07 giugno 2013 07:00

Recep Erdoğan ha commesso un grave errore di valutazione. Lunedì, prima di partire per un viaggio in Maghreb che non aveva voluto posticipare nonostante le manifestazioni che scuotevano il suo paese, aveva promesso che l’emergenza sarebbe rientrata al suo ritorno. Evidentemente si sbagliava.

Giovedì sera il primo ministro ha trovato una Turchia più incerta che mai. Le manifestazioni si moltiplicano in diverse città del paese, e il centro di Istanbul somiglia ormai alla Sorbona del 68, con i suoi gruppi di discussione, le sue mense improvvisate i suoi stand politici. Molte persone si sono accampate nel parco della discordia, dove tutto è cominciato e dove Erdoğan vorrebbe inviare le betoniere per costruire un centro commerciale. Mercoledì due sindacati hanno sfilato per le strade della capitale.

Il movimento di protesta sta crescendo, e la borsa di Istanbul ha perso dieci punti in una settimana. Dopo aver perso terreno nei primi giorni della contestazione e aver rimontato quando il potere sembrava pronto a negoziare, il mercato azionario è nuovamente crollato nella giornata di giovedì, quando Recep Erdoğan ha promesso da Tunisi che non avrebbe ceduto ai “terroristi”. Poco fiduciosi in una soluzione della crisi, gli investitori turchi temono per il loro denaro, anche perché molti turisti stanno annullando le loro prenotazioni e i capitali stranieri abbozzano una ritirata.

Il primo ministro deve assolutamente trovare il modo di calmare le acque. Il paese è in uno stato di emergenza, ma per Erdoğan l’equazione è terribilmente difficile. Se cercherà di prendere tempo, per esempio nominando una commissione incaricata di rivedere il progetto del parco Gezi, rischia di incoraggiare i manifestanti, che a quel punto penserebbero di poter vincere la partita e insisterebbero sulle altre rivendicazioni (a partire dal licenziamento dei vertici della polizia). Per il primo ministro la scelta di fare un passo indietro sarebbe dunque estremamente rischiosa, ma d’altro canto se ordinasse alla polizia di stroncare il movimento con la forza nessuno sa cosa potrebbe accadere in un paese dove l’appoggio ai manifestanti continua a crescere.

Entrambe le opzioni appaiono sconsigliabili, e la terza, tergiversare sperando in un deterioramento della protesta e nella stanchezza dell’opinione pubblica, è altrettanto problematica. L’attesa, infatti, spaventerebbe ulteriormente gli investitori, e inoltre non è escluso che il movimento possa reggere la prova del tempo.

Il nocciolo del problema è che l’Akp, il partito al potere che dal 2002 ha vinto tre elezioni consecutive ed è passato dall’islamismo all‘“islamo-conservatorismo”, ha un disperato bisogno di reinventarsi ancora una volta. Gli elettori riconoscono all’Akp il merito di aver assicurato una stabilità politica al paese, rispedito i militari nelle caserme e favorito un periodo di forte crescita. Tuttavia il partito, dopo aver portato la Turchia nel nuovo millennio, è ancora indeciso tra un ulteriore scarto verso il centro (come vorrebbero molti dirigenti) e il passaggio definitivo all’ordine morale e religioso che Erdoğan non vede l’ora di imporre. Nel primo caso il partito si spaccherebbe, mentre nel secondo la Turchia laica scenderebbe definitivamente sul piede di guerra. L’Akp deve scegliere alla svelta, ma al momento non sembra neanche lontanamente pronto a farlo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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