09 settembre 2015 17:04

Il Nordafrica e il Medio Oriente stanno affrontando emergenze diverse e complesse, senza precedenti. Emergenze che saranno sfide difficili da superare anche nel 2015. Queste regioni sono oggi luogo di partenza, di transito e di arrivo per i migranti e i profughi. Molti, durante il loro viaggio pericoloso, in particolare via mare, sono vittime di traffici e di ingressi irregolari.

Raramente l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) si è mostrato così preoccupato: secondo l’ultimo rapporto, nel 2014 è stato registrato il più forte aumento nel numero di profughi nel mondo. Più di 270mila migranti sarebbero entrati in modo irregolare in Europa nel 2014 attraverso il Mediterraneo, mediante le attività dei trafficanti. Dal 2000, almeno 29mila persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Questa tendenza si è aggravata in modo significativo negli ultimi anni a causa dei conflitti e delle difficili condizioni di vita in numerosi paesi del Nordafrica e del Medio Oriente. Nonostante siano ben consapevoli di rischiare la vita, migliaia di persone di tutte le età tentano di arrivare in Europa attraversando il Mediterraneo a bordo di imbarcazioni sovraccariche, in mano a trafficanti senza scrupoli. Il viaggio è pericoloso: nel 2014 più di tremila persone sono morte durante il viaggio o sono considerate disperse.

Nel 2013, un’imbarcazione è naufragata nei pressi dell’isola italiana di Lampedusa: 366 persone sono morte in quel naufragio. Poco dopo, la marina italiana ha avviato un’operazione di ricerca e salvataggio di migranti in mare chiamata Mare nostrum (il nome con cui gli antichi romani chiamavano il Mediterraneo); con quest’operazione sono state dispiegate delle motovedette nelle acque internazionali e non solo in quelle italiane, con l’obiettivo di prevenire altri naufragi e altri morti.

Mantenere alta la guardia

Mare nostrum era gestita in coordinamento con l’operazione Hermes di Frontex, l’agenzia degli stati membri dell’Unione europea, che ha l’obiettivo di mettere in sicurezza le frontiere esterne dell’Europa e lottare contro la migrazione. Le ong attive nella difesa dei diritti umani criticano l’operato dell’agenzia, come dimostra la campagna Frontexit.

Dopo un anno di attività e 150mila vite salvate, Mare nostrum è stata chiusa. L’Italia ha denunciato i costi dell’operazione, che ha dovuto sostenere quasi del tutto da sola: su una spesa di circa nove milioni di euro al mese, Mare nostrum ha beneficiato di un sostengo finanziario limitato da parte della Commissione europea (circa 1,8 milioni di euro provenienti dal Fondo d’azione esterna). Malgrado le ripetute richieste d’aiuto inviate dall’Italia agli altri stati membri dell’Ue, nessuno ha fornito dei contributi finanziari.

L’operazione Triton è l’erede di Mare nostrum. Gestita da Frontex, l’agenzia dell’Ue che si occupa delle frontiere esterne, Triton è concentrata soprattutto sulla protezione delle frontiere. Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, aveva esposto il mandato dell’operazione dichiarando al quotidiano britannico The Guardian nell’aprile del 2015:

Triton non può essere un’operazione di ricerca e salvataggio. Intendo dire che nel nostro piano operativo non possiamo prevedere in modo proattivo la ricerca e il salvataggio. Queste attività non fanno parte del mandato di Frontex e, a mio modo di vedere, non rappresentano nemmeno il mandato dell’Unione europea.

Questa dichiarazione è arrivata qualche giorno dopo che in acque territoriali italiane è naufragata un’imbarcazione che trasportava centinaia di persone, causando 800 morti. Intanto, le cifre hanno suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica: dal 2014 al 2015 è aumentata di dieci volte la possibilità che una persona muoia nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo.

