18 maggio 2017 10:14

I bambini scorrazzano nella libreria, sul tavolo sono sparse in disordine diverse illustrazioni, matite, colori. Qualcuno continua a disegnare, mentre Gahafar Abdul, un richiedente asilo pachistano, apre i vassoi pieni di prelibatezze: riso, zafferano e ceci accompagnati da verdure. Aloo palak e riso biriani, questo il nome dei piatti in urdu, spiega Gahafar. Nella libreria La pecora nera di via Gemona a Udine ci si prepara all’asta delle illustrazioni che in serata servirà a finanziare la scuola di italiano per stranieri, gestita dai volontari di Ospiti in arrivo dall’estate del 2015. Gahafar parla un ottimo italiano, anche se vive a Udine da poco più di un anno.

A 26 anni, il richiedente asilo, arrivato in Italia nel dicembre del 2015 attraverso la rotta dei Balcani, si sta preparando a sostenere l’esame di terza media. Nel suo paese, il Pakistan, era laureato in economia, ma il suo titolo di studio non è riconosciuto dalle autorità italiane, così Gahafar ha deciso di provare a fare l’esame e si sta preparando insieme alla maestra Esther, un’insegnante di Udine che fa la volontaria nella Refugees public school. Va a scuola tre volte alla settimana, di pomeriggio, e grazie al suo discreto italiano ha cominciato a lavorare come barista per l’Arci. Almeno fino a quando in città non è stato introdotto una specie di coprifuoco per i profughi lo scorso autunno.

Da allora deve rientrare entro le 21 e non può uscire prima delle 8 di mattina dal centro di accoglienza in cui vive. “Questo mi impedisce di lavorare la sera, posso lavorare solo il pomeriggio, quando non vado a scuola”, racconta. Il cosiddetto coprifuoco per i richiedenti asilo dalle 21 alle 8 è un regolamento introdotto dai centri di accoglienza della città su proposta dal prefetto di Udine, Vittorio Zappalorto, nell’ottobre del 2016.

Il coprifuoco
“A una certa ora è opportuno che i richiedenti asilo rientrino nelle strutture in cui sono ospitati. Chi non lo farà verrà portato in questura e, se questo atteggiamento si dovesse reiterare, si arriverà ad avviare procedimenti di espulsione dal sistema di accoglienza”, aveva detto Zappalorto in una conferenza stampa, annunciando la misura. Le associazioni che danno aiuto ai profughi definiscono la decisione “discriminatoria”.

“Un provvedimento come questo limita la libertà personale di una sola categoria di persone”, afferma Lisa Cadamuro, volontaria di Ospiti in arrivo. “Non serve a risolvere i problemi di ordine pubblico e i richiedenti asilo rischiano di perdere il diritto all’assistenza se infrangono le regole”, dice Cadamuro. “Chi perde l’assistenza finisce a dormire per strada, un circolo vizioso che alimenta ancora di più l’intolleranza dei residenti”.

Per andare al cinema con i volontari o per partecipare alle diverse iniziative dell’associazione, Gahafar deve chiedere l’autorizzazione al centro in cui vive. Ma questa è solo una delle contraddizioni del sistema di accoglienza della città dove la presenza dei profughi è aumentata nel 2015, l’anno della cosiddetta crisi dei rifugiati in Europa, quando un milione di persone (sopratutto siriani, ma anche afgani, pachistani, iracheni) sono arrivate in Europa attraverso la rotta dei Balcani.

“Questa è l’unica frontiera settentrionale del nostro paese in cui i profughi invece che cercare di uscire cercano di entrare”, spiega Lisa Cadamuro. Infatti nelle altre regioni di frontiera italiane i profughi arrivano dal sud del paese e sono diretti verso il Nordeuropa, mentre in Friuli-Venezia Giulia i profughi arrivano dai Balcani per fare domanda d’asilo in Italia. “La maggior parte di loro arriva dall’Austria, alcuni dalla Slovenia. Di solito entrano dal valico di frontiera di Tarvisio, poi la polizia li manda a Udine, il posto più vicino dove possono fare richiesta d’asilo”. Sono soprattutto pachistani, afgani e iracheni.

Volontari di Ospiti in arrivo e richiedenti asilo al parco Moretti, Udine, maggio 2015. (Federico Fabbro, Ospiti in arrivo)

Anche Gahafar Abdul è passato da Tarvisio, dopo aver attraversato tutta la rotta balcanica: le isole greche, Atene, la Macedonia, la Serbia, la Croazia. “Quando sono arrivato in Serbia, nell’estate del 2015, l’Ungheria aveva chiuso le frontiere, per questo siamo passati dalla Croazia”, racconta. A Udine, mentre aspettava di essere chiamato dalla questura per la richiesta d’asilo ha dormito quindici giorni in stazione. “Dal marzo del 2016 e poi per tutto l’anno, dopo la chiusura della rotta balcanica, gli arrivi si sono ridotti”, conferma Cadamuro, “ma per molto tempo a Udine c’è stata una situazione di emergenza con persone che dormivano per strada, alla stazione, nei giardini pubblici”.

