Dal 31 ottobre al 12 novembre a Glasgow, in Scozia, si svolgerà la 26a Conferenza delle parti (Cop26) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il trattato firmato nel 1992 per limitare il riscaldamento globale e ratificato da 196 paesi. Il vertice, che avrebbe dovuto svolgersi nel 2020 ma era stato rinviato a causa della pandemia di covid-19, è il più importante appuntamento della diplomazia internazionale sul clima dall’accordo di Parigi del 2015.

A Glasgow i paesi firmatari sono infatti tenuti a presentare la versione aggiornata dei loro contributi determinati a livello nazionale (Ndc), i piani in cui spiegano come intendono ridurre le emissioni di gas serra a livelli compatibili con l’obiettivo principale dell’accordo, ovvero evitare che la temperatura media globale aumenti di più di 1,5 gradi rispetto al periodo preindustriale. Secondo l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), che servirà da base per i negoziati, oltre questa soglia il cambiamento climatico potrebbe diventare incontrollabile e le sue conseguenze catastrofiche.

Per raggiungere l’obiettivo, entro il 2030 le emissioni globali dovrebbero calare del 45 per cento rispetto al 2010, ma finora solo 120 paesi hanno presentato i loro piani aggiornati. Mentre l’Unione europea, gli Stati Uniti e altri paesi hanno annunciato obiettivi più ambiziosi, altri hanno ribadito gli impegni precedenti o li hanno addirittura ridotti, mentre alcuni stati chiave, tra cui la Cina (il primo produttore di anidride carbonica al mondo) e l’India (il quarto) devono ancora rendere noti i nuovi piani. In base a un’analisi pubblicata dalle Nazioni Unite alla vigilia del vertice, complessivamente gli impegni attuali determinerebbero un aumento della temperatura di 2,7 gradi entro la fine del secolo. Il compito primario dei negoziatori, quindi, sarà convincere questi paesi ad allinearsi agli obiettivi degli stati “virtuosi”, nonostante la necessità di rilanciare la crescita economica dopo la crisi provocata dalla pandemia. Il loro lavoro però sarà reso più difficile dal fatto che alcuni leader mondiali, tra cui il presidente cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin, non dovrebbero partecipare alla conferenza. Il premier britannico Boris Johnson ha lanciato un appello per l’abbandono del carbone come fonte di energia entro il 2040, ma un accordo appare ancora più improbabile dopo la recente crisi energetica, che ha spinto diversi paesi a espandere l’uso di questo combustibile per soddisfare il proprio fabbisogno.

Il nodo dei finanziamenti

A Glasgow uno dei punti all’ordine del giorno sarà stabilire nel dettaglio le regole del mercato internazionale dei crediti di emissione, previsto dall’articolo 6 dell’accordo di Parigi ma non ancora realizzato. Un altro nodo cruciale riguarda i fondi che i paesi industrializzati dovrebbero versare a quelli in via di sviluppo per aiutarli nella transizione alle fonti di energia sostenibili: il Regno Unito ha proposto un nuovo calendario in base al quale il raggiungimento dell’obiettivo di cento miliardi di dollari all’anno fissato a Parigi sarà rinviato al 2035.

Gli organizzatori della conferenza dovranno anche far fronte alle forti pressioni dei paesi produttori di combustibili fossili: secondo una serie di comunicazioni riservate rivelate da Green­peace, l’Arabia Saudita, l’Australia e l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), oltre alla Cina e al Giappone, hanno ripetutamente chiesto alle Nazioni Unite che siano eliminati alcuni passaggi del rapporto dell’Ipcc sulla necessità di limitare al più presto l’uso degli idrocarburi e sia dato più spazio ad altre soluzioni – come la cattura e il sequestro dell’anidride carbonica (Ccs) – che consentirebbero di continuare a impiegare i combustibili fossili, ma sono considerate ancora troppo costose e inefficienti. Bbc

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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati