15 gennaio 2017 10:45

Questo autunno a Washington fa un caldo insolito. Zucche e scheletri di Halloween penzolano tra gli alberi rosseggianti dei giardini di Georgetown, quartiere benestante della capitale federale. John Rizzo, avvocato, ex direttore del dipartimento affari legali della Cia (l’agenzia), trascorre qui una tranquilla pensione. Ogni mattina abbina con gran cura i calzini alla camicia scelta per quel giorno, poi se ne va a spasso per le belle stradine tra i villini in mattoni colorati. Questo dandy dai capelli candidi fa parte del gruppetto di persone che, nel segreto della sede della Cia, hanno reso legale un nuovo metodo di interrogatorio. Tecniche “rafforzate” (enhanced interrogation technique) usate per “spezzare la resistenza” dei prigionieri della guerra al terrore.

Da Guantanamo ad Abu Ghraib, queste tecniche hanno mutato il volto degli Stati Uniti inaugurando la possibilità di fare ricorso a diverse forme di tortura. Se la simulazione della morte per annegamento (waterboarding) è stata raccontata dai mezzi d’informazione come il simbolo della tortura americana, le aggressioni e le umiliazioni sessuali sono sempre rimaste in secondo piano. Eppure il ricorso alle sevizie sessuali come tecnica di interrogatorio “rafforzata” è stato sistematico per sfiancare i detenuti.

Incontriamo l’ex direttore il 20 ottobre del 2016. Si presenta come un uomo affabile e rilassato: “Una parola mia e tutto sarebbe finito ancora prima di cominciare”, dichiara con un mezzo sorriso sulle labbra. Non l’ha fatto, e lo accetta consapevolmente: “La priorità assoluta era far sì che noi (la Cia) non potessimo essere ritenuti responsabili di un secondo 11 settembre”. Per capire la nascita delle “tecniche di interrogatorio rafforzate”, secondo la pudica definizione scelta dall’agenzia, bisogna risalire al trauma vissuto dagli Stati Uniti all’alba del nuovo millennio: gli attentati dell’11 settembre 2001. I servizi segreti non sono stati in grado di impedirli, hanno fallito. “Ci vergognavamo terribilmente di non essere riusciti a capire quello che si preparava”, commenta John Rizzo.

L’avvocato è cosciente di aver superato una linea rossa. Perciò si preoccupa di coinvolgere la Casa Bianca nella sua decisione

Il 17 settembre, sei giorni dopo gli attentati, il gabinetto presidenziale conferisce alla Cia pieni poteri di arrestare i potenziali terroristi e di creare un nuovo sistema di interrogatorio. John Rizzo se ne ricorda come se fosse ieri: “Non l’avevamo mai fatto. Quella volta si trattava di un programma che non era stato fissato nel tempo… e mettere a parte di questo segreto un numero molto ristretto di persone è stato un errore”. Sul campo, la caccia ai terroristi non è facile. Gli agenti fanno fatica a risalire alle menti dell’11 settembre. Infine, dopo molti mesi, un primo detenuto ritenuto “prezioso” cade nelle mani della Cia in Pakistan. È il marzo del 2002.

Abu Zubaydah, un saudita sulla trentina, è sospettato di essere uno dei responsabili della logistica degli attacchi, se non addirittura un parente di Osama bin Laden. “Se c’era qualcuno al corrente di un nuovo attentato, quella persona doveva per forza essere Zubaydah, ma a dire il vero non era il pesce grosso che speravamo”, racconta Rizzo. Nel giorno dell’interrogatorio, Abu Zubaydah risponde con il silenzio. “[I nostri investigatori] erano convinti che nascondesse qualcosa”, ricorda. “Perciò dovevano costringerlo a parlare”.

