24 aprile 2016 11:19

Migliaia di milanesi hanno maledetto Zinedine Zidane.

Le immagini della testata del calciatore francese all’italiano Marco Materazzi durante la finale dei Mondiali di calcio del 2006 sono state trasmesse più volte sugli schermi installati in piazza del Duomo, scatenando la furia crescente degli spettatori. Una furia provata anche da un gruppo di mareros, affiliati delle gang salvadoregne Mara Salvatrucha e Barrio 18.

Zidane ha chiuso la sua carriera con un cartellino rosso maledetto e acclamato da un paese, l’Italia, che mezz’ora dopo ha esultato come solo un popolo profondamente calcistico sa fare quando diventa campione del mondo.

L’entusiasmo ha contagiato anche i salvadoregni, felici della possibilità di sentirsi parte delle gioie calcistiche altrui. Hanno vissuto la finale bevendo una birra dopo l’altra da una postazione privilegiata, ai piedi dello schermo più grande. Erano tutti mareros di lungo corso: Loco 13, Salado, Sleepy, Mecha.

Poco tempo dopo alcuni di loro sarebbero finiti sui titoli in prima pagina di alcuni giornali italiani come protagonisti del fenomeno delle “gang latine”. Ma la sera di quella testata destinata a entrare nella storia, i mareros in piazza del Duomo erano solo alcuni dei tanti tifosi della nazionale italiana. Ragazzi con tatuaggi che indicano appartenenze inconciliabili hanno esultato insieme, mettendo volutamente da parte l’odio profondo tra le rispettive gang. La sera del 9 luglio 2006, durante la preistoria delle maras salavadoregne a Milano, esponenti della Mara Salvatrucha e del Barrio 18 hanno maledetto Zinedine Zidane stringendosi in un’insolita fratellanza.

Poco dopo tutto sarebbe andato a rotoli, tutto sarebbe tornato alla normalità.

Tiger è arrivato in Italia quando aveva poco più di vent’anni. Era stato in carcere due volte da minorenne e un’altra volta da adulto

Per trovare le tracce delle maras a Milano non c’è bisogno di perdersi in periferia. Tiger, un ex affiliato salvadoregno con cui sono entrato in contatto due anni fa, mi ha dato appuntamento a piazza Cadorna, solo un quarto d’ora a piedi da piazza del Duomo, nel centro della città. “Dobbiamo andare alla stazione centrale”, mi dice appena ci vediamo, cercando di nascondere il nervosismo.

Tiger è arrivato in Italia circa dieci anni fa, quando aveva poco più di vent’anni. Era un affiliato del Barrio 18 dalla fine degli anni novanta. Era stato in carcere due volte da minorenne e un’altra volta da adulto. Come molti uomini della sua generazione che hanno passato un bel po’ di tempo dietro le sbarre, il suo corpo è una tela piena di tatuaggi, visibili anche quando è vestito come adesso: jeans, giacchetto chiuso fino al mento e cappello di lana. Questa mattina di inizio dicembre il termometro segna un grado sotto lo zero. Tiger parla un italiano perfetto. Devo fermarmi qui: ha accettato di parlare con me della sua gang a patto che io non dicessi niente di lui. Tiger non è neanche il suo vero alias.

Tiger è entrato nel Barrio 18 alla fine degli anni novanta. (Nanni Fontana per Internazionale)

In Salvador aveva avuto un ruolo di secondo piano in una piccola cellula criminale nell’entroterra del paese. In Italia, senza volerlo, è stato tra quelli che hanno contribuito di più a far crescere il Barrio 18. Oggi è un peseta: un informatore, un traditore, una persona che secondo i codici delle maras merita la peggiore delle morti. La sua vita è, e sarà, una fuga eterna. Ma la sentenza di morte che pende su di lui lo trasforma in una fonte d’informazione prodigiosa. È molto raro che una persona che ha fatto parte di una gang racconti i meccanismi interni del suo gruppo.

“Io non amo più la mia gang”, mi ha detto una sera, mentre cenavamo in un paesino della periferia. “Quello che voglio è che vadano tutti a farsi fottere, capito? Devono sparire, quei figli di puttana”.

In piazza Cadorna prendiamo la linea verde della metropolitana, e in meno di dieci minuti ci troviamo sotto l’imponente stazione di Milano Centrale.

