18 luglio 2014 16:31

Nella notte tra il 17 e il 18 luglio la radio palestinese ha diffuso una notizia: “Questo pomeriggio le forze occupanti hanno represso una manifestazione di protesta vicino al checkpoint Ofer”, a est di Ramallah. Lo speaker, però, non ha rivelato che un’ora prima circa trenta poliziotti palestinesi avevano fermato duecento manifestanti diretti all’insediamento di Beit El per esprimere solidarietà alle vittime della Striscia di Gaza e per protestare contro l’offensiva militare israeliana. “Se fossimo stati in seimila la polizia non si sarebbe neanche presentata”, ha commentato qualcuno. In effetti il problema non è stato tanto la repressione delle proteste, quanto la scarsa partecipazione.

Negli ultimi dieci giorni sono state organizzate varie manifestazioni di solidarietà verso la Striscia di Gaza. Quasi ogni giorno in Cisgiordania i giovani si riversano nelle strade dopo la preghiera della sera e si scontrano con i soldati. Se decine di migliaia di persone avessero voluto unirsi a loro, di sicuro avrebbero trovato il modo di farlo. Ma non succede, e non solo per paura della repressione della polizia palestinese.

Le immagini e i resoconti di quello che succede a Gaza hanno parzialmente oscurato le notizie degli scontri in Cisgiordania, che hanno causato due morti e diversi feriti, raid e arresti di massa da parte dei soldati israeliani in Cisgiordania. Il numero delle persone arrestate dal 12 giugno (il giorno in cui sono stati rapiti e uccisi i tre ragazzi israeliani) è superiore a mille. I palestinesi sono convinti che la maggior parte delle persone fermate non abbia niente a che vedere con il rapimento, e che gli arresti siano motivati soprattutto dal desiderio di vendetta e di intimidazione.

In molti pensavano e speravano che la rivolta scoppiata a Gerusalemme Est subito dopo l’omicidio, il 2 luglio, del giovane palestinese Mohammed Abu Khdair avrebbe coinvolto anche la Cisgiordania, ma non è stato così. Le manifestazioni non hanno superato il muro di separazione.

Nella storia palestinese, le proteste sono sempre state un parafulmine dello scontento sociale e politico. Attraverso la protesta il discorso politico esce dalle stanze del potere e dagli schermi dei computer, entrando nella sfera pubblica. La protesta è il naturale strumento democratico per sfidare l’aberrazione di una vita sotto occupazione. È una specie di sondaggio d’opinione, un mezzo per mobilitare le coscienze e una via di comunicazione diretta con la leadership palestinese.

La “mancanza di fiducia” è la spiegazione più diffusa per quello che sta succedendo in questi giorni. Un’attivista di sinistra che ha partecipato a una manifestazione il 16 luglio mi ha detto di aver cercato di coinvolgere sua figlia, ma la ragazza - “molto più estremista di me”, a detta della madre - non ha voluto. “Manifestare non serve a niente, non vale la pena pagare con morti e feriti”, ha spiegato la ragazza. L’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e le sue istituzioni hanno un atteggiamento schizofrenico: da una parte denunciano l’occupazione, dall’altra accettano le sue regole. Mentre la radio ufficiale dell’Anp trasmette canzoni di propaganda che parlano di martiri e di liberazione, le agenzie di sicurezza di Ramallah collaborano a dare la caccia ai militanti di Hamas. La sera del 16 luglio le Forze palestinesi di sicurezza preventiva hanno impedito alla tv Palestina Oggi di trasmettere le immagini in diretta che mostravano alcuni loro agenti mentre disperdevano un gruppo di giovani manifestanti di Jenin che cercava di raggiungere il checkpoint militare.

L’attuale leadership palestinese non ispira la fiducia necessaria allo scoppio di una rivolta. “Per lanciare quella lotta popolare contro l’occupazione che tutti invocano servono un progetto e molta pazienza”, spiega Ifaf Ghatasheh, dell’ufficio politico del Partito del popolo palestinese (ex partito comunista). “Ma nessuno crede che l’Olp e Abu Mazen siano in grado di elaborare una strategia efficace. Almeno non ora, e non senza cambiamenti radicali”.

Sotto Abu Mazen si è affermata una forma di governo autoritario in cui il leader prende le decisioni senza tener conto dell’opinione degli altri esponenti del partito Al Fatah e dell’Olp, e senza consultare le persone che hanno il polso dell’opinione pubblica. Dall’inizio dell’escalation militare molti avrebbero voluto consigliare ad Abu Mazen di appoggiare Hamas quando chiedeva più garanzie per il cessate il fuoco e, allo stesso tempo, di ribadire la necessità di evitare nuovi spargimenti di sangue e distruzione.

C’è un contrasto evidente tra la figura di Abu Mazen come solido statista impegnato a negoziare un cessate il fuoco e la percezione che il popolo palestinese ha di lui. Molti palestinesi lo considerano un tiranno incapace, un semplice contractor dell’occupazione.

Ma la mancanza di fiducia verso Abu Mazen si estende all’intera classe politica palestinese, segnata dalla rivalità tra Hamas e Al Fatah, che nell’ultimo mese è diventata sempre più accesa. Al Fatah è accusata di non mostrare abbastanza solidarietà nei confronti di Gaza. Al Fatah non può criticare pubblicamente Hamas perché la popolazione sostiene il lancio di razzi, un simbolo della resistenza palestinese al potere israeliano. Al Fatah non può appoggiare il lancio di razzi perché questo contrasterebbe con la posizione ufficiale di Abu Mazen e consacrerebbe Hamas come la vincitrice della gara a chi è più patriottico, valoroso ed efficace.

Anche la distanza geografica tra i due territori contribuisce al contenimento delle proteste. In Cisgiordania e a Gerusalemme Est l’occupazione è vissuta diversamente rispetto a Gaza. E anche la repressione israeliana si manifesta in modi diversi. Senza una strategia e la fiducia nei leader, difficilmente i palestinesi riusciranno a far crescere la loro protesta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it