L’agenzia decide allora di rivolgersi a due consulenti, gli psicologi James Mitchell e Bruce Jessen. Oggi sono coinvolti in un processo in seguito a una denuncia dell’Unione americana per le libertà civili (Aclu). Fino ad allora i due non avevano mai assistito a un interrogatorio dal vivo. Hanno improvvisato, pretendendo di ispirarsi alla psicologia comportamentale. Di fatto non hanno fatto che adattare quasi alla lettera il programma di addestramento militare Sere (Survival, evasion, resistance and escape, sopravvivenza, evasione, resistenza e salvezza), creato dopo la guerra di Corea per preparare agli interrogatori i soldati e i civili in caso di cattura da parte dei servizi segreti del paese comunista. Questo programma, ispirato ai metodi di tortura nordcoreani, ha lo scopo di “mettere a disagio il detenuto per farlo crollare”, spiega John Rizzo. Mitchell e Jessen proposero una lista di tecniche all’avvocato, tra cui la “svestizione”, il “ricorso a fobie individuali”, il “ricorso a posizioni di stress” o a “interrogatori di venti ore”.

Piccoli sporchi vincoli internazionali
Il flemmatico avvocato a quel punto fu colto dal panico: “Mi sono detto: non si può fare una roba simile”. John Rizzo sapeva bene che le tecniche oltrepassavano i limiti del diritto. Di fatto gli Stati Uniti sono firmatari della convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra e della convenzione contro la tortura. “Piccoli sporchi vincoli internazionali”, come ha scritto all’epoca in un’email inviata a un collega della Cia. Decide di liberarsene e aderisce al parere dei presunti esperti psicologi. “Sempre meglio che correre il rischio di subire un nuovo attentato e di vedere di nuovo centinaia o migliaia di americani innocenti uccisi”, afferma oggi.

Zubaydah diventa così il “topo da laboratorio” (è questo il soprannome che gli viene dato dai mezzi d’informazione e dagli specialisti di questo settore) dell’agenzia. Sarà rinchiuso in una scatola delle dimensioni di un feretro, “nutrito” per via anale, osservato nudo per lunghi periodi e sottoposto per ottantatré volte a waterboarding. Paragonata al waterboarding e alla chiusura in un feretro, la nudità potrebbe sembrare un abuso minore. Non lo è, e la Cia lo sa bene. “Gli esperti erano giunti alla conclusione che Abu Zubaydah era una specie di perverso. Secondo loro, denudandolo lo avrebbero sminuito, mettendolo a tal punto in imbarazzo da spezzare la sua resistenza”, spiega con calma John Rizzo.

Damien Roudeau

L’avvocato è cosciente del fatto di aver superato una linea rossa: “Sapevo che il giorno in cui tutto questo fosse venuto fuori, saremmo stati fottuti”, afferma. Perciò si preoccupa di coinvolgere la Casa Bianca nella sua decisione. Le tecniche, secondo i racconti di John Rizzo, furono al centro di riunioni quotidiane nell’ufficio del direttore della Cia, in presenza di alcuni membri del governo scelti con la massima cura (erano presenti, insieme a lui, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice e Colin Powell). Da notare l’esclusione del presidente George W. Bush.

Le tecniche furono discusse una a una. Sempre secondo John Rizzo, la consigliera alla sicurezza nazionale Condoleezza Rice era particolarmente disturbata dalla nudità imposta ai detenuti in alcune fasi degli interrogatori. Aveva capito le gravi derive alle quali un simile provvedimento avrebbe sicuramente condotto? Forse, ma nonostante ciò non si è opposta in modo deciso. “Nonostante le obiezioni, Rice rispetto alla nudità forzata e Powell riguardo la privazione del sonno si sono limitati a dire ‘questa cosa mi mette a disagio’, ma non ci hanno mai detto di non farlo”, sottolinea Rizzo.

Il piccolo comitato convalida la tecnica proposta dagli psicologi. Nel giugno del 2002, Condoleezza Rice, a nome del governo, autorizza la Cia. La “nudità forzata” viene applicata agli individui sospettati dall’Agenzia di intrattenere legami, vicini o lontani, con la nebulosa di Al Qaeda.

