26 maggio 2016 17:58

Un film su Pelé. Credo che da ragazzino sarei impazzito. Ma all’epoca ci siamo accontentati di vederlo come attore nell’epico Fuga per la vittoria, senz’altro uno dei migliori film sul calcio, per ironia diretto da un regista degli Stati Uniti dove il football è un’altra cosa. Non so se John Huston fosse un patito di soccer, ma è uno dei grandi del cinema, quindi non c’era da stupirsi. Sarà un caso ma anche Pelé. Birth of a legend è scritto e diretto da Jeff e Michael Zimbalist, due statunitensi. Ma stavolta il cortocircuito c’è e arriva subito. Il film comincia in una specie di favela a Bauru, nello stato di São Paulo, nel 1950: Edson Nascimento gioca con una palla di stracci proprio mentre al Maracanà di Rio de Janeiro, l’Uruguay vinceva il suo secondo mondiale. Una strana favela dove tutti parlano inglese, compreso Seu Jorge che interpreta il padre della leggenda.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Che noia questi puristi che si lamentano se in un film ambientato in Amazzonia nessuno parla in amazzonese… Però oltre che di Pelé, il film parla di vero spirito del Brasile, di tratti distintivi non solo dei calciatori, ma di tutti gli abitanti del Brasile, del senso profondo dell’essere brasiliano e non svedese o francese. Forse per questo il monologo nello spogliatoio di Vincent D’Onofrio (che interpreta il ct brasiliano Vicente Feola) anche se è commovente, sembra un po’ fasullo. Comunque il cortocircuito linguistico verrà cancellato dal doppiaggio. E poi i due Zimbalist sanno quando gettare fumo negli occhi per provocare qualche lacrimuccia, e in generale le sequenze sul campo sono ben realizzate, quasi perfette le ricostruzioni dei gol del Brasile contro la Svezia, nella finale dei mondiali del 1958. Certo di biografie di campioni sportivi ce ne sono altre migliori.

Nel film si parla molto di ginga, danza ancestrale creata intorno al sedicesimo secolo dagli schiavi africani portati sulle coste del nuovo mondo dai portoghesi, da cui discendono la capoeira e il caratteristico stile di gioco dei calciatori brasiliani. Dopo la disfatta del 1950 la ginga era praticamente vietata sui campi di calcio, dove si doveva inseguire e perseguire uno stile di gioco europeo, stop e passaggio (e mazzate a chi provava a fare un dribbling). Tutto molto interessante, però alla ginga sono legati anche i momenti più didascalici del film. Come la sequenza in cui il selezionatore del Santos, Waldemar de Brito, rivela a Pelé chi è davvero Edson Nascimento, cioè il nuovo profeta della ginga. C’è addirittura una frase tipo Star Wars in cui qualcuno dice: “La ginga è molto forte in lui”.

E poi le due sequenze, una all’inizio e una verso la fine che ricordano molto quegli spot che inevitabilmente girano per le tv quando ci si avvicina a un mondiale di calcio. Quella in cui i giocatori della nazionale brasiliana giocano dentro un hotel sembra quasi una citazione del famoso spot con Ronaldo, Romario e Roberto Carlos in aeroporto… (andando a vedere un po’ di questi spot ho scoperto che quello con Cannavaro, Bobby Solo e Rooney con il barbone, fatto per i mondiali in Sudafrica, era firmato nientemeno che da Alejandro Gonzalez Iñárritu).

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Mai stato un fan di Pedro Almodóvar e forse questo è proprio il momento in cui il regista spagnolo ha più bisogno dei suoi fan. Il suo nuovo film, Julieta, ha ricevuto critiche tiepide a Cannes e su di lui si addensano le nubi dei Panama papers. Eppure Pedro non sembra così turbato e va sul sicuro, dritto per la sua strada, proponendoci un bel drammone che ha per protagonista una donna di mezza età, Julieta, che decide di recuperare il rapporto con la figlia Antia (che non vede da più di dieci anni e che di fatto non conosce) raccontandole tutta la verità sul loro passato. Non siete curiosi di sapere quali segreti ha da raccontare Julieta? Non particolarmente? Poche storie, i fan sono pregati di correre al cinema per sostenere il loro beniamino.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Colonia è ambientato in Cile al tempo del golpe di Pinochet. Quindi non ha niente a che vedere con la città tedesca recentemente al centro delle cronache per una notte di capodanno particolarmente calda. La colonia del film di Florian Gallenberger è invece un luogo dove furono confinati alcuni prigionieri politici dopo il golpe militare di Pinochet, in Cile. Colonia quindi entra di diritto nel sempre più ricco catalogo di film che raccontano gli orrori compiuti in America Latina negli anni settanta, dove tanti giovani idealisti sono accorsi sperando di realizzare le loro utopie socialiste e dove invece hanno trovato terreno fertile le più avanzate (almeno per l’epoca) espressioni di fascismo e totalitarismo.

La giovane hostess Lena (Emma Watson) a Santiago del Cile è convinta di poter vivere liberamente il suo amore con Daniel (Daniel Brühl), affascinante fotografo impegnato politicamente, e invece si ritrova nel bel mezzo del colpo di stato di Pinochet. Daniel viene inghiottito dalla famigerata polizia segreta del regime e Lena si getta alla sua disperata ricerca che la porterà nel luogo che chiamano “la colonia della dignità”. La colonia è mandata avanti da Pius, il cui vero nome è Paul Schäfer, un ex predicatore tedesco interpretato da Michael Nyqvist. Il film va avanti a strattoni, si concede licenze, scorciatoie e derapate. Troppe. Una volta che si arriva nella colonia (molto bavarese) gli autori hanno scelto di dividerlo in capitoletti. All’inizio Watson e Brühl sono quasi credibili, dopo una mezz’ora si comincia a sperare che siano due X-men in incognito. Ma purtroppo non è così. Comunque, mentre ci si avvia verso la fine la tensione monta bene ed è un bene che le nefandezze di Paul Schäfer siano state raccontate in un film.

In uscita anche Fiore di Claudio Giovannesi che qualche anno fa si era fatto apprezzare per il suo Alì ha gli occhi azzurri. Giovannesi ha parlato del suo film in Anatomia di una scena.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it