13 maggio 2014 22:23

Alla prima edizione del Festival di Cannes, nel 1946, le copie della maggior parte dei film in concorso - mai visionati da un comitato di selezione, come succede oggi, ma proposti direttamente dalle delegazioni governative dei paesi invitati a partecipare - arrivarono meno di una settimana prima dell’inizio del festival.

Alcune pizze erano in condizioni disastrose a causa del calo della qualità della celluloide durante la guerra. Gli organizzatori furono costretti ad arruolare alcuni giardinieri municipali di Cannes per dare una mano ai proiezionisti stremati. Quando uno di loro scambiò l’ordine di due bobine del film russo La grande svolta di Fridrich Ermler, scatenò un incidente diplomatico. Ma quando il giardiniere-proiezionista si scusò di persona con la delegazione russa e offrì di organizzare un’altra proiezione, fu insignito della medaglia d’oro sovietica per i servizi alle arti e alla pace.

È solo uno dei tanti aneddoti dei primi anni improvvisati di un festival che oggi è una macchina collaudata, nonché un brand globale. Ma questo strano incontro tra il giardiniere

cannois e gli apparatchik culturali di Mosca illumina anche un aspetto importante di un festival di cinema come Cannes o Venezia, Berlino, Locarno o Toronto. Chiunque frequenta i festival viene per forza globalizzato, per una volta nel senso buono della parola. Per fare solo un esempio, non sono mai stato in Iran, ma l’Iran mi ha toccato, mi ha fatto commuovere, pensare, a volte arrabbiare attraverso il lavoro di registi come Abbas Kiarostami, Jafar Panahi, Asghar Farhadi e altri.

Certo, non è un viaggio a senso unico: i festival alimentano contatti e creano reti di sostegno per registi e altri operatori del settore curiosi di imparare, alla ricerca di finanziamenti o consensi dei critici (il primo spesso dipende dal secondo), bisognosi di riconoscimenti che gli permettano di continuare a lavorare in paesi in cui la libertà di espressione non è garantita. A volte, data la trasportabilità del mezzo, un film può arrivare a un festival anche se al regista non è consentito viaggiare: è successo con [This is not a film][1] di Jafar Panahi, copiato su una chiavetta usb fatta uscire da Teheran nascosta all’interno di una torta e poi proiettato a Cannes nel 2011.

Da anni sono travel writer e critico cinematografico. Qualcuno penserà forse che è una combinazione strana, come scrivere, che so, di medicina e opera lirica, ma per me sono due facce della stessa medaglia: sempre di viaggi si tratta.

Ecco, alla vigilia di Cannes, cinque tra i viaggi cinematografici che aspetto con più ansia quest’anno.

  • **Mali, Timbuktu di Abderrahmane Sissako **(In concorso)

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Davanti al fitto calendario festivaliero non è sempre facile combinare gli incontri con gli amici. “Mercoledì sera c’è solo il film africano”, mi ha scritto un’amica di Londra. “Potrebbe essere un buon momento per cenare insieme?”. E no. È vero che l’anno scorso il quasi obbligatorio (e quasi sempre unico) film africano in concorso - [GriGris][2] del ciadiano Mahamat Saleh Haroun - non era un granché. Ma quest’anno ci tengo a vedere Timbuktu. L’ultimo film di Sissako, mauritaniano ma cresciuto a Mali, era [Bamako][3], del 2006 – originale intreccio a metà tra un’arringa legale contro Banca mondiale e Fondo monetario internazionale e dramma sulle conseguenze del neocolonialismo. Timbuktu è tratto dalla storia vera di una coppia lapidata a morte davanti ai figli nel villaggio di Aguelhok, nel nord del Mali occupato dai guerriglieri islamisti, per il “crimine” di non essere sposati. Il regista ha dichiarato: “Devo raccontare questa storia, nella speranza che nessun bambino debba mai imparare la stessa lezione in futuro: che i loro genitori possano morire solo per essersi amati”. Una curiosità, poi: chissà se al festival di Ouagadougou i critici africani si organizzano per andare a cena la sera in cui c’è “solo il film europeo” in programma?