La tecnica fu inserita nei memorandum in circolazione al ministero della difesa. Assieme alla tecnica che “sfrutta le fobie individuali”, condusse a quella che potremmo definire “tortura sessuale”. Tranne John Rizzo, nessuna delle persone che abbiamo citato ha accettato di rispondere alle nostre domande. Il 7 ottobre 2016 la Cia ci ha fatto sapere attraverso il suo portavoce Ryan Trapani che l’agenzia non aveva nulla da “rendere noto” sull’argomento, e ha concluso augurandoci “buona fortuna”. Il ministero della difesa, interrogato su questi gravi avvenimenti, preferisce dal canto suo salvarsi in calcio d’angolo. La sua portavoce, la tenente colonnella Valerie D. Henderson, ci ha garantito in una email del 30 dicembre 2016 che “il ministero si impegna a trattare con umanità tutti i detenuti, secondo quanto stabilito dalla legge federale e dagli obblighi internazionali, che includono l’articolo 3 della convenzione di Ginevra. Il divieto della tortura imposto dalla legge americana è assoluto e, come stabilito nel Detainee treatment act del 2005 (la legge sul trattamento dei detenuti che pone ufficialmente fine all’applicazione delle tecniche di interrogatorio rafforzate), nessun individuo detenuto dagli Stati Uniti o posto sotto il loro controllo fisico (…) dovrà essere sottoposto a una punizione o a un trattamento crudele, disumano o degradante”. Aggiunge poi che “il ministero indaga su tutte le accuse credibili di abusi e intraprende le azioni più idonee, tra le quali possono esserci anche azioni penali”.

L’umiliazione può d’ora in avanti spingersi ben oltre la nudità forzata. I soldati non mancheranno di fare ricorso a questo via libera

All’epoca, nei corridoi della Casa Bianca la maggior parte degli alti funzionari è completamente all’oscuro del fatto che la Cia stia lavorando, a poca distanza da lì, per fare in modo che una democrazia legalizzi la tortura. Lawrence Wilkerson credeva di essere a conoscenza dei segreti politici del suo paese, e aveva le sue buone ragioni per crederlo: veterano del Vietnam, era il capo di gabinetto di Colin Powell. Wilkerson ha accettato di rispondere alle nostre domande il 20 ottobre 2016. Lo incontriamo seduto a un tavolino di Starbucks, in un centro commerciale alla periferia di Washington. È un uomo cortese che porta degli occhialetti tondi, un abito elegante in tweed ornato con una spilletta che rappresenta l’aquila americana. “In parole povere, abbiamo saputo dalla televisione di esserci persi la discussione [sulla possibilità di andare oltre la convenzione di Ginevra]”, esclama, ancora oggi scandalizzato.

L’alto funzionario aveva capito di essere stato messo alle strette. Tutto ciò, spiega oggi, rappresentava un “colpo di stato” su iniziativa del vicepresidente Dick Cheney. “Dal 2001 al 2005 il vicepresidente era solito prendere le decisioni e andare nello studio ovale per convincere il presidente a sostenerle. Poi presentava la sua decisione al resto del governo”. Quando capì che la Cia aveva usato il programma Sere per creare le sue tecniche, Wilkerson non rimase in silenzio. “Sono corso da Powell per dirgli: tu che sei un militare come me, riesci a capire come degli stupidi del livello del segretario della difesa abbiano potuto credere a queste sciocchezze? È assurdo che ci siano cascati”.

Lawrence Wilkerson temeva soprattutto che le tecniche della Cia potessero diffondersi nell’esercito. Militare figlio di militare, conosce bene i soldati e sa cosa sono capaci di fare se ottengono carta bianca. Lo scenario temuto non tardò a concretizzarsi. A partire dall’autunno del 2002, l’esercito fece proprie le tecniche d’eccezione create dalla Cia.

Damien Roudeau

Comandante della sezione Joint task force Guantanamo, il generale Michael Dunlavey (che sarà sostituito dal generale Miller il 9 novembre 2002) vuole spezzare le difese di un detenuto particolarmente scaltro, il detenuto 63. Il giovane saudita di 22 anni, di nome Mohammed al Qahtani, era stato catturato a novembre del 2001 in Afghanistan e da mesi aspetta nel carcere di Guantanamo. Il generale chiede e ottiene con la forza della persuasione dal ministro della difesa Donald Rumsfeld l’autorizzazione ad applicare anche a lui le “tecniche di interrogatorio rafforzate”. Per 49 giorni, venti ore al giorno, il detenuto 63 è sottoposto a interrogatorio e a sistematici abusi sessuali. Il personale dell’esercito che conduce gli interrogatori incolla sul suo corpo nudo delle immagini pornografiche, minaccia di stuprare sua madre, lo fa sfilare in reggiseno, come si legge diffusamente nel rapporto in seguito desecretato.