Presenza crescente

La Mara Salvatrucha (MS-13) e il Barrio 18 (dall’inglese 18th street gang) sono nati nelle strade di Los Angeles, in California. Lì è nato anche il loro profondo odio reciproco. I primi mareros espulsi dagli Stati Uniti arrivarono in America Centrale verso la fine degli anni ottanta. Ma fu solo negli anni novanta, quando Washington decise di fare delle espulsioni un pilastro della sua politica di sicurezza nazionale, che le gang di Los Angeles diventarono un fenomeno importante in Salvador.

Le gang sono un prodotto d’importazione, ma fanno parte della società salvadoregna da venticinque anni. Il fenomeno si evolve a seconda delle condizioni sociali, economiche e politiche specifiche del luogo. La Mara Salvatrucha del Salvador ha poco a che vedere con la Mara Salvatrucha di Los Angeles, che a sua volta è molto diversa dalla Mara Salvatrucha dell’Honduras, del Guatemala o del sud del Messico.

Questo apparente paradosso è importante nel nostro racconto, perché le gang che hanno preso piede a Milano sono quelle del Salvador, le più violente. Intorno al 2010 in Salvador le maras hanno smesso di essere un problema di sicurezza pubblica e sono diventate un problema di sicurezza nazionale.

In Italia il tasso di omicidi è di circa uno per ogni centomila abitanti all’anno; in Salvador è di cento ogni centomila abitanti, e il contributo più alto è quello delle maras. Le cifre ufficiali parlano di non meno di 60mila affiliati in attività e altri 400mila tra simpatizzanti, familiari o persone che dipendendo da questi gruppi criminali, sono il loro cuscinetto sociale, in un paese di appena sei milioni e mezzo di abitanti.

Al di là dei numeri, a caratterizzare le gang in Salvador sono le frontiere invisibili che attraversano il territorio nazionale: frontiere che separano quartieri e zone controllati da una gang, frontiere innalzate sul sangue di migliaia di persone. La metà della popolazione, che praticamente combacia con la metà più povera, sopravvive secondo la legge “vedere, sentire, tacere” imposta dalle gang, un sistema di controllo sociale che, oltre a causare tanti morti, incide sulla quotidianità in modi insospettabili. Un esempio: le squadre di calcio hanno ritirato le maglie numero 13 e 18. Un altro: quando muore una persona cara, la veglia funebre è vietata ai familiari che vivono in zone controllate da gang rivali.

In Italia c’è la comunità di salvadoregni più numerosa fuori del continente americano

Ma perché Milano, a diecimila chilometri di distanza? E perché non Madrid, Barcellona o Roma? La risposta è semplice: perché a Milano ci sono molti salvadoregni. Migliaia. Decine di migliaia. Secondo il ministero degli esteri del Salvador, quella in Italia è la comunità di salvadoregni più numerosa fuori del continente americano. Gli immigrati si concentrano nell’area metropolitana di Milano, che con più di cinque milioni di abitanti è il principale insediamento umano del paese e uno dei più importanti d’Europa.

Secondo il consolato generale del Salvador a Milano, i salvadoregni registrati in Lombardia sono circa 18mila, ma considerando che molti immigrati non hanno i documenti in regola, diverse fonti del consolato e delle ong nate all’interno della comunità calcolano non meno di 40mila salvadoregni residenti a Milano e dintorni.

“Siamo abbastanza abituati alla presenza dei salvadoregni, che cominciarono ad arrivare in Italia negli anni settanta”, afferma il sociologo Massimo Conte. “All’inizio praticamente arrivavano solo donne, signore che andavano a lavorare nelle case della borghesia italiana. La loro presenza contribuì a dare un’immagine molto positiva del Salvador”. Ci sono salvadoregne che vivono a Milano da quasi cinquant’anni. Ci sono centinaia di salvadoregni di seconda e perfino di terza generazione. Il flusso dagli anni settanta è stato costante, con dei picchi durante la guerra civile (tra l’inizio degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta) e negli ultimi cinque anni, a causa della violenza scatenata dalle gang.

Separati per sempre

In Italia arrivano salvadoregni in cerca delle opportunità che il loro paese non può offrire. Quando atterrano sono accolti dalla madre, dal fratello, dalla moglie. Emigrano anche persone che fuggono dalle gang e da altri gruppi violenti: orfani, vedove, vittime di estorsioni, persone minacciate di morte. Ed emigrano anche i mareros: alcuni fuggono dalla loro stessa gang, altri la portano tatuata sul cuore.