I volontari di Ospiti in arrivo hanno cominciato così le loro attività: dalla distribuzione dei sacchi a pelo, alla scuola di italiano. “All’inizio facevamo la scuola nel parco, poi ci siamo spostati in altre strutture, circoli Arci”, spiega Marta Simonetti, un’altra maestra. Il lavoro della scuola è tutto volontario e autorganizzato e le insegnanti non ricevono nessun sostegno dalle autorità per quello che fanno. “È un lavoro molto difficile, ci mette molto in discussione, alcuni dei profughi non sono scolarizzati e con loro dobbiamo ricominciare dall’alfabeto”, spiega Marta, che nella vita fa la maestra nella scuola materna.

La tendopoli nell’ex caserma
Per far fronte a una nuova ondata di arrivi dai Balcani nel 2015 la prefettura ha allestito una tendopoli nell’ex caserma Cavarzerani. Doveva funzionare solo qualche mese e invece è ancora attiva. “Nei periodi di maggiore attività ne sono state ospitate anche mille persone”, afferma Cadamuro. Anche Gahafar ha passato un periodo nella caserma, all’interno di una delle 38 tende azzurre della protezione civile montate nella struttura. Nelle tende non ci sono né elettricità né riscaldamento e d’inverno le temperature a Udine scendono sotto lo zero. Inoltre l’acqua calda nei bagni c’è solo due volte al giorno. Dopo una decina di giorni nel campo, Gahafar è stato trasferito in un centro di accoglienza in città per ragioni sanitarie: soffre di asma e nella tenda le sue condizioni stavano peggiorando rapidamente. “Con il freddo, la pioggia e la polvere non riuscivo più a respirare”, racconta.

Al momento si trovano nella caserma circa 530 richiedenti asilo, secondo il direttore della Croce rossa di Udine Fabio Di Lenardo. Tutti maschi. Moeed è uno di loro, è pachistano, originario di un paese vicino a Peshawar. Dorme in una tenda insieme ad altre otto persone, non riceve il pocket money (2,5 euro al giorno previsti dallo stato italiano per i richiedenti asilo), ha 23 anni, è arrivato da 13 mesi in Italia e non ha ancora ottenuto l’appuntamento per l’udienza con la commissione territoriale, l’autorità italiana preposta alla valutazione delle richieste d’asilo. “Non ci sono avvocati ad assisterci, c’è un corso di italiano organizzato nel campo ma non è per tutti e anche i corsi professionali organizzati dalla Confartigianato sono frequentati da una ventina di profughi”, racconta Moeed. “Le giornate sono lunghissime”, continua. Anche lui come Gahafar si sta preparando a sostenere l’esame di terza media, pur essendo laureato.

Fabio Di Lenardo della Croce rossa spiega che si è passati da ospitare 40 profughi ad accoglierne anche mille in una situazione che avrebbe dovuto essere di primissima accoglienza. “L’ex caserma era stata pensata per una sistemazione temporanea, come quella degli sbarchi in cui i richiedenti asilo passano solo pochi giorni, il tempo di compilare la domanda per poi essere trasferiti ad altri progetti”. Tuttavia gradualmente si è trasformata in una residenza a lungo termine, alcuni richiedenti asilo sono nel centro da otto e da dieci mesi.

Ci sono 30 docce e 30 bagni per più di 600 persone

Il 29 luglio 2016 è entrata nella struttura l’europarlamentare Elly Schlein che ha raccontato: “Bagni e docce sono troppo pochi e in condizioni di igiene inadeguate. Il primo aspetto che colpisce è la mancanza di un inquadramento giuridico chiaro del tipo di centro di cui si tratta. Alle nostre domande hanno risposto che si tratta di una forma ibrida – tra Cas e Cara – nata sull’onda dell’emergenza per evitare che le persone dormano per strada o nei parchi della città”.

Il centro dal 2015 è affidato alla Croce rossa italiana, con una convenzione stipulata con la prefettura grazie a una dichiarazione di emergenza. Per ogni profugo il ministero dell’interno versa all’ente gestore 25 euro al giorno. I servizi previsti dalla convenzione, però, sono molto inferiori allo standard dei centri di accoglienza nazionali. La prefettura ha promesso che supererà la convenzione d’emergenza e affiderà il servizio attraverso un bando di gara, ma per il momento la convenzione, che è scaduta il 30 aprile del 2017, dovrebbe essere ancora prorogata. Per assicurare condizioni di accoglienza dignitose dovrebbero essere accolte al massimo 350 persone, secondo le autorità.