Nell’aprile del 2003 il segretario della difesa Donald Rumsfeld si spinge ancora oltre e dà formalmente carta bianca ai soldati. In un documento, in cui si spiega il modo in cui queste tecniche devono essere applicate, si specifica infatti che “è importante che il personale che conduce gli interrogatori abbia una ragionevole libertà per poter variare le tecniche tenendo conto della cultura del detenuto, dei suoi punti di forza e di debolezza (…) e dell’urgenza di ottenere informazioni che il detenuto di sicuro possiede”. L’umiliazione può d’ora in avanti spingersi ben oltre la nudità forzata. I soldati non mancheranno di fare ricorso a questo “via libera”.

Stuprati a turno
Il cielo incombe sull’agglomerato lionese dove l’autunno arriva un poco alla volta. Dall’autostrada si vedono susseguirsi gli edifici dalle mille finestre del comune di Vénissieux. È qui che ci ha dato appuntamento Nizar Sassi, in un bar della catena Brioche Dorée all’interno di un centro commerciale. “Non sono cose di cui si riesce a parlare facilmente al telefono”, ci aveva anticipato quando l’avevamo chiamato. All’età di 37 anni, questo padre di tre figli ripara ascensori nell’area di Lione. Il suo fisico da attore e la sua esistenza tranquilla non lasciano intravedere nulla del suo passato movimentato. Forse solo il suo sguardo profondo: è uno dei sei “francesi di Guantanamo”. Nizar Sassi è disposto a raccontare gli abusi sessuali, “il peggio” che ha subìto nella prigione cubana. È la prima volta che affronta l’argomento nel dettaglio, per rompere il tabù.

Influenzato da un ragazzo del suo quartiere, a 22 anni Nizar arriva in un campo di addestramento di Bin Laden nell’estate del 2001 con un amico, Mourad Benchellali. Catturato in Pakistan mentre cercava di rientrare in Francia, lo portano nel campo di Kandahar in Afghanistan. “Eravamo tra i primi a essere stati catturati. Siamo stati picchiati, maltrattati, ma la cosa peggiore per me sono stati gli stupri”, ci racconta in un incontro a Vénissieux il 20 settembre 2016.

Dopo essere stato gonfiato di botte, fu condotto assieme a una trentina di altri prigionieri in una tenda. “Eravamo in fila indiana. Ci hanno abbassato i pantaloni e ci hanno stuprati a turno. Non so cosa ci hanno infilato nel sedere, ma è stato estremamente violento. Mi ha dilaniato. Poi ci hanno lavati con l’idropulitrice e ci hanno scaraventati su una montagna di uomini nudi. Nel frattempo, ci scattavano di continuo delle fotografie”. Sebbene abituato a parlare in pubblico, il suo compagno di sventura Mourad Benchellali, che abbiamo incontrato a Parigi l’11 settembre 2016, non è riuscito a dire nulla su questa vicenda. “Vi ricordate le foto di Abu Ghraib con le piramidi di detenuti. Era la stessa cosa. Oltre l’umiliazione”.

In altri casi, sotto pressione per ottenere dei risultati, sono le stesse militari a scegliere di fare dei loro corpi femminili un’arma per umiliare

Secondo i quattro ex prigionieri con cui abbiamo parlato, queste ispezioni abusive venivano praticate sotto lo sguardo attento dei medici. “Loro non ci toccavano. Ma erano dietro la pedana, con i graduati, mentre i soldati ci stupravano. E guardavano”, ricorda l’ex detenuto. Nelle carceri clandestine della Cia i medici vanno ben oltre l’osservazione. Partecipano all’applicazione di presunte procedure mediche per consentire la modifica dei comportamenti dei “pesci grossi” che ritenevano di aver catturato. Protetti dalla classificazione dei diversi rapporti dell’esercito, i nomi di questi medici sono a tutt’oggi segreti.