Un migrante sulla nave Bourbon Argos di Medici senza frontiere, vicino alle coste libiche, il 7 agosto 2015. (Darrin Zammit Lupi, Reuters/Contrasto)

Il numero di morti nella traversata del Mediterraneo è diminuito in modo significativo tra maggio e giugno del 2015, una conseguenza immediata e positiva della ripresa delle operazioni di ricerca e salvataggio rilanciate in seguito a una decisione presa in ambito europeo all’inizio di maggio. Nel frattempo, non si deve abbassare la guardia, come sottolinea l’Unhcr. Cosa ci dice il rapporto dell’Unhcr sui profughi e richiedenti asilo nel 2014? Cosa dicono i dati relativi ai paesi del Medio Oriente e del Nordafrica?

Nordafrica

L’instabilità che continua a caratterizzare alcune aree della regione, in particolare la Libia, genera movimenti irregolari verso l’Europa. Dall’inizio del 2014, gli uffici dell’Unhcr diffusi in tutto il Nordafrica hanno rilevato un aumento del numero di richiedenti asilo. I problemi attuali in alcuni paesi [della regione] hanno dato luogo a una maggiore necessità di protezione per l’aumento del numero di profughi e di richiedenti asilo arrestati o in detenzione; questo vale soprattutto nel caso delle persone provenienti dall’Africa subsahariana. Anche l’attività terroristica nel Sahel e nel Sinai e gli scontri tra milizie rivali in Libia hanno danneggiato le operazioni dell’Unhcr, riducendo la possibilità di accesso all’asilo”.

Nessun paese del Nordafrica dispone di leggi che regolamentano l’accesso all’asilo né di istituzioni dedicate alla gestione delle richieste d’asilo. Queste attività sono di conseguenza svolte dall’Unhcr: gli uffici locali dell’agenzia sono le sole istituzioni che decidono sull’attribuzione dello status di rifugiato agli stranieri che ne fanno richiesta.

I centomila profughi e richiedenti asilo in Algeria non hanno accesso a un lavoro e rischiano la detenzione o di essere privati della libertà. Più in generale, l’instabilità e l’insicurezza in Nordafrica, combinate con le misure di repressione più severe e le condizioni più restrittive per l’accesso all’asilo adottate dai paesi dell’Ue, hanno contribuito ad aumentare il numero di richieste d’asilo in Algeria, in particolare da parte di siriani.

Il Marocco e la Tunisia hanno un numero di profughi e richiedenti asilo comparabile, nonostante le differenze in termini di popolazione e di situazioni politiche.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Come in Algeria, i siriani sono i profughi più numerosi anche in Egitto. Tuttavia, non per questo Oum el-Dounia è un rifugio accogliente: detenzioni arbitrarie, deportazioni e abusi nei confronti dei profughi sono abbastanza comuni. Come negli altri paesi della regione, l’Egitto “ha” i suoi profughi, il cui numero è aumentato nel 2014, superando i 25mila individui.

L’instabilità continua della Libia, che si traduce in divisioni politiche, fallimento delle istituzioni, scontri, attacchi contro i civili e criminalità, ha causato 500mila sfollati interni al paese. La sicurezza interna al paese si è ulteriormente deteriorata all’inizio del 2015: questo conflitto è tuttora in corso e continua a provocare lo sradicamento di una parte significativa della popolazione libica.

Iraq, Siria e Yemen

L’Iraq è in una situazione molto difficile, con iracheni di ritorno dalla Siria, siriani che cercano rifugio in Iraq e iracheni che fuggono dagli scontri e dalle atrocità commesse nel loro paese. Il problema più preoccupante dell’Iraq rimane l’attuale crisi dei profughi interni. Nel 2014, l’Unhcr ha stimato che il 90 per cento della popolazione irachena che rientra nelle competenze dell’Unhcr è costituito da profughi interni.

I profughi interni iracheni rappresentano oggi quasi il 17 per cento della popolazione complessiva. Questa crisi umanitaria ha un impatto profondo su diversi servizi, tra cui l’accesso alle cure per la popolazione nel suo complesso, profughi compresi.