“Verso il 2005 o il 2006 ho incontrato i primi affiliati della Mara Salvatrucha”, racconta Massimo Conte, un punto di riferimento quando si parla delle gang latine in Italia. Conte ha studiato il fenomeno per otto anni. A Milano i primi mareros sono arrivati all’inizio degli anni duemila, in ordine sparso. C’è chi si è rifatto una vita e chi ha cominciato ad avere nostalgia del passato e a frequentare suoi simili, all’inizio senza dare importanza al fatto che appartenessero alla gang rivale.

Massimo Conte, uno dei massimi esperti del fenomeno delle gang latinoamericane in Italia. (Nanni Fontana per Internazionale)

A luglio 2006, quando Zidane ha dato una testata a Materazzi, gli affiliati della Mara Salvatrucha e del Barrio 18 si divertivano ancora insieme. Pochi mesi dopo, una rissa in una discoteca ha separato per sempre le strade delle due gang a Milano.

Da fuori è difficile capire il fascino che esercita la gang su chi è già riuscito nell’impresa più difficile: fuggire dal Salvador. Cholo, un salvadoregno di quarant’anni che è emigrato per chiudere con la sua gang, cerca di spiegarlo: “Un marero cerca sempre il suo gruppo, perché l’unione fa la forza; senza gruppo non c’è gang. La chiesa, il calcio, qualsiasi scusa è buona quando si ha nostalgia della gang. Come fanno? Se vai in un posto dove si mangia pesce, ti abitui a mangiare pesce. Se vuoi restare nello stesso giro osservi quali sono le leggi, come ci si comporta…ti adatti. Poi commetti qualche reato e sai che puoi essere espulso e rispedito in Salvador. Per questo è bene essere in buoni rapporti con quelli della tua gang in Salvador, per avere una buona accoglienza al rientro in patria”.

Pochi ma pazzi

Con i suoi duecento metri di facciata, la stazione di Milano Centrale è di una bellezza imponente e monumentale. Davanti c’è il Pirellone, e in mezzo c’è piazza Duca d’Aosta, uno spazio aperto con bei giardini, turisti, enormi lampioni, panchine, ciclisti, apparentemente il posto meno indicato dove trovare le tracce delle maras. “È qui vicino”, dice Tiger.

La strada sul lato nord della stazione centrale si chiama via Giovanni Battista Sammartini: è parallela ai binari della ferrovia, da cui la separa un vecchio muro. Camminiamo duecento metri e sembra già un’altra città. Ne facciamo altri duecento, e la strada si apre per abbracciare un parco con un campo da pallacanestro e alcune aree verdi. Gli edifici intorno sono blocchi disuguali e maltrattati dal tempo di sei, otto, dieci piani, in cui convivono italiani impoveriti e immigrati. Questo parco è stato per anni il punto di ritrovo degli affiliati del Barrio 18. Forse lo è ancora.

All’ingresso di un condominio c’è un 18 dipinto con un pennarello verde. Sotto c’è scritto: “Pocos pero locos”, pochi ma pazzi. Sembra una scritta recente. Dieci passi più in là, sotto la vernice bianca versata per coprirla, si intravede un’enorme scritta che serve a marcare il territorio, come i graffiti che si vedono in Salvador: è alta un metro e mezzo, è stata fatta con la bomboletta spray. C’era un grande 18 azzurro e sui lati, in nero, le sigle SPLS e TLS, che sono riferimenti alle cellule Shatto Park Locos e Tiny Locos, entrambe legate al Barrio 18.

“Quasi tutti quelli che conosco a Milano fanno parte degli Shatto Park”, mi racconterà Tiger in seguito.

Il suo telefono squilla di nuovo.

“Ma chi ci sarà mai, mamma! È martedì mattina. Chi vuoi che ci sia?”.

“…”.

“Hanno tolto quasi tutto, mamma. Non si vede niente. Tranquilla”.

Sull’enorme graffito comparivano anche i nomi di cinque mareros: el Venado, che è stato picchiato a morte da un gruppo della Mara Salvatrucha qui vicino; el Shagy, el Caballo, el Perro e, più in evidenza, el Gato.

