04 agosto 2023 15:32

Questo articolo è stato pubblicato l’8 novembre 2019 nel numero 1332 di Internazionale.

“Play. Loading 100%”. E all’improvviso sei una donna con un piccone in mezzo a un prato. Intorno a te corrono personaggi di tutti i tipi, alcuni fanno dei balletti. Tu sei vestita normalmente – maglietta verde, pantaloni beige – mentre gli altri indossano tenute stravaganti: ci sono una ragazza in rosso, una vestita da Catwoman e perfino qualcuno con un costume da banana e un enorme ghiacciolo tra le mani.

Poi parte il Battlebus, un vecchio scuolabus blu appeso a una mongolfiera. Sotto di te vedi scorrere una piccola isola, finché non decidi di lanciarti. Proprio quando pensi che stai per schiantarti a terra, il paracadute si apre e fluttui dolcemente nell’aria. Sembra che non ci sia nessuno. Bene! Ti metti in cerca di armi.

Più avanti c’è un ristorante abbandonato, forse lì c’è qualcosa. Entri cautamente, perché gli edifici attirano anche gli altri giocatori e novantanove di loro si sono lanciati dal bus insieme a te. Per fortuna sei la prima ad aprire la cassaforte dietro il bancone: dentro ci sono un fucile da cecchino e delle medicine. Ora bisogna trovare un posto da cui puoi vedere gli altri senza che gli altri vedano te.

Dalle nove a mezzanotte
Benvenuti nel mondo di Fortnite. “L’ho scoperto ad aprile dell’anno scorso”, dice Tomas, 27 anni. “Credo che sia cominciato tutto da lì”. Tomas ha dedicato l’ultimo anno e mezzo della sua vita a questo gioco. “Cos’altro ho fatto?”, si chiede. Segue un lungo silenzio. Tomas fissa il pavimento e si passa le mani tra i capelli. Ci troviamo nella clinica Hervitas a Zeist, vicino a Utrecht. Tomas è qui solo da ieri. “Quando gioco posso estraniarmi dalla realtà, non penso più a niente”. Di nuovo silenzio. “Ho passato davvero molto tempo a giocare”, sussurra.

Nelle giornate peggiori giocava dalle nove di mattina a mezzanotte. Ogni tanto pensava di andare all’università per lavorare alla sua tesi. “Ma poi vedevo il computer e mi dicevo: solo un’oretta. Prima che me ne rendessi conto era ora di pranzo”. E tra una partita e l’altra? “Andavo su YouTube e guardavo video di altri che giocavano”, racconta Tomas con una risata.

C’erano giorni in cui non usciva dalla sua stanza, perché non aveva il coraggio di farsi vedere dai suoi coinquilini. Non si azzardava a mettere piede in cucina e mangiava per lo più pane secco e biscotti. Cercava anche di andare in bagno il meno possibile. “Poggiavo l’orecchio sulla porta per sentire se c’erano gli altri ed essere sicuro di non incontrare nessuno”.

I casi di ragazzi che giocano ai videogiochi anche ottanta ore alla settimana sono sempre più numerosi. Le sale d’attesa dei centri di recupero specializzati si riempiono. Oggi molti dei giochi più popolari – Fortnite in testa – sono gratuiti, a differenza di dieci anni fa, quando bisognava pagare 60 euro per una scatola con dentro un cd-rom. All’epoca gli sviluppatori realizzavano così i loro profitti, mentre oggi cominciano a guadagnare solo quando il giocatore cede alla tentazione di fare qualche acquisto. Come un costume da banana su Fortnite.

Le strategie per spingere i giocatori a spendere sono sempre più raffinate. I grandi produttori, soprattutto statunitensi, assumono psicologi per attirare più giocatori possibile. Usano tecniche ideate nel mondo del gioco d’azzardo per generare un gran numero di “microtransazioni”. Nel 2018 l’industria internazionale dei videogiochi ha realizzato un fatturato di 123 miliardi di euro: il doppio rispetto al 2012. In tutto il mondo si contano più di due miliardi di giocatori. Lo scorso luglio si è tenuto un campionato mondiale di Fortnite in uno stadio di New York, e si è registrato il tutto esaurito. Due milioni di persone hanno assistito al campionato via internet. I partecipanti hanno vinto premi per un totale di trenta milioni di dollari.

Van Rooij sostiene che l’industria dei videogiochi non si assume la responsabilità degli effetti dei suoi prodotti e “dà la colpa a cause pregresse come la depressione”

Parallelamente cresce il numero di persone che soffrono di dipendenza dai videogiochi. Nei Paesi Bassi, però, non esiste un ente che registri la portata di questo aumento. Il consorzio per il giornalismo investigativo Investico e il programma televisivo Nieuswuur, che hanno realizzato questa inchiesta per il Groene Amsterdammer, hanno visitato le cliniche di recupero olandesi. Hanno scoperto che negli ultimi tre anni il numero di ragazzi ricoverati per dipendenza da videogiochi è raddoppiato. Le liste d’attesa sono lunghe: “Accettiamo solo i casi più gravi”, dice un impiegato della clinica.
Si stima che nel 2019 le cliniche specializzate olandesi ospiteranno tra i cinquecento e i mille ragazzi (sono quasi sempre maschi) dipendenti dai videogiochi. Sono numeri certamente più bassi rispetto alla dipendenza da alcol o da droghe, ma solo una piccolissima parte dei giocatori patologici viene ricoverata.

Curva discendente
“Storm eye shrinking!”. Sull’isola infuria una tempesta, il campo di gioco si restringe e i giocatori rimasti sono costretti ad avvicinarsi. Tu resti nascosta in alto con il tuo fucile da cecchino. Catwoman non si accorge nemmeno quando il proiettile la colpisce. Anche la ragazza con lo snowboard cade sotto i tuoi colpi. Due giocatori in meno: la vittoria si avvicina.

Rimanete in tre. L’isola è ormai ridotta a due colline, un prato e qualche edificio. Se rimarrai solo tu, vincerai un ombrello da Mary Poppins con cui raggiungere l’isola successiva. Poi, a un tratto, arriva una granata. Bum! Game over. Pochi secondi dopo riappare la schermata: “Play. Loading 100%”.

A poco più di vent’anni, Victor aveva perso ogni contatto con i genitori, anche se vivevano sotto il suo stesso tetto. “La mattina scendevo a farmi un panino, che imbottivo fino a farlo scoppiare così non dovevo mangiare per il resto della giornata. Oppure fingevo di andare a scuola, aspettavo che mia madre uscisse di casa e tornavo a giocare”. All’epoca giocava soprattutto a Call of duty, uno sparatutto militare, e al gioco di strategia online League of legends.

“Con 35 dollari si comprano più o meno cinquemila riot point”, spiega Victor, “con i quali poi si possono comprare quattro o cinque skin, cioè costumi per i personaggi. Ogni tanto regalavo delle skin ai miei amici”. A 18 anni Victor ha avuto accesso a un conto di risparmio aperto dai genitori. “C’erano 4.700 euro. Nel giro di un anno e mezzo li ho spesi tutti”.

La finale europea del torneo di League of Legends a Parigi, settembre 2017. (Adrien Vautier, Le Pictorium)

Victor sottolinea che a creare dipendenza dal gioco non sono tanto le vittorie, quanto il senso di squadra. “Il gioco era la mia vita sociale”. Victor ha perso il lavoro e ha smesso di studiare. “Cenavo tardi con un sacchetto di patatine e compravo bevande energetiche per poter continuare a giocare”. Quando sua madre lo ha mandato in una clinica di recupero pesava 55 chili. Da allora sono passati quattro anni.

Anche se può sembrare strano, all’epoca Victor non era ufficialmente affetto da una dipendenza. Fino a poco tempo fa, infatti, non esisteva una definizione clinica di “dipendenza da videogiochi”, come spiega Tony van Rooij, responsabile del progetto sulla dipendenza da videogiochi e scommesse dell’istituto Trimbos di Utrecht. Solo nel 2018 l’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato una definizione. “Per fortuna si tratta di una definizione molto rigida: una persona dipendente dai videogiochi gioca a lungo e in modo ossessivo, sviluppando tra le altre cose gravi problemi sociali, mentali e fisici”.

È difficile capire esattamente quanti giocatori rientrino in questa definizione, perché la dipendenza è l’ultima fase di una curva discendente. “Noi distinguiamo quattro fasi”, dice Van Rooij, che nel tempo libero si diverte con i videogiochi. “La prima coincide con il semplice giocare, in cui non c’è nulla di problematico”. Nella seconda fase si riconosceranno anche molti giocatori non abituali: “Io la chiamo ‘senso di disagio’. Si passa più tempo al telefono di quanto si vorrebbe e ci si ritrova a scorrere l’homepage di Facebook senza motivo”. La terza fase è quella del “gioco problematico”. “Una conseguenza, per esempio, è che si comincia ad arrivare tardi a scuola”. Ma anche chi raggiunge la terza fase non è necessariamente dipendente. “Solo una piccola parte di giocatori arriva al punto di non andare più a scuola”.

Van Rooij illustra gli aspetti positivi e negativi dei videogiochi. “Genitori e insegnanti si fanno prendere dal panico: se un adolescente perde la rotta anche solo per un momento, si spaventano”. Al tempo stesso sostiene che l’industria dei videogiochi non si assume la responsabilità degli effetti dei suoi prodotti. “I produttori danno la colpa a cause pregresse come la depressione. Ma è un discorso che vale per tutte le dipendenze: non c’è un alcolizzato che non sia anche depresso”. Secondo quasi tutti gli esperti che abbiamo interpellato, i casi di dipendenza da videogiochi sono in aumento. Nessuno però azzarda una stima. Per avere un’idea della situazione, Investico si è rivolta a venti delle principali cliniche di recupero olandesi, che nel 2018 si sono occupate di quasi cinquecento casi: il doppio rispetto al 2015.

Nel 2019 si registra un’ulteriore crescita. I dati delle cliniche per ragazzi Yes we can, in particolare, non lasciano dubbi. Il numero di ricoveri fino a metà agosto supera già il totale dell’anno scorso.

Un posto tranquillo
Il cancello nero si apre lentamente su un vialetto costeggiato da alberi imponenti. Intorno si vedono stagni idilliaci e prati perfetti. Benvenuti a Groenendael, una clinica Yes we can che ha sede in un ex centro congressi della Philips. Un posto che trasmette tranquillità.

Jan Willem Poot – che tra i 12 e i 27 anni è stato dipendente da alcol e droghe – ha fondato la clinica nel 2011. La sua struttura accoglie un numero crescente di videogiocatori. “Tra i ragazzi che vengono da noi, i videogiochi sono il secondo problema più frequente dopo la cannabis. Nel 2011 non era così”. I ragazzi sono ammessi nella clinica solo in presenza di tre requisiti: soffrono di un problema così grave da non poter più vivere a casa loro, ogni altro aiuto esterno si è rivelato inutile e le loro condizioni di vita sono tali che il mancato ricovero comporterebbe problemi peggiori o addirittura la morte.

Secondo Poot i videogiochi creano sempre più spesso dipendenza. “Non abbiamo mai accolto nessuno che fosse dipendente da Tetris. Parliamo di giochi che hanno un effetto molto pesante sul cervello dei ragazzi e possono lasciarli storditi, come succede con l’alcol, le droghe e le scommesse. Ci sono ragazzi che stanno chiusi in camera a giocare diciotto ore al giorno per tre, quattro, cinque anni. La loro igiene è molto scarsa. Fanno meno di una doccia alla settimana e vanno in bagno troppo di rado. I genitori sono così disperati che gli lasciano da mangiare davanti alla porta. Non vedono più i loro figli. Certi ragazzi arrivano qui con migliaia di euro di debiti. Rubano carte di credito”. Molti giocatori creano reti sociali online, e si sviluppa così una pressione di gruppo che rafforza la dipendenza: “Si contagiano a vicenda”.

Sia gli operatori delle cliniche sia i produttori di videogiochi hanno la sensazione che tutto vada troppo velocemente

I ragazzi fra i 13 e i 23 anni vengono ricoverati per dieci settimane. Seguono sessioni di terapia individuale e di gruppo. Il portavoce della clinica apre una porta oltre la quale è in corso una di queste sessioni. Un gruppo di ragazzi siede in cerchio in una grande sala. Alzano gli occhi, sorpresi. Molti avevano perso la nozione del tempo. “Spesso in clinica arriva il momento in cui si rendono conto di aver sprecato anni della loro vita passati a fissare uno schermo”, spiega Poot. I pazienti fanno sport per due o tre ore al giorno: ci sono diversi campi da gioco e una parete da arrampicata. “Se guardi bene, riconosci subito i ragazzi con una dipendenza da video giochi. Sono quelli più goffi”.

