Ecco un romanzo libanese che non corrisponde agli stereotipi europei sulla letteratura mediorientale. Non ci sono reminiscenze della guerra né questioni religiose né problemi comunitari. Racconta la storia di Beirut dal 1914 in poi attraverso la storia di una tipografia. Ma vuole anche mettere in discussione la postura dello scrittore contemporaneo, facendo ridere il lettore. Fin dalle prime righe, l’umorismo di Jabbour Douaihy è evidente. Il nome dell’eroe stabilisce il tono: si chiama Farid Abu Shaar, che in arabo significa “l’unico” (farid) e “il capelluto” (abu shaar). Abu Shaar ha trent’anni e pensa di essere uno scrittore. Quando lo incontriamo, salta fuori da un autobus e corre verso una casa editrice, stringendo uno spesso quaderno rilegato in rosso: il suo manoscritto. Un libro, il suo primo, ma in cui ha messo “tutta la sostanza del suo essere”. Infatti, la sua opera è così meravigliosamente perfetta che l’ha chiamata semplicemente Il libro. Per la copertina ha pensato alla Creazione di Adamo di Michelangelo, con l’indice di Dio puntato sulla dedica, l’unica possibile: “A me”. Ahimè, facendo il giro di tutti gli editori di Beirut “il capelluto” ha ricevuto solo rifiuti. Questa incomprensione lo avvilisce a tal punto che accetta, in preda alla disperazione, un lavoro come correttore di bozze presso la tipografia Karam. Non sa cosa lo aspetta lì: un destino mille volte più incredibile di tutti i romanzi che avrebbe mai potuto immaginare. Appena assunto, Abu Shaar incontra la sublime Persefone – la moglie del capo – il cui solo nome annuncia discese agli inferi. A parte un appuntamento mensile con i vecchi amici del liceo – “i loro matrimoni falliti, le loro risate fragorose” – lei è così annoiata che, per distrarsi, si nutre dei romanzi ereditati da suo padre. Questi volumi della Série noire faranno presto eco all’incredibile imbroglio in cui si trova Abu Shaar quando Persefone fa stampare una sola copia del suo prezioso manoscritto. Un falso giallo, più profondo di quanto sembri, che celebra con umorismo l’odore dell’inchiostro, la forma dei caratteri arabi, la calligrafia. In breve, la bellezza di qualsiasi testo stampato.
Florence Noiville, Le Monde
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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati