11 novembre 2017 13:02

James Holden & The Animal Spirits, Spinning dance
Negli ultimi anni gli incroci tra musica elettronica e jazz si sono fatti sempre più frequenti. Capita spesso di sentire dischi in cui ai sintetizzatori si affiancano batteria, fiati e contrabbasso. Le ultime produzioni di Flying Lotus, che devono molto allo spirito della prozia Alice Coltrane, avevano un po’ anticipato i tempi. Il successo di Migration, l’ultimo album di Bonobo (uno che da sempre punta su questo tipo di arrangiamenti, seppur con una sensibilità più pop) è stato uno degli ultimi esempi. Del resto ormai il concetto di genere musicale sta diventando sempre più obsoleto.

Il nuovo album dell’ex ragazzo prodigio James Holden, in un certo senso, s’inserisce in questo solco: il suo autore l’ha definito “folk trance”, che vuol dire tutto e niente. Per provare a inquadrarlo, si potrebbe dire che The Animal Spirits è un disco di musica elettronica travestita a volte da jazz a volte da post rock, dove accanto a Holden suona una vera band, gli Animal Spirits. È un album dallo spirito quasi panico, che sembra pensato come un omaggio alla natura.

La ricorrenza ossessiva delle melodie e dei crescendo fa pensare alla musica da club, ma alcuni suoni potrebbero venire tranquillamente da un disco di Don Cherry o di Pharoah Sanders, i due giganti del jazz americano che Holden ha citato tra gli ispiratori del nuovo corso, o da un disco dei Mogwai. Questi elementi non erano del tutto estranei alla musica di Holden: basta riascoltarsi The inheritors del 2013.

A queste influenze, il musicista britannico aggiunge ovviamente la sua sensibilità: Spinning dance, un brano dalle tinte quasi celtiche, sarebbe un ottima colonna sonora per una serie tv horror, mentre altri (Each moment like the first) sono perfetti per una giornata di pioggia in città. Alcuni pezzi, come The beginning & end of the world, sono al confine con la musica ambient. The animal spirits è un disco sorprendente. Non è perfetto, perché a tratti gli assoli dei fiati sembrano togliere un po’ di forza ai brani, ma apre strade sonore davvero interessanti per la carriera di James Holden. E non solo per la sua.

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21 Savage, Offset & Metro Boomin, Ghostface killers (feat. Travis Scott)
Il 31 ottobre, ad Halloween, i rapper 21 Savage e Offset (che fa parte del trio Migos) hanno pubblicato un album intitolato Without warning, prodotto da Metro Boomin. Un disco di trap oscura, con il solito contorno di droga e violenza, diciamo non adatto ai deboli di stomaco. Sospendendo per un attimo il giudizio morale, come spesso bisogna fare quando si affronta la trap statunitense (quella italiana in confronto a questa somiglia a un weekend alle terme), non possiamo non apprezzare la ricchezza musicale del disco di 21 Savage e compagni.

Il brano d’apertura Ghostface killers, con i suoi omaggi ai Wu-Tang Clan e le sue tastiere malinconiche, è un saggio di bravura. Tra gli ospiti spicca Travis Scott, uno dei talenti più interessanti della scena hip hop degli ultimi anni, che aggiunge profondità alla seconda parte del pezzo.

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Elvis Costello, You shouldn’t look at me that way
È tornato Elvis Costello. Non con un nuovo album, per il momento, ma con un brano scritto per il cinema. You shouldn’t look at me that way infatti fa parte della colonna sonora del film britannico Film stars don’t die in Liverpool, ispirato alla vita dell’eccentrica attrice Gloria Grahame e ancora senza una data d’uscita in Italia.

Spiegando il testo del pezzo, Costello ha dichiarato: “Parla di due che hanno molti segreti. Tutti gli amanti hanno dei segreti. Un amante è vanitoso ma anche vulnerabile. Il titolo viene da questo. Può riferirsi a uno sguardo seducente, ma anche a una richiesta di non essere giudicato”.

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Soshi Hosoi, Mister diviner (The majhong touhhaiden)
La Hyperdub, la casa discografica britannica fondata da Steve Goodman (ai più noto come Kode9) è un’etichetta straordinaria. Non solo ha pubblicato i dischi di Burial (recentemente celebrato da un ottimo articolo del critico Simon Reynolds), Mark Pritchard, DJ Rashad, Fatima Al Qadiri e altri. Ma continua a proporre musica originale.

Uno dei progetti in cantiere è quello di Diggin’ in the carts, una compilation dedicata alle musiche dei videogiochi giapponesi degli anni ottanta nata in seguito a una serie di interessanti documentari della Redbull music academy.

Nick Dwyer, uno dei curatori della compilation (in uscita il 17 novembre), in un’intervista al sito di The Wire ha fatto notare una cosa interessante: molte persone nate negli anni ottanta (io sono una di quelle), giocando con i prodotti della Namco o della Konami hanno ascoltato la prima musica elettronica della loro vita. I videogiochi, insomma, hanno influenzato non poco la musica contemporanea.

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R.E.M., Man on the moon
Venticinque anni fa i R.E.M. pubblicarono Automatic for the people. Forse il disco più bello della band di Athens. Mi ha sempre colpito l’elegante cupezza di questi brani, a partire dall’arpeggio di Drive, che apre la strada alla voce declamante di Michael Stipe. E poi c’è The sidewinder sleeps tonite, e poi c’è Nightswimming e tanto altro. Il 10 novembre il gruppo ha pubblicato l’edizione deluxe dell’album, con registrazioni dal vivo, demo e remix.

Come spesso hanno fatto nella loro carriera, i R.E.M. non solo azzeccavano i dischi, ma anche i singoli: è il caso di Man on the moon, dedicata al comico Andy Kaufman (il film sulla sua vita, diretto da Milos Forman e con Jim Carrey, ha lo stesso titolo della canzone dei R.E.M.).

Invece che dilungarmi, preferisco dare un link utile: leggetevi su Rockol la recensione di Gianni Sibilla, un grande conoscitore della band statunitense, che ripercorre la storia del disco e spiega bene cosa contiene la ristampa appena pubblicata.

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