Alcuni manifestano sintomi di astinenza come sudori freddi, attacchi di panico e aggressività. Certi soffrono perfino di allucinazioni. “Per esempio credono di vedere qualcosa che spunta da dietro un albero. E ci pensano per giorni o settimane. Sono casi estremi”.

Il ballo della L
Antoine Griezmann, attaccante della nazionale francese di calcio, alza un braccio nell’aria. Ha appena segnato il gol del 2 a 1 nella finale dei Mondiali del 2018. Si mette la mano destra sulla fronte e tende l’indice e il pollice a formare una L. Poi fa un balletto che ricorda la danza dei cosacchi, alzando le ginocchia.

Alla maggior parte degli spettatori sarà sfuggito, ma di certo non a chi gioca a Fortnite: il balletto di Griezmann si chiama “Taking the L”, ed è una delle mosse che si possono acquistare nel gioco. Nelle scuole di tutto il mondo i ragazzi si esercitano a replicare i balletti di Fortnite durante la ricreazione.

È un segnale del successo di quello che è diventato il ramo principale dell’industria dell’intrattenimento. Nel 2018 infatti il giro d’affari dei videogiochi era tre volte superiore a quello di Hollywood. Ma i produttori non si assumono la responsabilità delle conseguenze negative. Per cominciare, negano che i videogiochi possano creare dipendenza. “È in corso un acceso dibattito scientifico sull’esistenza stessa della dipendenza da videogiochi. Noi crediamo che non esista”, ha dichiarato Anne de Jong, direttrice dell’Nvpi (organizzazione che rappresenta, tra gli altri, molti produttori olandesi di videogiochi) all’inizio del 2019. De Jong riconosce che alcuni giocatori passano troppe ore davanti allo schermo, ma “i ragazzi si rifugiano nei videogiochi solo se hanno già altri problemi”. Quest’anno l’Nvpi ha lanciato la campagna informativa Rule the game, che esorta i genitori ad affrontare il problema insieme ai figli. La parola “dipendenza” non compare mai. Quando Investico le ha chiesto se è ancora convinta che la dipendenza da videogiochi non esista, De Jong non ha risposto.

Nei videogiochi gli elementi che creano dipendenza stanno aumentando. Per esempio c’è la loot box, un “bottino” che in un videogioco si può vincere o comprare. In Fifa, popolarissimo videogioco di calcio, i giocatori possono comprare delle figurine virtuali e collezionare calciatori per la propria squadra. Un pacchetto può contenere campioni come Lionel Messi, ma più spesso ci si trovano sportivi di livello molto più basso. Nel 2018 il ricercatore norvegese Rune Mentzoni ha cercato di capire con che frequenza si ottiene una stella del calcio: dopo aver comprato pacchetti per un valore di 3.800 euro non aveva nemmeno un campione.

Sappiamo che l’incertezza del risultato crea dipendenza: le slot machine funzionano secondo lo stesso principio. Anche il linguaggio dei videogiochi è influenzato dal mondo delle scommesse. I produttori di giochi gratuiti devono quasi la totalità delle loro entrate alle cosiddette “balene”, giocatori pronti a spendere cifre spropositate. Il termine è nato dai casinò di Las Vegas, dove indica le ricche vedove che spendono milioni di dollari in un fine settimana.

Le loot box sono solo un esempio dei tanti meccanismi che creano dipendenza. La psicologa Celia Hodent ha lavorato per anni alla Epic Games, l’azienda che produce Fortnite, dove si occupava di “ottimizzare l’esperienza di gioco”. Oggi è una consulente indipendente. In un video su YouTube illustra alcune tecniche manipolatorie. “La paura di perdersi qualcosa – fear of missing out (Fomo) – è una leva importante, specialmente nel caso dei più giovani”, dice. Alcuni produttori mettono a disposizione delle novità per un periodo brevissimo, per spingere il giocatore a non perdersele.

C’è poi il cosiddetto guilt tripping: si fa leva sul senso di colpa dei giocatori per fidelizzarli il più possibile. Un ragazzo ricoverato in una clinica Yes we can aveva mandato un’email ai produttori di League of legends scrivendo di essere dipendente dal gioco ormai da sei anni e di voler cancellare il suo account. L’azienda ha accolto la richiesta, ma ha aggiunto: “Ci dispiace che tu abbia preso questa decisione. Siamo tristi all’idea di dover cancellare il tuo account”.

I produttori di videogiochi hanno depositato vari brevetti. La Activision, per esempio, ha richiesto un brevetto su un algoritmo che punta a incrementare le microtransazioni. Quando si comincia a giocare, il sistema mette il principiante di fronte a giocatori esperti con armi migliori. Quando poi il principiante per disperazione compra un’arma migliore, l’algoritmo lo mette di fronte a un giocatore inesperto, così è subito gratificato per l’acquisto.

Milioni di monetine
C’è qualcuno che può proteggere i bambini da queste manipolazioni? Secondo l’Autorità olandese sul gioco d’azzardo le loot box rientrano a tutti gli effetti nelle categorie delle scommesse. Ma come spiega Jork Netten, responsabile della vigilanza sui videogiochi, “possiamo intervenire solo in presenza di un valore economico”. Per la legge, infatti, il gioco d’azzardo è tale quando il premio è in denaro, mentre spesso le loot box contengono oggetti utilizzabili esclusivamente al’interno del videogioco. Le loot box sono illegali solo quando gli oggetti virtuali possono essere scambiati con soldi veri e propri. L’anno scorso Netten ha esaminato dieci giochi, quattro dei quali contengono loot box illegali. Non vuole rivelare quali: “Preferiamo non fare nomi”.

Eppure Netten vorrebbe intervenire anche contro il resto delle loot box e delle tecniche manipolatorie. “Anche se non si vincono soldi, sono pur sempre dei premi. Ma ricadono al di fuori del nostro raggio d’azione”.

“Come deve svolgersi oggi una giornata perché sia considerata sana? La nostra idea di ‘lavoro’ e ‘passatempo’ è cambiata profondamente”

Vincent van Diemen dirige la casa di produzione Sparkling Society. Nel suo ufficio a Delft c’è uno schermo su cui si legge il tempo medio trascorso dai giocatori di fronte a ciascuno dei videogiochi dell’azienda e la quantità di denaro che spendono. Al momento della nostra visita la resa media per utente arriva al massimo a – tenetevi forte – 0,3 centesimi al mese. “È un giro d’affari fatto di monetine”, dice Van Diemen con una risata. Ma la somma di tutti quei centesimi è piuttosto importante: i giochi della Sparkling Society sono stati scaricati più di cento milioni di volte in tutto il mondo.

Van Diemen non sviluppa giochi in cui ci si avventura in gruppo attraverso luoghi fantastici. Nei suoi prodotti, come City Island 5, ci si cala nei panni di un urbanista, di un sindaco o del proprietario di una fabbrica. “Guadagniamo seducendo le persone”, spiega. “Siamo un’azienda, non un ente benefico”. Quando è sul punto di perdere per la prima volta, il giocatore riceve un po’ di punti gratis, così da poter continuare a giocare. È una formula di grande successo.

Van Diemen è spaventato dal dibattito sulla dipendenza dai videogiochi. “Non deve diventare una caccia alle streghe. Sono trent’anni che ci accusano di rendere aggressivi i bambini. Non c’è niente di vero. Inoltre certe strategie di marketing si vedono dappertutto: al supermercato, per strada o in televisione”. Ammette che alcuni ragazzi perdono troppo tempo davanti ai videogiochi. “Ma la dipendenza da videogiochi non è come quella dalle droghe o dall’alcol”.

Il settore va a tutta velocità e si corre sempre il rischio di essere sorpassati. È per questo, secondo Van Diemen, che si adottano tecniche in grado di creare dipendenza, spesso addirittura involontariamente. In Warframe, per esempio, i giocatori potevano cambiare a proprio piacimento l’aspetto dei personaggi in cambio di una piccola somma. “Alcuni giocatori arrivavano a farlo duecento volte al giorno”, spiega il produttore Sheldon Carter in un documentario. “Ci guardavamo increduli. Avevamo creato una macchina da soldi”.

Van Diemen non ha intenzione di applicare meccanismi simili nei suoi giochi, ma ammette che oggi si ritrova a fare cose che un anno fa gli sembravano scorrette. “E forse l’anno prossimo faremo cose che oggi mi sembrano inaccettabili”. Quali sono i confini che non è disposto a superare? “Molto difficile dirlo. È tutto molto elastico”.