Un graffito del Barrio 18 in parte cancellato, a piazza Carbonari, a Milano. (Nanni Fontana per Internazionale)

Gato è l’alias di Denis Josué Hernández Cabrera, nato nel 1984, legato anima e sangue a Barrio 18, detenuto dal 2004 al 2013 nel Settore 1 della prigione di Izalco, in Salvador. Dopo la scissione del Barrio 18, da cui sono nati i Sureños e i Revolucionarios, Hernández Cabrera si è schierato con il primo gruppo. È così attaccato alla sua gang che quando sua madre lo portò in Italia dopo la fine della sua condanna non pensò neanche per un momento alla possibilità di cambiare vita.

“Forse è stato l’unico che è venuto proprio con l’intenzione di far crescere la gang”, dice Tiger.

Il 13 luglio 2008 una partita di calcio tra salvadoregni si è trasformata in una battaglia

A settembre del 2015 si è svolta la più grande operazione di polizia contro il Barrio 18 in Italia. Dopo mesi di pedinamenti, registrazioni e intercettazioni, la polizia di stato ha arrestato el Gato insieme ad altri quattordici affiliati del Barrio 18, quasi tutti salvadoregni. L’hanno presentato come “il capo”. Lo era davvero. Ma la sua presenza ha un ulteriore significato, che neanche la polizia italiana riesce a cogliere del tutto: el Gato segnala un punto di svolta nel modello di diffusione delle maras a Milano.

“Andiamo a piazza Carbonari”, mi dice Tiger, “forse ci sono altri graffiti”. Cerca di nasconderlo, ma è preoccupato e guarda con diffidenza ogni persona che incrociamo. Erano quattro anni che non si avvicinava ai territori di quella che era la sua gang. Nella sua vita di informatore su cui pende una condanna a morte, è rarissimo che venga fino a Milano.

A casa della borghesia

Quando Deidamia Morán è emigrata a Milano da Tonacatepeque, una città di circa 90mila abitanti nel centro del Salvador, la Mara Salvatrucha non esisteva, e il Barrio 18 era formato da qualche decina di ragazzi ispanici che si davano appuntamento agli angoli e nei parchi di Los Angeles. Era il 1974. Le famiglie della ricca borghesia milanese avevano bisogno di manodopera con buone referenze e a basso prezzo per occuparsi dei loro figli e per pulire le loro case.

Quarant’anni dopo, Morán è un punto di riferimento per i salvadoregni di Milano. Da metà degli anni ottanta ha contribuito attivamente alla vita della comunità locale, per conservare la “salvadoregnità”. Con il sostegno della chiesa cattolica ha fondato quella che oggi è conosciuta come Comunità monsignor Romero, con sede nel centro gesuitico Schuster. Per il suo ruolo a metà strada tra promotrice culturale, sindacalista e politica, è stata testimone diretta dell’arrivo e della diffusione delle maras a Milano.

“In che momento le maras sono diventate un problema a Milano?”.

“Si sentivano delle storie, ma forse per un meccanismo di autodifesa rifiutavamo di crederci. Le cose sono precipitate quando quel ragazzo ha perso l’occhio”.

La festa di Natale nella Comunità monsignor Romero, con sede nel centro gesuitico Schuster. (Nanni Fontana per Internazionale)

Il 13 luglio 2008, una partita di calcio tra salvadoregni in uno dei campi di Forza e coraggio si è trasformata in una battaglia tra affiliati del Barrio 18 e della Mara Salvatrucha. Sono volati pugni, insulti, ci sono state fughe disperate. Ad avere la peggio è stato Ricardo, un ragazzo inseguito da un gruppo guidato da Necio e Pirata, l’avanguardia della nascente Mara Salvatrucha milanese. L’hanno raggiunto dopo una corsa di un chilometro e l’hanno picchiato, preso a calci, trascinato, linciato e sfigurato con il coltello nel bel mezzo della strada. La brutalità dell’attacco, l’occhio perso e le modalità della violenza hanno scosso profondamente la società italiana; sui mezzi d’informazione si è cominciato a parlare della Mara Salvatrucha come della peggiore delle piaghe importate.

“La polizia ci disse che i nostri erano più assassini dei siciliani”, racconta Morán. I nostri, dice la donna con vergogna, amareggiata per un fenomeno che può distruggere in un attimo il buon nome di una comunità costruito in decenni. Tra le attività organizzate sono scomparse le partite di calcio e altri eventi simili, per paura. Morán ha anche scoperto che il suo nome era su una lista, sequestrata dalla polizia ad alcuni mareros, delle persone da estorcere.