Sospettato di aver finanziato gli attacchi dell’11 settembre, Mustafa al Hawsawi è stato sballottato per tredici anni nelle prigioni segrete della Cia e a Guantanamo, dove è detenuto ancora oggi. È stato appena operato al retto a spese degli Stati Uniti. Fino a prima dell’intervento soffriva di emorroidi croniche, di lesioni dell’ano e di prolassi. “In pratica aveva una parte dell’intestino che usciva e che doveva rimettere dentro con le mani dopo essere andato di corpo”, spiega il suo avvocato Walter Ruiz, che abbiamo incontrato il 18 ottobre 2016 a Washington.

Senza precedenti particolari, il detenuto ha sviluppato queste disabilità dopo l’arresto. Secondo il suo avvocato, è possibile affermare che si tratti delle conseguenze di una procedura di “reidratazione rettale”, una sorta di lavaggio, e di un’altra procedura nota come “nutrizione per via rettale”. “Il rapporto del senato sulla tortura sottolinea come vengano utilizzati ‘i tubi più grossi tra quelli a disposizione’”, sottolinea l’avvocato. “Si trattava di sodomia, e i medici che hanno inserito con la forza i tubi negli ani dei detenuti continuano a esercitare la loro professione”.

“Questi metodi non esistono nelle procedure, a meno che qualcuno non abbia più l’intestino crasso o non sia in uno stato vegetativo”, sottolinea Sarah Dougherty, specialista di tortura americana per l’associazione di medici e scienziati Physicians for human rights, che offre le sue competenze mediche alle organizzazioni che documentano i crimini contro l’umanità. La dottoressa è indignata: “È uno degli scandali più gravi della storia della medicina, e da parte degli organi professionali sono stati fatti ben pochi tentativi per chiamare in causa i colpevoli”.

Nei corridoi di Guantanamo i racconti di aggressioni sessuali corrono da una cella all’altra. Quelli dei sauditi, degli yemeniti e degli algerini sono i peggiori. Gli vengono spillate addosso delle fotografie tratte da riviste pornografiche e le donne che li interrogano non si mostrano affatto tenere, o forse lo sono anche troppo. Si strusciano addosso ai detenuti, si spogliano, utilizzano biancheria intima e assorbenti per spingerli a parlare. “Facevano spesso ricorso a tecniche di umiliazione sessuale sui detenuti mediorientali”, spiega Nizar Sassi. “Questi uomini non avevano mai avuto a che fare con una donna occidentale, né tantomeno con una donna nuda che faceva finta di concedersi. Erano traumatizzati, temevano più questo che le percosse”.

Damien Roudeau

Donne che si spogliano nelle stanze degli interrogatori di Guantanamo? Mourad Benchellali si ricorda di una di loro appoggiata alla parete, completamente nuda e muta per tutta la durata di uno dei suoi interrogatori. Dai rapporti interni dell’esercito riguardanti le prigioni di Guantanamo e di Abu Ghraib (nel rapporto Schmidt, che riguarda Guantanamo, si fa per esempio riferimento a soldate che fanno la lap dance o che utilizzano l’inchiostro rosso per simulare il sangue mestruale e il profumo femminile con l’obiettivo di destabilizzare i detenuti. I rapporti Fay, Chruch e Taguba riferiscono di fatti simili accaduti ad Abu Ghraib), si sa che queste donne erano militari. Nel rapporto Schmidt, un ufficiale dei servizi di intelligence confessa di aver chiesto a una delle sue sottoposte di comprare un profumo da donna a buon mercato e di cospargersi le mani per poi strofinarle addosso a un detenuto che pregava, per fiaccare la sua resistenza (rapporto Schmidt. Testimonianza di un graduato presentato nel rapporto come capo dell’Intelligence control element, Ice).