L’Unhcr ha di frequente constatato carenze di farmaci di base nelle strutture sanitarie pubbliche, mentre gli ospedali devono gestire un numero elevato di pazienti. Gli alloggi e i campi per i profughi interni sono sempre più sovraffollati e incapaci di accogliere i nuovi venuti. In questo contesto, è preoccupante il fatto che l’Unhcr continui ad aver bisogno di 500 milioni di dollari per prevenire una crisi umanitaria ancora più grave in Iraq.

Secondo l’Unhcr, più di 11,5 milioni di siriani si trovano in una situazione che rientra nelle competenze dell’agenzia. Il numero di rifugiati siriani registrati nei diversi paesi del Nordafrica e del Medio Oriente è attualmente di circa quattro milioni, e alla fine del 2014 l’Unhcr stimava che nel paese ci fossero quasi otto milioni di profughi interni.

Gli aiuti forniti ai rifugiati e ai profughi interni siriani con ogni probabilità saranno ridotti, perché l’Unhcr dichiara di affrontare al momento “una grave crisi finanziaria”.

Da un recente rapporto di Unicef e Save the children emerge un deterioramento delle condizioni di vita dei bambini provocato dal brusco aumento del lavoro minorile in Siria e tra i rifugiati siriani. Un numero significativo di bambini siriani, alcuni dei quali di soli sei anni, lavora per garantire un guadagno supplementare alla famiglia. Tra le peggiori forme di lavoro minorile ci sono la prostituzione, i matrimoni forzati e il reclutamento in gruppi armati che operano nei paesi vicini.

L’emergenza umanitaria nello Yemen è la più recente nella regione mediorientale. È significativo che il documento di pianificazione delle attività dell’Unhcr in Yemen prevedesse che dalla seconda metà del 2014 675.400 persone sarebbero rientrate nelle competenze dell’Unhcr entro la fine del 2015.

La previsione è stata già ampiamente superata a causa dei combattimenti in corso in diversi punti del paese, e questo limita l’ingresso degli aiuti umanitari e costringe la popolazione a scappare dalle sue case.

Nello Yemen sono più di cinquecentomila i profughi interni, secondo alcune stime. Le rare statistiche disponibili riguardano soprattutto le persone che sono riuscite lasciare il paese. Da queste, emerge come solo una persona su tre abbia scelto di rifugiarsi in un paese confinante della regione del Medio Oriente e del Nordafrica. Il primo luglio 2015, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen ha dichiarato che il paese più povero della regione era a “un passo” dalla carestia.

L’Iraq, la Siria e lo Yemen sono tre dei quattro paesi al mondo classificati dalle Nazioni Unite al “livello 3” nella scala delle emergenze umanitarie, il livello più alto.

L’accoglienza e la sua assenza

Come già detto, il numero di profughi e di richiedenti asilo che giungono alla frontiera meridionale dell’Europa è aumentato in modo considerevole negli ultimi anni. Si è inoltre verificato un mutamento nelle rotte seguite: gli arrivi più numerosi via mare sono quelli che interessano il Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia), una rotta che ha ormai superato dal punto di vista del numero di persone arrivate quella che passa per il Mediterraneo centrale (dal Nordafrica verso l’Italia).

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

L’Unhcr ha inoltre rilevato come nel 2014 le richieste d’asilo provenienti dal Nordafrica siano state respinte con maggiore frequenza, sbarrando così la strada alla possibilità di ottenere lo status di rifugiato. L’Unhcr ha constatato tassi di rifiuto del 43 per cento per i richiedenti asilo iracheni e del 14,4 per cento per chi proviene dalla Siria. Questi cambiamenti ed evoluzioni hanno dato luogo a tre importanti squilibri.

Il primo riguarda i paesi di sbarco: Italia e Grecia accolgono la maggioranza di tutti gli arrivi via mare.

Il secondo riguarda la destinazione. Secondo l’Unhcr, la Germania e la Svezia hanno ricevuto il 43 per cento di tutte le richieste d’asilo nell’Ue. La Svezia è inoltre il paese dell’Ue con la più alta densità di rifugiati (15 su mille abitanti).

Il terzo riguarda il livello di sviluppo del paese di accoglienza. In realtà, nonostante la loro ricchezza i paesi occidentali accolgono una proporzione relativamente bassa di profughi, in continua crescita, mentre paesi meno sviluppati ne accolgono la maggioranza.

L’Unhcr sottolinea il problema strutturale della crisi dei profughi che emerge da questo terzo fattore di squilibrio, ossia il fatto che siano i paesi più poveri del sud a sopportare il peso maggiore della crisi. Per misurare questa incoerenza, l’Unhcr fa riferimento nel suo rapporto al prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto (pil/ppa) pro capite:

Nel 2014, i 30 paesi con il numero più alto di profughi per dollaro di pil/ppa per abitante appartenevano tutti al gruppo dei paesi in via di sviluppo: 18 di questi 30 paesi rientrano nel gruppo dei paesi meno sviluppati. Più di 5,9 milioni di profughi, cioè il 42 per cento dei profughi di tutto il mondo, si trovavano in paesi in cui il pil/ppa pro capite non superava i cinquemila dollari”.

Queste cifre non sono facili da capire, perciò facciamo un esempio paragonando Italia ed Egitto.

Alla fine del 2014, l’Italia accoglieva 93mila profughi; mettendo questa cifra in corrispondenza con il pil del paese, l’Italia accoglie un rifugiato per ogni 2,69 dollari di pil/ppa pro capite. Per contro, nel 2014 l’Egitto accoglieva quasi 240mila profughi. Più dell’Italia, ovviamente, ma altri paesi in Medio Oriente e Nordafrica ne accolgono cifre di molto superiori. Eppure per l’Egitto questo numero significa un profugo per 20,87 dollari di pil/ppa pro capite.

Un migrante sale a bordo della nave Mv Phoenix del Moas. (Darrin Zammit Lupi, Reuters/Contrasto)

Il fardello della crisi appare così piuttosto basso per i paesi dell’Ue. Anche il numero di profughi in proporzione alla popolazione locale è piuttosto basso: si va da un rapporto di 0,29 profughi ogni mille abitanti in Ungheria ai 15 in Svezia.

Giordania e Libano hanno in confronto indicatori molto diversi. Qui il rapporto tra numero di profughi per Pil Pba pro capite è superiore di almeno dieci volte, mentre il numero di profughi in rapporto alla popolazione locale è più che decuplicato. La Giordania accoglie un profugo per 61,67 dollari di pil/ppa pro capite, con una densità di 87 profughi su mille abitanti. Nel caso del Libano, abbiamo un rifugiato per 70,76 dollari di pil/ppa pro capite, 232 profughi ogni mille abitanti.

Questi squilibri determinano una sempre maggiore pressione sui paesi di accoglienza e sulle persone vulnerabili che vi cercano rifugio. Una simile situazione non è sostenibile.

Negli ultimi due anni, l’approccio dell’Ue ai richiedenti asilo è mutato in modo radicale

C’è dunque una soluzione alla “crisi dei migranti nel Mediterraneo”, come viene comunemente definita questa situazione umanitaria? È necessaria a questo punto una delucidazione semantica. Un migrante può essere inteso, secondo l’Unesco, come “qualsiasi persona che vive in modo temporaneo o permanente in un paese in cui non è nato e con il quale ha acquisito importanti legami sociali. Questa definizione può tuttavia essere troppo restrittiva se si tiene conto del fatto che alcuni paesi considerano migranti delle persone nate nel loro paese”.

Un profugo, secondo la convenzione di Ginevra, è “una persona che si trova fuori del paese di cui è cittadino o in cui risiede abitualmente e che, per la sua razza, la sua religione, la sua nazionalità, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche teme a ragione di poter essere perseguitato e di non poter ricevere protezione di questo paese dove, per il suddetto timore, non può tornare”.