Mi chiamo Boyd
“Mi chiamo Mike e sono dipendente dai videogiochi”. “Ciao Mike”, rispondono meccanicamente i presenti. Sei (ex) dipendenti da videogiochi si sono riuniti in una saletta della clinica Hervitas a Zeist per parlare del loro recupero. Ci sono ragazzi, ma anche adulti: Mike legge a voce alta le regole della sessione. “L’anonimato è di massima importanza. Ciò che vedrete e ascolterete stasera dovrà rimanere qui dentro”. I presenti battono il pugno sul tavolo e dicono: “Qui dentro”.

Dopo un breve silenzio si sente dire: “Mi chiamo Boyd e sono dipendente dai videogiochi”. “Ciao Boyd”. Boyd ha l’aspetto di uno che va spesso in palestra. “Manco da due settimane”, dice sottovoce. “Ho avuto molti alti e bassi. Sono ricaduto in vecchi comportamenti, sono stato verbalmente aggressivo. Per fortuna sono stato riammesso a questi incontri, ho capito quanto sono importanti. Grazie”.

Il gruppo di discussione Compulsive gamers addicts anonymous (Cgaa, dipendenti compulsivi dai videogiochi anonimi) è stato creato da Floris Verdoes, 22 anni, ex dipendente da videogiochi. Finita la scuola, Floris ha passato due anni e mezzo a giocare compulsivamente a World of warcraft e Heroes of the storm. Dopo il ricovero in clinica ha continuato a informarsi regolarmente sui videogiochi. “Volevo sapere cosa stava succedendo. Avevo una specie di orologio biologico: ogni tre o quattro settimane sentivo il desiderio di Heroes of storm. Controllavo se c’erano aggiornamenti e li leggevo per calmarmi”. Ascoltava anche le musiche dei suoi giochi preferiti. A volte le suonava al pianoforte. “Mi chiedevo: sarà pericoloso? Dov’è il confine? Volevo parlarne con qualcuno”.
Agli incontri partecipa in tutto una trentina di persone. Sven, 14 anni, è arrivato con suo padre e per un po’ non ha aperto bocca. A un certo punto, nonostante gli sudino le mani, si fa coraggio e prende la parola: “Mi chiamo Sven e sono dipendente dai videogiochi”. “Ciao Sven”. “Domani comincia il nuovo anno scolastico”, dice. “Classe nuova, facce nuove. I miei nuovi compagni di classe non sanno com’ero prima. Perciò sono molto teso. Grazie”.

Sia gli operatori delle cliniche sia i produttori di videogiochi hanno la sensazione che tutto vada troppo velocemente. Il modo in cui le aziende fanno soldi è cambiato radicalmente rispetto a dieci anni fa e nessuno sa prevedere le conseguenze. “Il gioco eccessivo e la dipendenza fanno parte di un problema più ampio”, spiega Tony van Rooij. “Come deve svolgersi oggi una giornata perché sia considerata sana? La nostra idea di ‘lavoro’ e ‘passatempo’ è cambiata profondamente. Al momento non abbiamo criteri precisi per stabilire cosa è ‘sano’ e cosa no. Sta cambiando tutto”.

Il 2 febbraio l’isola di Fortnite ha ospitato una moltitudine di giocatori che per una volta non cercavano di uccidersi l’un l’altro: il dj Marshmello ha dato un concerto virtuale da un palco costruito ad hoc all’interno di Pleasant park. I personaggi si esibivano nelle loro danze ripetitive, legnose e fuori tempo, comprate attraverso microtransazioni.

“Come va, Fortnite?”, ha gridato il dj. Dieci milioni di giocatori si sono connessi per partecipare all’evento: durante lo spettacolo nessuna arma ha sparato. “Un concerto in un videogioco: sembra di assistere al futuro”, ha scritto il sito statunitense The Verge. In seguito il video dell’esibizione postato su YouTube ha superato i 42 milioni di visualizzazioni. Il volume si alza, Marshmello attacca la sua hit Alone, lo schermo si riempie di coriandoli e fuochi d’artificio. Il testo della canzone recita: “Sono così solo. Niente sa di casa. Sono così solo. Tento di ritrovare la via di casa, verso di te”.

(Traduzione di Stefano Musilli)

Questo articolo è stato pubblicato l’8 novembre 2019 nel numero 1332 di Internazionale.

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