Da quando ha cominciato a collaborare con la polizia, Tiger non viene quasi mai a Milano. Ma ora eccoci qui, a camminare da via Sammartini a piazza Carbonari, dieci minuti di tragitto attraverso i quartieri della classe media e mediobassa. Prendiamo via Stresa.

“A Milano c’è stata la scissione del Barrio 18?”.

“Sì, ma da poco”, risponde Tiger. In Salvador la scissione del Barrio 18 in due fazioni, Sureños e Revolucionarios, è stata un processo lento e sanguinoso avvenuto tra il 2005 e il 2009. “Qui non c’erano state scissioni fino all’arrivo del Gato. Lui aveva le sue regole e ha voluto dare una lezione a chi aveva sgarrato, perché a Milano avevamo tutti qualche conto in sospeso in Salvador; solo pochi erano a posto. Alcuni non hanno voluto pagare la gang e, dato che el Gato è sureño al cento per cento e avevano sentito parlare dei problemi che c’erano stati in Salvador, sono diventati della Revolución”.

“Si trattava di pagare la gang?”.

“Accettare di farsi dare una lezione, per le stronzate che hai fatto. Molti non ci sono stati e non si sono fatti mettere le mani addosso, oppure avevano parecchi conti in sospeso in Salvador, e alla fine la gang si è divisa”. Su piccolissima scala, la storia non è molto diversa da quella che ha portato alla scissione in Salvador: nella gang alcuni non erano d’accordo su come il capo gestiva il gruppo. Le nuove regole del Gato, che si era formato nelle prigioni salvadoregne ed era appena arrivato in Italia, non sono piaciute a tutti.

“Eccoci, siamo a piazza Carbonari”, mi dice Tiger.

Mentalità mafiosa

Nel 2005, poco dopo l’identificazione delle prime “gang latine”, nella polizia italiana è nata una sezione per combattere questo tipo di organizzazioni criminali straniere. Oggi è composta da una ventina di professionisti che monitorano, studiano, analizzano e contrastano le gang con delle operazioni sul campo. Il responsabile della sezione è Paolo Lisi: “Ci siamo resi subito conto che gli scontri violenti tra gang latine non erano episodi sporadici”.

Gli uffici della squadra mobile di Milano impegnata nella lotta alle gang latinoamericane. (Nanni Fontana per Internazionale)

A Milano, per la sua natura di capitale industriale e quindi di polo migratorio, sono nate filiali delle gang transnazionali come Latin Kings, Ñetas, Bloods e Trinitarios, ma anche gruppi locali come Comandos, Trébol o Latin Forever. La Mara Salvatrucha e il Barrio 18 sono entrate nel radar della polizia di stato più tardi, non prima del 2008, ma oggi sono sicuramente quelle che destano più preoccupazione. “La mentalità del marero salvadoregno è diversa da quella di chi arriva da altri paesi, peggio ancora quando parliamo di quelli che sono stati iniziati in Salvador”, dice Marco Campari, uno degli agenti più esperti del gruppo.

Lisi e Campari usano con sorprendente precisione il gergo delle gang, fatto di parole che anche il salvadoregno medio ha difficoltà a definire con accuratezza. “La mentalità è più violenta”, spiega Lisi. “Uccidere un rivale è una cosa normalissima”.

“Pensate che possano integrarsi nella società?”.

“Non credo”, dice Campari. “Le altre gang, forse, ma non la Mara Salvatrucha o il Barrio 18”.

“Sono diversi”, riprende la parola Lisi. “I Latin Kings o i Trinitarios, per esempio, sono gang criminali, ma portano avanti un discorso di orgoglio nazionale, di solidarietà interna. Le gang del Salvador no; per esperienza, direi che hanno una mentalità assolutamente mafiosa”.

Nel 2015 le operazioni della polizia di cui i mezzi d’informazione hanno parlato di più sono state quelle contro le gang del Salvador. Il caso più eclatante si è verificato a giugno, quando c’è stato uno scontro tra alcuni affiliati della Mara Salvatrucha e i dipendenti di Trenord, un’azienda ferroviaria regionale.