I richiedenti asilo denunciano che i vestiti sono distribuiti solo su richiesta, ma molti vanno in giro scalzi o in ciabatte. La situazione igienica dei bagni infine è drammatica: ci sono 30 docce e 30 bagni per più di 500 persone. Alcune docce sono danneggiate. “Le cose sono nettamente migliorate nel corso del tempo”, assicura Di Lenardo. “Abbiamo fatto del nostro meglio per migliorare l’accoglienza e aggiungere più servizi anche se non sono previsti dalla convenzione: abbiamo introdotto la scuola d’italiano, i corsi di artigianato e ora via via le tende dovrebbero essere sostituite da container secondo quanto promesso dal prefetto”, afferma Di Lenardo.

Il 70 per cento degli ospiti della caserma è costituito da “dublinanti”, cioè da richiedenti asilo che sono stati già identificati in un altro paese dell’Unione europea e sono bloccati nel limbo della burocrazia europea dell’asilo. “L’emergenza è soprattutto legale”, spiega Lisa Cadamuro di Ospiti in arrivo. I richiedenti asilo hanno situazioni molto complicate e non hanno nessuna forma di consulenza legale.

Un esercito di senza fissa dimora
“La regione Friuli-Venezia Giulia avrebbe potuto trasformarsi in un modello nell’accoglienza dei richiedenti asilo”, spiega Gianfranco Schiavone, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste. Invece, per una diffusa ostilità della politica e una mancanza di lungimiranza, sempre meno comuni friulani partecipano al bando nazionale Sprar per l’accoglienza dei richiedenti asilo, nonostante gli arrivi siano quotidiani.

“Più del 90 per cento dei richiedenti asilo della regione è ospitato in una struttura d’emergenza”, afferma Schiavone. In particolare ci sono due strutture sovraffollate: l’ex caserma Cavarzerani e il Cara di Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia, che ospitano in tutto più di mille richiedenti asilo (su un totale di circa cinquemila richiedenti asilo) in strutture che sono al di sotto dello standard nazionale di accoglienza. Non ci sono strutture di seconda accoglienza, cioè dei centri diffusi dove i richiedenti asilo possano risiedere in attesa che la loro domanda d’asilo sia esaminata.

L’interno della ex caserma Cavarzerani, luglio 2016. (Dr)

“Il problema è che i progetti Sprar sono pochissimi e soprattutto non aumentano, le amministrazioni comunali continuano a non presentarli. Guardando all’ultimo bando Sprar, potremmo scoprire che i progetti di questo tipo stiano addirittura diminuendo”, spiega Schiavone. Al momento solo dieci comuni su 218 partecipano al sistema Sprar nella regione, e solo 68 comuni sono in generale coinvolti nell’ospitalità dei richiedenti asilo.

“L’unica eccezione è la provincia di Trieste, che da anni ha attivato dei progetti di accoglienza diffusa in cui i profughi sono quasi tutti collocati in 140 appartamenti”, racconta Schiavone. Soprattutto quando scoppiano casi di malaccoglienza come quello di Isola Capo Rizzuto, in Calabria, dovremmo riflettere sul fatto che una gestione emergenziale del fenomeno migratorio è pericolosa. “Rispetto a quella dello Sprar, la rendicontazione dei centri straordinari è più opaca”, spiega Schiavone. Poi c’è un’altra questione legata alla cattiva gestione dell’accoglienza. “Lo stato italiano sta producendo decine di migliaia di migranti senza fissa dimora in tutto il paese”, dice Schiavone.

Servirebbe un ufficio regionale che li aiuti in questi progetti che sono un investimento per il futuro

Nella provincia di Gorizia e nella città di Udine ci sono così pochi posti letto che molti richiedenti asilo dormono per strada, creando situazioni di tensione anche con i residenti. Secondo l’associazione Ospiti in arrivo che ha monitorato la situazione dei migranti senza fissa dimora in queste due città, a Udine ci sono ancora circa 40 richiedenti asilo che dormono per strada, mentre a Gorizia sarebbero più di cento.

“Questo problema viene affrontato come una questione di ordine pubblico dalle autorità, alcuni migranti senza fissa dimora che dormivano vicino alla parrocchia di San Pio X a Udine sono stati denunciati per occupazione di suolo pubblico e alcuni di loro hanno ricevuto il foglio di via per questo”, racconta Lisa Cadamuro di Ospiti in arrivo. Anche sette volontari dell’associazione sono stati coinvolti in un procedimento penale con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina l’anno scorso, un processo che è stato archiviato nel marzo del 2017 perché “non sono emersi elementi attestanti la responsabilità o il concorso degli indagati”.

“Quello che preoccupa culturalmente e politicamente è la riduzione dei progetti di accoglienza in Friuli-Venezia Giulia”, afferma Gianfranco Schiavone. “Questa regione come tutta l’Italia è costituita da piccoli comuni che andrebbero sostenuti da una politica regionale attiva per l’accoglienza diffusa, al di là dei proclami. I comuni da soli infatti non ce la fanno e servirebbe un ufficio regionale che li aiuti in questi progetti che sono un investimento per il futuro delle nostre società”, dice Schiavone, “di questo si dovrebbe preoccupare la presidente della regione Debora Serracchiani, glielo dico da tempo”.

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