In altri casi, sotto pressione per ottenere dei risultati, sono le stesse militari a scegliere di fare dei loro corpi femminili un’arma per umiliare. Nel libro Inside the wire, l’ex traduttore dell’esercito Erik Saar racconta i retroscena di un interrogatorio condotto assieme a una soldata, Brooke. Secondo quest’ultima, il detenuto trae la sua capacità di resistenza dalla preghiera. “Lo renderò impuro e gli impedirò di pregare”, spiega (Erik Saar, Inside the wire, pagina 223). “Non ti piacciono questi grossi seni americani, Fareek?”, lo apostrofa. “Vedo che comincia a venirti duro”. Dietro consiglio di una guardia, la giovane donna si spinge fino a far credere al detenuto, già sconvolto, che lo imbratterà con sangue mestruale. Erik Saar ricorda la sua collega, sconvolta dal suo stesso comportamento: “Mi ha guardato e si è messa a piangere. Pensava di aver fatto del suo meglio per avere le informazioni che i capi le chiedevano di ottenere” (opera citata, pagina 228).

I soldati non erano obbligati a rispettare le leggi
A Guantanamo Mark Fallon era incaricato di indagare sui detenuti affinché fosse possibile giudicarli. Era il vicecomandante di una sezione penale interna al dipartimento della difesa (Citf) creata ad hoc. Il 19 ottobre del 2016, a Washington, l’ex ufficiale ormai in pensione ricorda quel periodo che ancora lo tormenta. Un periodo in cui aveva cercato di lanciare l’allarme insieme a un pugno di altri militari di alto rango (abbiamo incontrato anche Alberto Mora, ex avvocato generale della marina che ha cercato di lanciare l’allarme, e Steven Kleinman, ex esperto di intelligence militare presso il ministero della difesa, inserito in una lista nera dopo aver espresso la sua opinione riguardo a nuovi metodi di raccolta di informazioni nel 2003), per denunciare atti “vergognosi e deplorevoli”.

Noto per la sua grande esperienza negli interrogatori, maturata in veste di agente speciale, Fallon, un uomo dall’aspetto austero, per anni si è introdotto in reti criminali, travestendosi all’occorrenza da spacciatore, cacciatore di frodo di elefanti o trafficante di armi. Indagava su Al Qaeda dagli anni novanta. Com’è logico dunque le autorità americane si rivolsero a lui quando decisero di istituire una sezione preposta alla raccolta di informazioni sui prigionieri detenuti a Guantanamo.

Il comandante Fallon guidava una squadra di 230 persone che doveva lavorare fianco a fianco con i soldati del generale Geoffrey D. Miller, comandante della Joint task force Guantanamo con sede nella prigione cubana (il generale Miller ha preso il posto di George Dunlavey nel dicembre del 2002). Questi due militari erano agli antipodi, e diventarono avversari. Mark Fallon non aveva alcuna stima per questo generale di artiglieria senza alcuna esperienza di intelligence militare. Dal canto suo, Miller era infastidito dalla ‘mansuetudine’ di Fallon. “Si vedeva: volevano sottoporre i detenuti a waterboarding. Le sue truppe spogliavano i detenuti, li bagnavano, era una cosa offensiva e da dilettanti”, ricorda Fallon. “Ero preoccupato, perché il generale Miller era uno specialista di artiglieria, non sapeva niente di intelligence o di come si interroga un detenuto. Gli era stato chiesto di fare il lavoro sporco ed era stato promosso”.

Fino a oggi i burocrati di Washington se la sono cavata bene. Le possibilità che le cose cambino sono poche

Nel giro di poco tempo gli uomini di Mark Fallon cominciarono a riferire al loro capo di pratiche inquietanti che si verificavano sotto gli ordini del generale Miller. Profondamente sconvolto, il 28 ottobre 2002 il militare spedisce al consiglio della marina, l’istituzione responsabile della base navale di Guantanamo, un’email che siamo riusciti a procurarci. “Dobbiamo assicurarci che i servizi dell’avvocato generale della marina (Alberto Mora) siano al corrente delle tecniche adottate dalla sezione 170 (diretta dal generale Miller). Alcuni commenti della tenente Diane Beaver, come quello secondo cui ‘se il detenuto muore non ci avete saputo fare’ o ‘il personale medico deve essere presente per occuparsi di eventuali incidenti’, sembrerebbero dimostrare come esse fossero al di fuori della legalità (…). Qualcuno deve pensare al modo in cui la storia giudicherà tutto questo”, si legge.