In Italia il rito d’iniziazione consiste nel venire preso a calci, per 18 secondi nel caso del Barrio 18 e per 13 secondi nella Mara Salvatrucha

L’11 giugno del 2015, alla stazione di Milano Villapizzone, è nata una discussione tra i dipendenti di Trenord e alcuni ragazzi salvadoregni che erano saliti senza biglietto. Dalle parole sono passati agli insulti, dagli insulti alle spinte, e dalle spinte a una rissa enorme che è finita con un machete piantato nel braccio di un capotreno, che ha rischiato l’amputazione. In quel caso la vittima non era uno dei tanti mareros ma un italiano, e il caso ha turbato l’opinione pubblica come non era mai successo prima. Gli aggressori sono fuggiti, ma la polizia li ha catturati pochi giorni dopo. Sono stati processati in poco più di sei mesi, e tre affiliati hanno ricevuto condanne fino a sedici anni di carcere.

Lisi e Campari sono convinti che la polizia abbia sviluppato le capacità necessarie per tenere a freno le gang in generale, e il Barrio 18 e la Mara Salvatrucha in particolare. Ma sono anche consapevoli di essere solo all’inizio di un lungo braccio di ferro. “Quando spegni un fuoco restano le braci”, afferma Campari. “A settembre abbiamo smantellato il Barrio 18, ma le braci sono ancora lì, e basterà poco per riaccenderle”. Due giorni dopo anche Cholo, l’ex affiliato di quarant’anni, userà una metafora simile, ma più minacciosa: “La gang è un cancro. A volte te lo estirpano e tu pensi di essere sano, ma poi si ripresenta più aggressivo. Va così. Gli italiani dovrebbero preoccuparsi”.

La piazza delle riunioni

Tiger mi spiega che piazza Carbonari offriva una serie di vantaggi per quello che Barrio 18 voleva costruire a Milano. La chiamano piazza, ma in realtà è una rotatoria di più di duecento metri di diametro, progettata perché le automobili possano immettersi sulla circonvallazione esterna. È uno spazio aperto e chiuso allo stesso tempo. È in mezzo a tutto e lontano da tutto. Adesso, verso le undici, oltre a noi due c’è solo un clochard, e poi ci sono panchine, alberi, sentieri. “È un parco nascosto con una visuale a trecentosessanta gradi. Da qui”, Tiger indica un lato, “non può arrivare nessuno, e neanche da là. Se arrivano le volanti della polizia è facile scappare, perché gli accessi diretti sono in controsenso. Per questo i meeting si tenevano qui”.

Operazioni di presidio e controllo del territorio da parte della polizia nella periferia sud di Milano, dove ci sono molti locali frequentati da latinoamericani. (Nanni Fontana per Internazionale)

I meeting, le riunioni a cui è obbligatorio partecipare, sono il principale organo decisionale delle varie cellule. Quando il Barrio 18 ha deciso di mettere radici a Milano, le riunioni settimanali sono diventate una priorità. A piazza Carbonari i nuovi affiliati venivano iniziati e quelli vecchi che avevano sgarrato ricevevano una lezione, in entrambi i casi venendo presi a calci per diciotto secondi, come prevede il rito delle gang in Salvador. In questo luogo è stata anche approvata la creazione di una cassa comune del gruppo, con un contributo settimanale che inizialmente era di cinque euro, poi di dieci. Con questi soldi il Barrio 18 ha cominciato a investire in droga da rivendere. In seguito ha avuto abbastanza risorse per comprare qualche pistola al mercato di San Donato Milanese. E così il gruppo ha continuato a rafforzarsi.

La vita in carcere

La crescita del Barrio 18 è legata alle decisioni prese durante le riunioni a piazza Carbonari. Nel quadrante nordest della rotatoria, quello scelto come base, c’è ancora un “18” dipinto con lo spray nero su un gigantesco lampione. Qualcuno ha cercato di coprire la scritta con della vernice bianca, ma l’ha fatto male, come se la vernice fosse stata versata con un bicchiere. Tiger guarda la scritta con un po’ di nostalgia. “Devono essere stati i nostri rivali, guarda come hanno buttato la vernice”. A poco più di un chilometro c’è Maciachini, una zona con una forte presenza della Mara Salvatrucha. “Andiamo a vedere come va al Trotter”, dice Tiger.

Mentre in Salvador il governo del presidente Sánchez Cerén ha scatenato una repressione contro le gang che confina con il terrorismo di stato, in Italia si prende cura degli affiliati finiti in carcere. “Vado in prigione, parlo con loro, chiedo se i loro diritti sono rispettati, contatto i familiari, l’avvocato”, afferma Vanessa Hasbún, la massima autorità del consolato del Salvador a Milano da marzo 2010 a giugno 2013 e, dall’ottobre del 2015, la responsabile del servizio di protezione consolare. Il suo lavoro è assistere i salvadoregni detenuti, contattare le famiglie, assicurarsi che lo stato italiano rispetti i loro diritti.