Un richiedente asilo è una persona la cui domanda per l’accesso allo status di rifugiato è in corso di esame. Questa persona non beneficia ancora dello status di rifugiato. Un respinto, infine, è una persona a cui è stato negato lo status di rifugiato.

Il termine migrante è a volte usato al posto di profugo o richiedente asilo. L’uso della parola “migrante” altera la percezione che si ha dei richiedenti asilo, nega a queste persone il diritto di perseguire la propria sicurezza e degrada l’essenza e lo scopo della Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati del 1951. Quest’ultima è stata creata dopo la seconda guerra mondiale, per inquadrare dal punto di vista giuridico le fughe di massa provocate dal conflitto.

La crisi umanitaria supera ampiamente le dimensioni giuridiche e istituzionali: “Le persone che arrivano in Europa via mare sono in gran parte profughi in cerca di protezione da guerre e persecuzioni”, afferma António Guterres, l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite.

Negli ultimi due anni, l’approccio dell’Unione europea ai richiedenti asilo è mutato in modo radicale: dalla ricerca e salvataggio (operazione Mare Nostrum), passando per il pattugliamento delle frontiere (operazione Triton) fino alle misure repressive contro i trafficanti di esseri umani (mediante una nuova operazione denominata Eu Navfor Med). Lo smantellamento dei canali di traffico di esseri umani è importante, ma non dovrebbe sostituirsi a un programma di sicurezza per i richiedenti asilo. Come ha dichiarato António Guterres:

Il traffico e la tratta di esseri umani sono cose orribili. Le persone sono sfruttate, i loro diritti calpestati e la gente muore cadendo da imbarcazioni che non sono in condizioni di navigare. Qualsiasi cosa si possa fare per smantellare queste reti di traffico è positiva, ma ad alcune condizioni fondamentali: che siano garantiti la protezione delle vittime e l’accesso al territorio europeo”.

I numeri e i grafici che abbiamo presentato sono sorprendenti. È difficile ignorare la portata di questa catastrofe umana, dovuta anche alle politiche migratorie in vigore.

“La migrazione è un problema umanitario e politico complesso. Il dibattito che lo circonda è fatto di posizioni politiche molto forti fondate su un insieme di prove fragili e di analisi mediocri. La tendenza dei politici a pensare con la pancia e non con la testa ha dato origine a posizioni ideologiche polarizzate che non sono sane e conducono a uno sviluppo mediocre delle politiche pubbliche”, si leggeva in un articolo pubblicato ad aprile di quest’anno sul sito di Times of Malta.

Lo scopo di questo articolo pubblicati è illustrare come l’uso dei dati e dei fatti possa consentire di prendere decisioni e formulare politiche pubbliche.

Leggendo queste cifre si delineano alcune linee guida. È necessaria un’azione collettiva all’interno dell’Unione europea. Come emerge dai dati, occorre affrontare con urgenza gli squilibri strutturali tra paese d’arrivo e di destinazione. Ancora una volta, nell’ambito dell’elaborazione delle politiche pubbliche, è necessario riformare il regime di asilo europeo comune per consentire programmi di insediamento facilitato, a cui tutti gli stati membri dell’Unione europea devono partecipare.

Le crisi che in questo momento sconvolgono i paesi del Medio Oriente e del Nordafrica mettono in evidenza la questione del sostengo finanziario necessario in questo tipo di situazioni. I paesi di transito e di destinazione sono compresi soprattutto in quest’area, e devono affrontare inoltre il peso dei profughi interni. Il sostegno finanziario alle grandi operazioni umanitarie è oggi ben lontano dall’essere sufficiente.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato su Inkyfada all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel, BabelMed, Osservatorio Balcani e Caucaso, Migreurop, Resf, Centro Primo Levi, La cimade, Medicins du monde.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it