A settembre del 2003 il generale Miller viene comunque mandato in Iraq con la missione di “Guantanamizzare” la prigione di Abu Ghraib, ossia di importarvi i metodi di interrogatorio utilizzati a Cuba. “Quando l’ho visto partire alla volta dell’Iraq, ho mandato uno dei miei uomini per neutralizzarlo. Temevo che se Miller fosse andato laggiù, sarebbe stato come un cancro maligno che si sarebbe diffuso. Si sarebbero verificati gravi abusi”.

Appena un anno dopo, nell’aprile del 2004, Mark Fallon capisce che il suo incubo è diventato realtà. Le foto della prigione irachena di Abu Ghraib fanno il giro del mondo. Prigionieri nudi ammassati in piramidi, gli uni con la testa legata ai piedi degli altri, o costretti a masturbarsi davanti a soldati che ridono. Altri vengono tenuti nudi al guinzaglio da donne in uniforme. L’America intera è sotto shock. Il ministro della difesa Donald Rumsfeld attribuisce subito la responsabilità di questa deriva a pochi soldati isolati. Qualche “mela marcia” (l’espressione è stata usata per la prima volta in una conferenza stampa nell’estate del 2004).

Dopo lo scandalo di Abu Ghraib, la maggior parte dei soldati riconoscibili sulle foto riceve una punizione, e iniseme a loro la comandante della prigione, Janis Karpinski. Solo loro sono stati chiamati in causa. “Janis Karpinski sostiene di non essere colpevole, e io sono d’accordo con lei. È stata un capro espiatorio”, afferma Lawrence Wilkerson, ex braccio destro di Colin Powell. “Alcuni personaggi invece dovrebbero essere perseguiti per crimini di guerra, a partire da Dick Cheney. Il minimo che si sarebbe dovuto fare sarebbe stato rimuoverli dai loro incarichi”.

Fino a oggi, però, i burocrati di Washington se la sono cavata bene. Le possibilità che le cose cambino sono poche. Durante la campagna per le presidenziali del 2016, il candidato repubblicano Donald Trump ha promesso di “riempire Guantanamo di brutti ceffi” e di ripristinare l’uso del waterboarding (in occasione del dibattito del 3 marzo 2016 a Detroit l’allora candidato ha ritrattato il suo consenso all’uso del metodo del waterboarding, aggiungendo che “con questi animali del Medio Oriente”, cioè il gruppo Stato islamico, “dovremmo andarci giù ancora più pesante”).

È noto che una volta eletto ha cambiato idea (Trump è tornato su quelle affermazioni il 22 novembre, dichiarando al New York Times di essere stato convinto dalle argomentazioni del generale della marina James Mattis. Il militare aveva dichiarato: ‘Datemi un pacchetto di sigarette e due birre e me la caverò meglio [che con la tortura]’, un’affermazione che aveva “colpito” il presidente), ma c’è comunque da scommettere che sceglierà di guardare al futuro senza riconoscere i crimini dell’America. Un paese che, per un certo periodo di tempo, ha fatto dell’arma sessuale uno strumento di lotta al terrorismo.

Nizar Sassi, il corpo segnato dal suo passaggio da Guantanamo, finisce il suo caffè lungo alla Brioche Dorée. Come gli altri cinque ex detenuti di Guantanamo, ha cercato di ottenere il riconoscimento della tortura e degli stupri subiti nell’ambito di una denuncia collettiva che ha pochissime possibilità di concludersi positivamente. Il generale Miller, all’epoca soprannominato “il re di Guantanamo”, è stato convocato dagli inquirenti francesi nel marzo del 2016. Non si è presentato: non era obbligato a farlo. Come molti altri, Nizar Sassi ha perso la speranza nell’umanità. “Mi affido al giudizio estremo”, precisa. “Al giudizio di Allah”.

Questa inchiesta fa parte di una serie in sei parti del progetto Zero Impunity, che documenta e denuncia l’impunità di cui godono i responsabili di violenze sessuali in contesti di guerra. Il progetto è a cura di Nicolas Blies, Stéphane Hueber-Blies e Marion Guth (a_Bahn), un gruppo di “documentaristi attivisti” che attraverso il loro sito promuovono anche una mobilitazione online per chiedere alle autorità di dotarsi degli strumenti necessari a combattere questo fenomeno e a perseguire i colpevoli.

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