08 maggio 2015 16:58

Quando era piccolo, il nostro figlio minore un giorno mi ha chiesto: “Mamma, quanto si paga per fare il pompiere?”. È rimasto stupefatto quando ha scoperto che funzionava al contrario: cioè che da grande sei pagato per fare cose come andartene in giro su un’autopompa rossa fiammante con i lampeggiatori accesi e le sirene a tutto volume.

Anche dopo che aveva afferrato il concetto base, ogni tanto ci tornava su riferendosi a lavori diversi: “Ti pagano anche per fare QUELLO?… E quell’altro?”. L’età adulta gli sembrava una specie di fantastico mondo dei sogni in cui passavi le giornate indossando una divisa, autorizzato a fare cose divertenti e ricompensato con soldi da spendere in dolci.

Ovviamente, ho paura che il mondo reale lo deluderà orribilmente, non solo perché la maggior parte dei lavori non è affatto divertente come pensava, ma perché quando arriverà ad averne uno, scoprirà che la sua supposizione originale – cioè che si debba pagare per lavorare – era vera. Secondo un recente articolo del Guardian, “in media, una persona fa sette stage prima di trovare un lavoro”. Un altro articolo spiegava che negli Stati Uniti esistono davvero degli stage per cui devi pagare. Nel mondo del lavoro creativo è diventata quasi la norma sentirsi proporre di lavorare per niente. O meglio, scusate, non per niente: per “fare curriculum”. L’idea è che mentre appari, scrivi o canti gratis stai procedendo verso una destinazione immaginaria in cui il tuo lavoro avrà di nuovo un valore monetario.

È un luogo comune dire che nel mondo della musica nessuno riesca più a guadagnarsi da vivere per colpa della pirateria, di Spotify e dei download digitali a basso prezzo. Per quanti articoli brillanti possiamo leggere sul revival del vinile, è improbabile che qualcuno ci si possa arricchire a breve. Sono lamentele che non convincono, se pensiamo a tutte le popstar che continuano a passarsela molto bene, grazie: i Kanye, i Coldplay, gli Sheeran e le Adele, che a quanto pare stravendono e fanno soldi a palate. A chi lavora per un salario minimo o con un contratto a zero ore gireranno parecchio le scatole a forza di sentire i divi del pop lamentarsi delle loro entrate.

Il fatto è che mentre la musica non è mai stata così redditizia per gli artisti di grande successo, quella che si è andata riducendo – com’è successo anche in altri campi – è la fascia intermedia di musicisti che un tempo riuscivano a guadagnarsi da vivere anche senza mai arrivare ai vertici delle classifiche. Non diventavano straricchi, ma tiravano avanti e godevano di una certa stabilità. In sostanza, si è ridotta la classe media: quella con carriere durature e case discografiche disposte a finanziare anche gli album non destinati a vendere milioni di copie. Quello che ci resta, oggi, è una specie di “tutto o niente”, per cui o scali le vette più alte o langui miseramente in basso.

Così, quando la gente mi chiede “Vorresti che i tuoi figli intraprendessero una carriera nella musica?”, resto perplessa, come immagino che lo fossero i miei genitori. Io ero stata la prima, in famiglia, ad andare all’università, e quando invece di avviarmi verso una carriera rispettabile di insegnante o giornalista ho formato una band, si sono comprensibilmente preoccupati. Gli sembrava che stessi buttando via un tipo di sicurezza che loro neppure si sognavano, e che stessi rinunciando a opportunità che apparivano straordinarie agli occhi di chi aveva lasciato la scuola a 15 anni con ben poche qualifiche o prospettive.

Alla fine, a Ben e a me è andata più che bene, e se non altro saremo in grado di aiutare i nostri figli mentre cercano la loro strada. Noi li incoraggeremo qualsiasi cosa scelgano, e li scoraggeremo dal farsi un’idea troppo rosea del lavoro creativo. Ecco il programma che gli abbiamo realizzato per il giorno del “Porta al lavoro i tuoi figli”: una puntata negli uffici della Buzzin’ Fly Records di Ben, dove saranno messi a infilare cd in buste imbottite e portare mix di musica dance all’ufficio postale; una breve sosta dietro al bancone di un grande negozio di dischi; e il resto della mattinata passato a imparare a microfonare una batteria.

Ma chissà che cosa faranno, alla fine. Una ha già cambiato strada ed è attratta dalla scienza: ha fatto uno stage di una settimana in un laboratorio, ed è entusiasta delle provette quanto io, alla sua età, lo ero dei singoli a 45 giri. Ma quello che ci auguriamo per loro, come tutti i genitori, è soprattutto che trovino qualcosa da fare per cui sarebbero disposti a pagare, e che alla fine siano così fortunati da trovare qualcuno che li paghi per farlo.

(Traduzione di Diana Corsini)

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