Secondo i suoi calcoli, ha incontrato almeno venti mareros, quindi una piccola parte del totale. “In carcere sono molto disciplinati”, dice, “ma le educatrici con cui parlo mi dicono che per quanto si impegnino non riescono a mettere su un progetto di riabilitazione che funzioni, perché non capiscono come funziona la vita dei mareros”.

Le maras preoccupano la polizia italiana, giustamente, ma non somiglieranno mai al cancro che corrode la società salvadoregna

Il Trotter fa ancora parte della vecchia Milano. È un parco centenario e accogliente. È un po’ lontano da piazza Carbonari. Camminiamo due o tre isolati fino a viale Sondrio e poi prendiamo un autobus arancione snodato, la linea 90, che va verso piazzale Loreto. La 90 percorre il tragitto più conflittuale per un marero, perché passa per le zone delle gang più importanti: Latin Kings, Comandos, Mara Salvatrucha, Barrio 18. Tiger è nervoso.

“Qual è la differenza principale tra gli affiliati in Salvador e in Italia?”.

“La misión, la prova di iniziazione”, mi risponde dopo averci pensato qualche istante.

Da quando a metà degli anni duemila le maras si sono radicalizzate in Salvador, ci sono stati dei cambiamenti significativi. Per garantire lealtà e dedizione, all’aspirante maschio si chiede di compiere una missione, che di solito consiste in un omicidio. In Italia no: in Italia il rito d’iniziazione consiste ancora nel venire preso a calci, per tredici secondi nella Mara Salvatrucha e per 18 nel Barrio 18. “L’unico che faa eccezione da questo punto di vista è il Wicked”.

Janet Margarita Jimenez Lopez, 37 anni, è arrivata in Italia nel 2000. È stata aggredita più volte da affiliati alle gang. (Nanni Fontana per Internazionale)

Wicked è l’alias di Eduardo Segura Fuentes, anche lui del Barrio 18 fino al midollo ma con un passato molto diverso da quello del Gato. Wicked è nato in Salvador nel 1991 ed è arrivato in Italia da bambino. Non ha conosciuto la prigione e non è cresciuto in un ambiente violento, ma questo non gli ha impedito appassionarsi alla mara, al punto da riuscire a ottenere l’autorizzazione per mettere su una sua cellula: una filiale della Hoover Locos, sempre legata al Barrio 18.

Anello di congiunzione

Wicked è stato una figura chiave nella pianificazione e nell’esecuzione dell’omicidio di David Stenio Betancourt alias King Boricua, leader dei Latin Kings-New York, avvenuto il 7 giugno del 2009 nei pressi della discoteca Thini in via Brembo. Sui mezzi d’informazione italiani l’omicidio è stato descritto come un regolamento di conti tra le due fazioni dei Latin Kings (New York e Chicago), ma nel giro delle maras tutti sapevano come stavano le cose, e l’incursione di Wiked in territorio nemico ha segnato l’ingresso del Barrio 18 nella serie A delle gang latine milanesi.

Wicked fa parte della seconda infornata di mareros, quelli che sono stati iniziati in Italia e che usano internet per mantenersi in contatto con la casa madre. È un affiliato del Barrio 18 ma made in Italy, l’anello di congiunzione fondamentale per far attecchire il fenomeno in Italia.

Siamo ancora sulla 90. Dopo aver ascoltato la storia di Wicked, sono incuriosito dall’ossessione per le gang di questi ragazzi arrivati in Italia da bambini.

“Perché questa dipendenza? A cosa serve al Barrio 18 salvadoregno avere una gang qui?”.

“A espandere il suo potere, a essere i più grandi, a togliersi lo sfizio. A quelli che vivono qui, mantenere i rapporti serve a continuare a fare stronzate. È difficile da capire se non ne hai mai fatto parte, ma ‘alla fine’ funziona così”.

Con un movimento del collo, Tiger mi indica che siamo arrivati a piazzale Loreto. Scendiamo dall’autobus e camminiamo per un chilometro su via Padova, una strada lunga e stretta che sembra l’epicentro dell’immigrazione.

“Eccoci, questo è l’ingresso del Trotter”.