  • **Ucraina, Maidan di Sergei Loznitsa **(Fuori concorso)

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Il road movie bizzarro e onirico [Schastye moe][4] (La mia gioia), del regista ucraino Loznitsa, è stato per me una delle rivelazioni del festival del 2010. Poi c’è stato un giallo esistenziale ambientato durante la seconda guerra mondiale, Anime nella nebbia, applicazione drammatica del detto di Robert McNamara che la guerra è sempre una specie di foschia. Questo documentario si preannuncia un’opera molto più diretta, anche se non c’è da escludere qualche fumo ideologico. Quando cominciarono le proteste in piazza Maidan a Kiev, nel novembre del 2013, Loznitsa scese fra i dimostranti con una cinepresa digitale e cominciò a filmare. Era ancora lì nel marzo di quest’anno quando il presidente Janukovič è fuggito. Il film è il risultato di questi cinque mesi di riprese.

  • Alpi francesi, Turist di Ruben Östlunds (Un certain regard)

Quanto mi piacciono i film di questo giovane regista svedese. Non ho visto il primo, [Gitarrmongol][5], ma sia [De ofrivilliga][6] (Involuntary, 2008) sia [Play][7] (2011) erano degli esperimenti psicologici sul condizionamento di gruppo tradotti in dramma: tutti e due a volte difficili, a volte crudeli, ma magnetici. Östlunds nasce come regista di ski video, filmati sugli sport invernali. In Turist, si ributta sulle piste con la storia di una famiglia svedese in vacanza che viene sconvolta dalla reazione istintivamente egoista del padre davanti a una slavina. Con questo film il regista ha annunciato che vuole “prendere l’anima nordica per la gola”. M’invita a nozze.

  • Argentina, Relatos selvajes, di Damian Szifron (In concorso)

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Alzi la mano chi conosceva già questo regista argentino trentottenne. Io no. Finora ha fatto soprattutto serie televisive a Buenos Aires. Ma il direttore generale del festival Thierry Frémaux, che non si dà normalmente all’iperbole, durante la conferenza stampa di presentazione di Cannes 2014 ha definito Relatos selvajes “un film incredibile”. Altro buon augurio: la produzione argentino-spagnola sfoggia la firma dei fratelli Almodovar. Terzo: la presenza del sempre guardabile Ricardo Darín in uno dei ruoli principali. Ecco quanto scrive il distributore internazionale del film: “Relatos selvajes (Racconti selvaggi) è una commedia costituita da sei racconti separati. La ricerca e le vertigini del successo, la concorrenza, la disuguaglianza del mondo in cui viviamo: tutte queste cose provocano stress e depressione in molte persone. Alcune scoppiano. Questo film è la loro storia”. Incrociamo le dita, è ora che una commedia vinca a Cannes.

  • Maremma toscana, Le meraviglie di Alice Rohrwacher (In concorso)

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

L’esordio della sorella dell’attrice Alba, Corpo celeste, fu quasi più apprezzato all’estero che in Italia. Forse perché era un film scomodo e spigoloso sull’adolescenza, difficilmente classificabile, per niente raicinemaizzato come troppi film di giovani registi italiani che vogliono fare carriera (anche se è coprodotto da Rai Cinema: be’, qualcosa di buono ci passa ogni tanto). Il seguito (con la stessa coproduzione) si profila un film autobiografico, dato che parla di una famiglia di quattro sorelle che crescono nelle campagne maremmane con madre italiana e padre tedesco apicoltore, proprio come la famiglia di Alice e Alba. Non vedo l’ora di vederlo: se conferma la promessa del film di esordio, l’Italia potrà finalmente vantare di avere di nuovo una regista femminile di livello mondiale dopo la generazione Cavani-Wertmuller. E forse anche un filo sopra.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it