Movimento 5 stelle, il “cui possibile crollo o dissoluzione non rappresenterà di certo una buona notizia per la sinistra in generale”. In effetti, la “domanda di radicalità da parte di un elettorato che deve affrontare una drammatica situazione economica e sociale potrà venire solo dall’estrema destra dello scacchiere politico italiano”.

A conferma di quest’analisi un sondaggio pubblicato lunedì dal telegiornale di La7 attribuisce ormai alla Lega nord il 15 per cento dei voti, mettendola davanti a Forza Italia di Silvio Berlusconi.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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