Mai più a casa

Le maras preoccupano la polizia italiana, giustamente, ma le possibilità che il fenomeno finisca per somigliare al cancro che corrode gli strati più bassi della società salvadoregna sono nulle. Lo stato italiano agisce con fermezza. La polizia fa il suo lavoro. I procuratori, i giudici, gli assistenti sociali, i secondini. Le istituzioni funzionano. Ci sono leggi progettate per fermare la criminalità organizzata.

La società italiana non ama le armi, e gli italiani hanno imparato in buona parte a rinunciare alla violenza per risolvere i conflitti: per questo le maras non affascinano i ragazzi del posto. Bisogna poi considerare che la criminalità organizzata italiana, anche se fa un uso limitato della violenza rispetto alle maras, è pronta a reagire contro qualsiasi gruppo che minacci i suoi interessi. “Qui in Italia i mareros se la prendono solo con altri salvadoregni, perché sanno che è meglio non mettersi contro la gente di altri paesi, meno che mai contro gli italiani”, dice Tiger.

Gang come quelle dell’America Centrale non possono prendere piede in Italia per la stessa ragione per cui non è successo negli Stati Uniti, il loro luogo di nascita: non hanno la forza che hanno acquistato in Salvador, in Honduras e, in misura minore, in Guatemala. Perché le maras diventino un problema di sicurezza nazionale ci vuole una società come quella del Salvador.

Vita da traditore

Il Trotter è un parco difficile da spiegare. Cent’anni fa era un ippodromo, e il circuito interno di strade e sentieri mantiene come asse portante l’ovale perfetto su cui galoppavano i cavalli. Centomila metri quadrati di verde costellati da abeti, aceri, cedri e qualche edificio dei secoli scorsi. Dalla fine degli anni venti c’è anche una scuola comunale, la Casa del Sole, pensata per bambini malati di tubercolosi. Proprio in mezzo c’è una fossa profonda e rettangolare che un tempo era una piscina. Nonostante la sua grandezza, il parco è recintato, con orari di apertura e di chiusura. È un parco pubblico, ma un signore anziano ci spiega che si può entrare solo di pomeriggio. Tornerò tra un paio di giorni e vedrò che la parte a ovest dell’ex piscina è piena di graffiti del Barrio 18, i più vistosi che ho incontrato a Milano.

Un murale del Barrio 18 nel parco Trotter, nella zona nordest di Milano. (Nanni Fontana per Internazionale)

Ma adesso è già mezzogiorno, e Tiger ha appuntamento con la sua famiglia per festeggiare il compleanno della madre. Dobbiamo tornare a piazzale Loreto, uscire dal centro della città sulla linea rossa della metropolitana, poi lui prenderà un autobus per Cinisello Balsamo, nella periferia metropolitana.

“Sei dell’Inter o del Milan? Vai spesso a San Siro?”, gli chiedo quando siamo in metro.

“No, neanche per scherzo! È pieno di salvadoregni”.

È la vita da traditore: vive in una delle capitali mondiali del calcio e non può andare allo stadio.

Deidamia Morán parla con l’anima in pena. “A giugno sono stata in Salvador, in un paesino chiamato San José Guayabal, in quei giorni hanno ammazzato diverse persone nei dintorni. Ammazzano le persone come le mosche. Il governo fa finta di niente. Dicono che sono i mezzi di informazione a essere allarmisti. Ma ascoltami bene. E guardami…”. La donna mi fissa, si scuote, la voce, ferma fino a un momento fa, comincia a tremare. “Amo la mia patria. Ma è la prima volta che torno e mi sento prigioniera. Non mi hanno fatto andare sola da nessuna parte, mai. Se ora mi chiedi se voglio tornare in Salvador, la risposta è no, perché le cose laggiù sono orribili. In Italia mi sento libera, nella mia patria prigioniera”.

Morán teme che a Milano le maras continueranno a occupare i titoli dei giornali italiani. “Ho sentito dire che in Lombardia ci sono 45mila salvadoregni, ma siamo di più”, dice. Il flusso negli ultimi anni è stato costante, inarrestabile, cancerogeno.

“È possibile frenare questo fenomeno?”.

“È troppo tardi”, risponde. “Lo dico con profonda tristezza, ma spero che la nostra gente non emigri più in Italia”.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è uscito anche nella Sala Negra, la sezione di giornalismo d’inchiesta del sito d’informazione salvadoregno El Faro.

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